Una manifestazione dell'AfD a Chemnitz (foto LaPresse)

Il dilemma dei partiti tedeschi: isolare o normalizzare l'AfD?

Daniel Mosseri

"A destra della Csu non ci può essere alcun partito legittimato democraticamente", diceva Franz Josef Strauß nel 1986. Oggi la Germania fa i conti con una realtà capovolta: "Gli antisistema non possiamo farli sparire"

Berlino. Nel 2013 il politologo della Freie Universität Berlin Gero Neugebauer vi aveva letto “un segnale della normalizzazione ed europeizzazione della vita politica tedesca”. Alternative für Deutschland (AfD), un partito allora apertamente euroscettico, si affacciava sulla porta della politica tedesca. Cinque anni dopo il panorama è rivoluzionato: abbandonata (ma non rinnegata) la retorica antieuro, AfD ha sterzato vigorosamente a destra inserendosi nel novero delle formazioni populiste e xenofobe. In pochi anni il partito ha espugnato i 16 Parlamenti dei Länder tedeschi e a settembre 2017 è entrato a gamba tesa nel Bundestag con 92 deputati. Con l’avvio di un nuovo governo di grande coalizione, AfD è diventato automaticamente il primo partito d’opposizione. Il ruolo è quasi istituzionale eppure, 14 mesi dopo l’avvio della legislatura, AfD è l’unico gruppo ancora senza un vicepresidente del Bundestag nella propria scuderia. A ottobre 2017 AfD aveva candidato l’accanito islamofobo Albrecht Glaser, che è stato bocciato dagli altri deputati. Ma due settimane fa anche la più spendibile Mariana Harder-Kühnel è stata impallinata dall’assemblea.

 

Nella mancata elezione del vicepresidente del Bundestag si può leggere la reazione prevalente dei partiti tedeschi davanti all’ascesa elettorale della formazione xenofoba: il cordone sanitario. La Germania sembra ancora impegnata a metabolizzare lo choc derivato dal crollo del postulato di Franz Josef Strauß. “A destra della Csu non ci può essere alcun partito legittimato democraticamente”, aveva detto nel 1986 l’ex governatore bavarese commentando inorridito il 3 per cento ottenuto quell’anno dai Republikaner nella sua Baviera. Sondaggi alla mano, oggi AfD vola fra il 13 e il 15 per cento dei consensi su scala nazionale. Come i Republikaner, AfD si definisce partito nazionalista e conservatore; a differenza invece dei neonazisti della Npd nega ogni nostalgia per il Terzo Reich. Nei fatti, però, AfD parla con lingua biforcuta e pur non rimpiangendo il regime hitleriano ne mutua la violenza del linguaggio, e a volte i simboli. Così da un lato c’è chi nel partito definisce il memoriale dello sterminio degli ebrei che campeggia accanto al Bundestag “una vergogna” e dall’altro chi promuove la nascita di una sezione ebraica nel partito. Chi prende le distanze dal Terzo Reich e chi lo definisce “una cacchina di uccello nella storia della Germania”. Senza dimenticare il deputato al Parlamento regionale berlinese Andreas Wild che ha partecipato a una marcia per commemorare la Shoah indossando all’occhiello un fiordaliso, simboli dei nazisti austriaci. Lessicale e politica, l’ambiguità è la chiave di lettura di AfD, un partito che si dice anti-immigrati e a favore della famiglia tradizionale ma la cui giovane co-leader Alice Weidel è sposata con una donna di origine indiana.

 

Il partito pesca in diversi serbatoi elettorali: quello tradizionale dell’estrema destra xenofoba (i Republikaner ottennero il 7,1 per cento alle Europee del 1989); quello dei conservatori “traditi” da una Merkel centrista (il suo predecessore Helmut Kohl era per rimpatriare i Gastarbeiter turchi); e quello di chi prima non votava. Oggi i deputati verdi, socialdemocratici o della Cdu non prendono neppure l’ascensore con i colleghi della destra, ma la politica dell’isolamento non solo non paga, ma fa apparire AfD come quel partito antisistema che non è, vuoi per essere guidata da un volpone di lungo corso cristiano democratico (Gauland ha 77 anni, tantissimi per la media dei politici tedeschi), vuoi perché AfD è già incorsa in una serie di infrazioni della legge sul finanziamento dei partiti. Fino allo scorso settembre, la Csu ha cercato di rincorrere la formazione xenofoba sul terreno del linguaggio e dei simboli: così Horst Seehofer ha voluto che il ministero degli Interni diventasse anche del Heimat (“della patria”), e in un paese con cinque milioni di musulmani ha detto che “l’islam non appartiene alla Germania”. La cura Seehofer non ha funzionato e nella sua pur ben amministrata Baviera, AfD ha raccolto il 12,4 per cento dei voti. Più pratico, forse, è l’approccio suggerito da Friedrich Merz, il candidato alla guida della Cdu appena sconfitto di stretta misura dalla neo presidente del partito Annegret Kramp-Karrenbauer. “AfD esiste, i suoi voti sono bloccati e non possiamo farla sparire. Ma metà dei suoi elettori sono ex sostenitori della Cdu oggi delusi”. Gli orfani cioè di Kohl, sì europeista e atlantico, ma anche integralmente conservatore. “Recuperiamo i loro voti e dimezzeremo quelli di Alternative für Deutschland”, ha proposto Merz. Non rincorrerli, dunque, in un improduttivo esercizio lessicale – ribattezzare il ministero degli Interni è costato alcune decine di migliaia di euro in spese di cancelleria – ma separarli dalla schiuma razzista e riconquistarli nel nome della buona politica.

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