Il discorso della premier neozelandese, Jacinda Ardern, alle Nazioni unite (Foto LaPresse)

Contro gli sguaiati

Paola Peduzzi

Li riconosceremo ovunque gli occhi di Jacinda Ardern dopo la strage in Nuova Zelanda, il suo sguardo che non nasconde sconcerto e dolore, ma proietta umanità e controllo. Quando la compostezza è un messaggio politico

Li riconosceresti ovunque, gli occhi di Jacinda Ardern, la premier neozelandese che ha gestito “il giorno più buio” del suo paese con una compostezza che è sembrata, fin dall’inizio, una forza d’acciaio. Li riconosceresti ovunque, quegli occhi, perché non ne vediamo più di sguardi così, che non nascondono lo sconcerto né il dolore, ma che trasmettono calma, umanità, equilibrio, controllo. “Rappresentiamo la diversità, la gentilezza, la compassione. Siamo la casa di chi condivide i nostri stessi valori, siamo il rifugio di chi ne ha bisogno”, ha detto la Ardern dopo che un uomo di 28 anni, un australiano, ha fatto strage di 50 fedeli musulmani nelle moschee di Christchurch, una città di quasi quattrocentomila abitanti sull’Isola del sud, quel pezzo di Nuova Zelanda che i maori chiamano Te Waka a Maui, la canoa su cui Maui, il semidio della mitologia hawaiana, pescò dal fondo del mare l’Isola del nord, l’isola più piccola ma più popolosa della Nuova Zelanda, che per i maori è appunto “il pesce di Maui”. Christchurch porta altre ferite della sua storia recente: per due anni, dal 2010 al 2012, la terra ha tremato di continuo, l’11 febbraio del 2011, nella scossa più forte, morirono 185 persone e crollarono centinaia di palazzi. Il centro di Christchurch oggi è un cantiere che parla di sofferenza e di ricostruzione.

 

Il 15 marzo scorso è piombato lo stragista australiano, con i suoi fucili d’assalto, con la sua diretta Facebook e con il suo manifesto suprematista di oltre 70 pagine inviato anche alla casella email della Ardern pochi minuti prima dell’inizio della strage. “Tu hai scelto noi – ha detto la premier rivolta al terrorista di cui non pronuncerà mai il nome – ma noi ti respingiamo e ti condanniamo nel modo più assoluto”. In quel “noi” c’è lo sconcerto e la compostezza della Ardern e di un paese intero, poco meno di cinque milioni di persone che vanno fiere della bellezza e della sicurezza delle loro isole e che ai giornalisti questuanti hanno detto: queste sono cose che non capitano, qui da noi. Un popolo piccino alla periferia del mondo che, nel suo giorno più buio, diventa riconoscibile, chiarissimo, e proietta una luce a centinaia di chilometri di distanza, qui da noi: è lo sguardo di Jacinda, il contegno e il garbo che abbiamo smesso di distinguere, di ammirare anche, immersi come siamo nella nostra maleducata sguaiataggine.

 

Quando la Ardern è stata nominata premier, nell’ottobre del 2017, ci fu subito un gran clamore: non sapevamo nulla di lei, né naturalmente della Nuova Zelanda, ma una bella donna di 37 anni che diventa primo ministro è sufficiente per organizzare titoli e pagine con tante fotografie. In poco tempo è scoppiata la “Jacindamania”, che si è risolta in trafiletti (con foto) di lei che annuncia la sua gravidanza, di lei che le canta a Donald Trump, di lei che riceve Barack Obama e gli fa un’unica, precisa, garbatissima domanda: “Ma tu, padre e presidente, come lo gestisci il senso di colpa?”. Sua figlia era ancora nella pancia, ma la Ardern intuiva già la tempesta pubblica e privata in arrivo.

 

“Rappresentiamo la diversità, la gentilezza, la compassione. Siamo la casa di chi condivide i nostri valori, il rifugio di chi ne ha bisogno” 

In privato, ha accolto i consigli di Obama, quel banalissimo “cerca di fare del tuo meglio” che sostiene generazioni di genitori; in pubblico ha zittito chi le chiedeva: come fai a fare il premier e gestire la maternità e poi il bebè? con una risposta magnifica: “Non sono mica malata, sono incinta!”. Poi si è presentata all’Assemblea delle Nazioni Unite, nell’autunno dello scorso anno, con Neve Te Aroha in braccio (Neve deriva dal nome irlandese Niamh, vuol dire luminosa, Te Aroah significa amore in maori) e il marito al fianco. Lui, Clarke Gayford, si è preso preventivamente cura dei sensi di colpa, la Ardern ha annunciato su Twitter che Clarke sarebbe diventato un padre casalingo e lui si è rivelato molto presente e persino molto sorridente. Gayford è una star, in Nuova Zelanda: conduce una trasmissione seguitissima sulla pesca. Soffri per questo tuo ruolo da comparsa? No, dice lui, da sempre cucino meglio di Jacinda. E tutta questa notorietà ti pesa? Prima era fidanzato con un’attrice di “Shortland Street”, risponde Jacinda, va bene così (“Shortland Street” è una soap opera famosa in Nuova Zelanda).

 

Giovane, bella, donna, madre, con marito docile: la Jacindamania era già scritta, non c’era nemmeno bisogno di sapere come la pensasse, questa leader esotica dallo sguardo indimenticabile. In realtà la Ardern era anche una novità politica, o meglio, una boccata d’aria fresca: una leader moderata di sinistra, che aveva lavorato per qualche tempo nell’ufficio dei consiglieri politici dell’allora premier britannico Tony Blair, quanto basta per definirla “blairiana” (allora non aveva mai incontrato di persona Blair: lo ha fatto nel 2011, in Nuova Zelanda, e gli ha chiesto conto dell’invasione dell’Iraq). Figlia di un poliziotto e di una addetta alla mensa di una scuola, la Ardern è cresciuta in una piccola città a sud di Auckland, in una zona working class e conservatrice. I suoi genitori avevano un frutteto di mele e pere che vendevano nei mercati e fin da piccola Jacinda li aiutava: appena ha potuto si è messa alla guida del trattore. Quando da adolescente iniziò a partecipare alle attività del Partito laburista – su invito di una zia, che si era candidata con i laburisti – i suoi amici la prendevano in giro: era un corpo estraneo, in quel mondo in cui si iniziava a lavorare presto e non si avevano grilli per la testa, e anche Jacinda pensava che nella vita avrebbe comunque fatto tutt’altro (compreso il clown).

Jacinda Ardern ai funerali delle vittime della strage di Christchurch (Foto LaPresse)

  

Qualche tempo fa, a un incontro pubblico, ha detto: “Non ho mai pensato di diventare primo ministro perché non avevo mai considerato nemmeno l’ipotesi. Ma questo è il potere di saper dire di sì: arriva sempre il momento in cui qualcuno ti chiede di fare qualcosa fuori dalla tua comfort zone. Non sono certo la sola”. Progressista e fiduciosa della globalizzazione, la Ardern è emersa con uno slogan semplice e garbato: “Let’s do it”, e nel tempo è stata paragonata sia a Hillary Clinton (fattore donna, sapete: ci assomigliamo tutte) sia a Bernie Sanders, perché nella sua retorica è entrato spesso il concetto di “cambiare il sistema”. Lei lo intende nella maniera tradizionale dei progressisti – c’era un tempo, nemmeno lontanissimo, in cui il cambiamento era moderato e di sinistra: con Obama, per dire – e aggiunge che uno dei problemi della sinistra è che è sulla difensiva: siamo accusati di essere parte del sistema, dice la Ardern, e invece che cambiarlo da dentro lasciamo che sia un informe fuori a trasformarlo. Questo non ha impedito alla Ardern di utilizzare sovente toni cosiddetti populisti: come ha scritto un commentatore politico, “Jacinda comunica il radicalismo che è parte dello Zeitgeist,” ma lo fa con un ottimismo gentile, garbato, rispettoso, equilibrato, composto. Moderato, si può dire.

  

Se inveisci dai palchi o da Twitter stai soltanto urlando: nessuno si sente più protetto o più fiducioso. La compostezza d’acciaio è controllo

Questa stessa compostezza si è mostrata con tutta la sua potenza nel momento del dolore. La Ardern è andata a porgere le condoglianze in moschea, ha chiesto ai fedeli: ditemi di cosa avete bisogno, avrete tutto il nostro sostegno. Donald Trump le ha telefonato, dimmi che cosa posso fare per te, le ha chiesto, e lei ha risposto: “Ribadisci quel che proviamo e pensiamo in Nuova Zelanda, mostra partecipazione e affetto alle comunità musulmane” (i suoi trascorsi con il presidente degli Stati Uniti sono sintetizzabili così: al primo incontro, Trump ha scambiato la Ardern per Sophie Trudeau, la moglie del premier canadese; al secondo incontro Trump ha detto indicandola: “Questa signora ha causato molto turbamento nel suo paese”, e lei: “Almeno nessuno è sceso in piazza quando sono stata eletta”).

 

Jacinda è andata più volte a Christchurch, si è messa il velo, ha abbracciato i parenti delle vittime, ha ripetuto: “Non possiamo sapere quanto è grande il vostro dolore, ma siamo qui, e vi seguiremo in ogni vostro passo”. L’Herald, un giornale conservatore che l’ha spesso criticata in passato, ha elogiato la sua combinazione di “solace and steel”, sollievo e conforto e forza d’acciaio. Agli abbracci nelle scuole, nei luoghi di culto, nelle veglie funebri, alle parole di consolazione, con quello sguardo rassicurante e scosso, la Ardern ha aggiunto una risposta politica rapida e precisa: ha ottenuto la revisione della legge sulle armi, con restrizioni alla vendita e il divieto di portare armi semiautomatiche. Tentativi simili erano già stati fatti nel 2005, nel 2012 e nel 2017: fallirono tutti.

 

In settantadue ore, la Ardern ha preso i suoi partner di coalizione, il partito New Zealand First, che ha una storia da “first” per l’appunto, anti immigrazione e contrario alle restrizioni sulle armi, e l’ha convinto a lavorare insieme per modificare la legge. In conferenza stampa, la Ardern è andata con il suo vicepremier e ministro degli Esteri, leader di New Zealand First, Winston Peters: la premier ha annunciato il cambiamento, ha chiesto ai possessori di armi di consegnare volontariamente le loro armi vietate, e alla prima domanda sul cambiamento in corso ha detto: a questa risponde lui. Peters, dopo anni di battaglia a favore delle armi, dopo mesi di coabitazione burrascosa come solo certe convivenze sanno essere, ha detto: “All’una del 15 marzo il nostro mondo è cambiato per sempre, e così dovranno cambiare anche le nostre normative sulle armi”.

  

La visita ai fedeli musulmani, il velo, gli abbracci, le veglie e poi in settantadue ore la modifica alla legge sul controllo delle armi 

La Ardern ha anche detto – scelta retorica robusta – che non dirà mai il nome dell’attentatore, non gli darà la notorietà che andava cercando. Per questo si è parecchio seccata quando il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, in un comizio elettorale dello scorso fine settimana (in Turchia si vota domenica prossima alle elezioni locali ed Erdogan teme di perdere il controllo di alcune grandi città: ha bisogno di alzare i toni) ha mostrato buona parte del video che il terrorista di Christchurch ha girato e postato, quello che i social hanno cercato di rimuovere senza riuscirci. Voleva denunciare gli islamofobi e la guerra all’islam, Erdogan, ma martedì ha criticato la Nuova Zelanda e l’Australia perché avevano inviato soldati in Turchia durante la campagna di Gallipoli contro le forze ottomane, nella Prima guerra mondiale, e ha chiesto alla Nuova Zelanda di introdurre la pena di morte. Non pago, Erdogan ha aggiunto che chi arriva in Turchia con idee o parole antimusulmane sarà rispedito a casa in una bara “come accadde ai loro nonni” dopo la battaglia di Gallipoli. La Ardern, in conferenza stampa da Christchurch, ha detto che avrebbe inviato Peters (sempre lui, il leader del “first”) ad Ankara “per affrontare i commenti fatti dalla Turchia. Andrà lì per mettere le cose in chiaro, faccia a faccia”.

 

La Ardern ha anche criticato il colossi tecnologici che controllano i social media, in particolare Facebook: “Non possono essere solo profitto senza responsabilità”, ha detto. E soprattutto non si può lavorare da soli, caso su caso, rincorrendo l’odio, cercando di fermarlo quando ormai ha già fatto le sue stragi e le sue vittime, invece che cercare di prevenirlo. Lo sappiamo, ha detto la Ardern, che i social media sono stati utilizzati per diffondere odio e violenza, non c’è più bisogno di prove o di testimonianze o di report o di dimostrazioni: c’è bisogno di un’azione collettiva.

 

Quando finiranno i funerali, questo garbo d’acciaio dovrà tornare agli scontri della politica quotidiana, e alcuni temono che anche la Nuova Zelanda sarà contagiata dalla nostra polarizzazione sboccata: assieme alla strage l’attentatore di Christchurch ha portato le guerre culturali che già tormentano l’occidente. Ma la luce che è arrivata dalla Nuova Zelanda non si spegnerà in fretta: abbiamo scoperto – riscoperto anzi: lo sapevamo – che se urli e alzi la voce e ti agiti e rilanci e gesticoli e ti arrabbi non vuol dire che hai il controllo della situazione. Ci siamo abituati a procedere per esclamazioni e volgarità, secondo questa sciagurata teoria del “leader forte” che più è aggressivo più è rassicurante.

  

Giovane, bella, donna, madre, con marito docile: la Jacindamania era già scritta, non c’era bisogno di sapere come la pensasse

Invece no: se inveisci dai palchi o da Twitter stai soltanto urlando: nessuno si sente più protetto o più al sicuro o più fiducioso. Il controllo è lo sguardo di Jacinda, la compassione, l’equilibrio, il garbo, la protezione, la compostezza, l’abbraccio, il ministro riottoso spedito a fare l’ambasciatore della tua leadership d’acciaio. Nel centro di Christchurch, attorno alla cattedrale distrutta dal terremoto, c’è una scritta illuminata al neon, tutta colorata, che fu commissionata nel 2015 all’artista britannico Martin Creed. Molti hanno detto in passato che era un po’ banale. In questi giorni la fotografano tutti, si fanno i selfie, vedono riflesso nel neon lo sguardo di Jacinda, che è arrivato fino da noi, con la sua dedizione d’acciaio. La scritta è così: “Andrà tutto bene”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi