Abdel Fattah al Sisi durante la sua intervista alla Cbs

Se al Sisi suda in diretta tv

Rolla Scolari

Il presidente egiziano ha rilasciato un’intervista alla Cbs, ma poi si è pentito. Arriva Pompeo al Cairo con in testa un discorso che ribalta la dottrina Obama

Perché il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi abbia accettato di farsi intervistare dall’emittente americana CBS resta difficile da capire. Come difficile è capire quale idea sia passata esattamente per la testa del suo staff di comunicazione. L’intervista allo storico programma 60 Minutes, che il governo egiziano ha poi voluto bloccare, è andata in onda pochi giorni fa, con un fracasso mostruoso dovuto proprio al tentativo di censura. E’ stata perfino accompagnata da un breve appendice intitolata: “Come l’Egitto ha provato a uccidere una intervista a 60 Minutes”.

 

 

Dopo aver guardato il programma, è faticoso credere che, come emerso sui media internazionali e online, il Cairo abbia tentato di cancellare quei 13 minuti perché uno scafato militare, ex generale, ex comandante in capo delle Forze armate ed ex ministro della Difesa si sarebbe lasciato sfuggire – è vero, per la prima volta ufficialmente – un’ovvietà geopolitica data per assodata da anni: la stretta cooperazione tra eserciti israeliano ed egiziano nel contenimento di gruppi jihadisti nel Sinai. Poco più di un anno fa, il New York Times aveva già raccontato i dettagli di una “alleanza segreta” di cui si discute in realtà da tempo. La visita a luglio 2016 del ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry in Israele dopo nove anni di assenza di funzionari del Cairo aveva rinsaldato pubblicamente un’alleanza sulla sicurezza che si è costruita in decenni attorno all’instabilità del Sinai e della Striscia di Gaza, tra due nazioni che nel 1979 hanno siglato un trattato di pace. Si era allora letto addirittura di una gioviale serata tra Shoukry e Benjamin Netanyahu: i due, nella residenza del premier israeliano, avrebbero guardato assieme la finale degli europei tra Francia e Portogallo.

 

Come hanno osservato alcuni sui social network, è più probabile che ad allarmare le autorità egiziane siano invece state le pressanti domande del giornalista Scott Pelley sul massacro del sit-in dei Fratelli musulmani in piazza Rabaa al Adawiya al Cairo nel 2013, la repressione dell’opposizione, i prigionieri politici. All’inizio del programma, il giornalista ammette d’essere rimasto sorpreso dalla volontà di Sisi d’essere intervistato. Probabilmente, hanno detto lui e la producer Rachel Morehouse nel segmento che spiega i retroscena del programma e la richiesta di cancellazione egiziana, ha prevalso la volontà del presidente e del suo staff di far apparire il leader su una prestigiosa piattaforma come quella di 60 Minutes, su cui sono comparsi negli anni i più importanti attori della politica mediorientale.

 

Quando però a settembre 2015 su quella poltrona si è seduto il presidente iraniano Hassan Rohani, era stato firmato da pochi mesi uno storico accordo nucleare tra comunità internazionale e Iran. Teheran usciva dall’isolamento e dalle sanzioni come un nuovo possibile interlocutore. E a marzo 2018, Mohammed bin Salman era ancora un possibile “riformatore” che sbarcava in America per andare a pranzo con i ricchi investitori della Silicon Valley e attirarli nel Golfo. Sarebbe difficile immaginare oggi, dopo l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, i brutali dettagli emersi a riguardo e le accuse a sua carico, il giovane principe ereditario saudita presentarsi davanti alle telecamere, senza aver potuto leggere in anticipo le domande dei giornalisti americani.

 

Le domande dell’intervista di Sisi non sono state concordate in anticipo, come accade di regola a 60 Minutes. L’obiettivo, ha detto poi il veterano Pelley, era fare al presidente egiziano “le domande che non gli pongono a casa”. “Questo è un uomo che è stato accusato dei peggiori abusi nel corso di anni nel suo Paese”.

Ha un’idea di quanto prigionieri politici detenete? Fin dalla prima domanda, Sisi appare teso, non a proprio agio. Si vede chiaramente che non vorrebbe trovarsi su quella sedia: non guarda in camera, è visibilmente preoccupato, ha il mento sudato. “Non abbiamo prigionieri politici, né d’opinione. Cerchiamo di opporci agli estremisti che impongono la loro ideologia alle persone”.

Presidente, l’organizzazione Human Rights Watch dice che ci sono 60mila prigionieri politici che detiene oggi, mentre siamo qui seduti.

I Fratelli musulmani sono anche il partito d’opposizione più importante. E’ per questo che sono stati messi fuori legge?

Presidente, ho parlato a diversi suoi connazionali che rifiutano di chiamarla Presidente perché dicono che lei è un dittatore militare. Sisi chiude gli occhi e ride. “Non so con chi lei abbia parlato. Ma 30 milioni di egiziani sono scesi in strada per respingere il regime di allora. Era un dovere rispondere alle loro volontà. In secondo luogo, il mantenimento della pace dopo quel periodo richiedeva alcune misure per riportare la sicurezza”. Lo stacco della telecamera su un servizio sugli 800 morti di Rabaa è pesante come le domande che seguono: Ha dato lei l’ordine? (di attaccare Rabaa).

Lei è un militare, ha studiato con i militari americani. Secondo lei questa è uso proporzionato della forza? Sisi parla di estremisti armati e la CBS manda in onda la conferenza stampa in cui le autorità egiziane dichiarano di aver trovato dopo l’attacco al sit-in una dozzina di armi nell’accampamento. Il presidente è visibilmente in difficoltà: “Non so come loro avessero 15  o 16 armi, vorrei dire agli americani che la situazione sul terreno avrebbe potuto distruggere lo Stato egiziano a causare una massiccia instabilità, più di quanto è possibile. Quando c’è un confronto armato con molte persone, è difficile controllare la situazione e decidere chi ha ucciso chi”.

 

La parte dell’intervista dove Sisi appare più rilassato è forse quella sulla cooperazione con Israele.

E così, l’intero programma, intervista al leader con stacchi su servizi e interviste secondarie a un membro dei Fratelli musulmani, Abdul Mawgoud Dardery, a Mohammed Soltan, cittadino egiziano con passaporto americano arrestato mentre filmava i fatti di Rabaa, e Andrew Miller, del National Security Council di Barak Obama, incalza senza pietà e non risparmia assolutamente nulla al presidente che forse, in virtù della sua alleanza con l’Amministrazione Trump e il buon rapporto con il leader americano pensava a tutt’altro svolgimento. E che negli Stati Uniti come in Egitto i media tarassero il proprio comportamento e contenuto su quello dei politici al potere.

 

Nelle stesse ore, Donald Trump tuittava il suo sostegno al rais e il suo entusiasmo per la presenza di Sisi alla messa per il Natale copto-ortodosso – celebrato il 7 gennaio – nella cattedrale inaugurata nella nuova capitale amministrativa dell’Egitto. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha scelto proprio il Cairo per un difficile discorso che terrà giovedì 10 gennaio sui nebulosi destini della disordinata politica dell’Amministrazione Trump nella regione. E 60 Minutes introduce la sua intervista a Sisi ricordando come l’Egitto, con i suoi pessimi record sui diritti umani sia, dopo Israele, il Paese dove finiscono miliardi di dollari dei contribuenti americani. Questo sostegno produce sempre lo stesso dibattito al Congresso: è giusto sostenere autocrati che si allineano alla guerra al terrorismo americana e garantiscono la stabilità, ma hanno pessimi record sui diritti umani?

 

“Da quando Sisi è al potere – spiega a 60 Minutes Andrew Miller – il tenore di vita è diminuito. Il Paese è a pezzi. Il problema dell’insurrezione in Sinai è peggiorato. E’ sostenuta dallo Stato Islamico, ed entra nel suo sesto anno. Ci sono state incarcerazioni di massa di attivisti pacifici accanto a quelle di incalliti jihadisti, che minacciano di convertire più egiziani al terrorismo. Questa mi sembra una ricetta per la stessa instabilità che Sisi dice di voler prevenire”.

Di più su questi argomenti: