Il candidato alla Corte suprema Brett Kavanaugh interviene davanti al Senato americano (Foto LaPresse)

Dianne Feinstein sapeva da luglio delle accuse a Kavanaugh, ma ha taciuto. Perché?

Paola Peduzzi

La storia della senatrice dem eletta nel 1992, l’anno delle donne (espressione che le donne allora detestavano), spiega il dibattito attuale

Milano. Dianne Feinstein ha aspettato, lei sapeva già da tempo, da luglio, ma ha aspettato. Per difendere un’altra donna, dice, per rispetto della privacy e della reticenza di questa donna a denunciare un fatto accaduto trent’anni fa, mettendoci nome, faccia, professione, famiglia. Quando i media – The Intercept, per la precisione – ha fatto trapelare la notizia, c’è una professoressa in California che accusa il giudice nominato alla Corte Suprema Brett Kavanaugh di tentata violenza sessuale quando erano entrambi ragazzi, la senatrice Feinstein ha deciso di rivelare quel che sapeva: ai colleghi della commissione Giustizia del Senato che avevano finito le audizioni di Kavanaugh e si preparavano alla votazione finale, la Feinstein ha detto di essere a conoscenza della storia.

 

In una lettera, a luglio, la professoressa – Christine Blasey Ford – aveva raccontato alla Feinstein quel che era accaduto in una casa nel Maryland, all’inizio degli anni Ottanta, a una festa di ragazzi: Kavanaugh ubriaco, la spinta sul letto, la mano sulla bocca, la paura, la fuga, la salvezza, il trauma. Non so se voglio espormi personalmente, scriveva però la Ford, e anche se la Feinstein aveva chiesto spiegazioni e insistito, è una rivelazione molto grave non si può tacere, la professoressa continuava a essere riluttante. Poi ci sono state le indiscrezioni, la Feinstein ha parlato con i colleghi, Kavanaugh ha iniziato a negare e la Ford ha accettato di farsi intervistare dal Washington Post: ho pensato che avrebbe potuto uccidermi, ha detto la Ford, e ogni cosa è cambiata, per lei, per Kavenaugh, per il Senato, per la Feinstein.

 

Perché la Feinstein “non ha parlato prima?”, chiedono i suoi colleghi. I repubblicani intravvedono un piano studiato a tavolino, il colpo di scena a un passo dalla conferma del giudice cui il mondo conservatore tiene tantissimo, con possibile slittamento dei tempi, che significa avvicinarsi alle elezioni di mid-term. Lo stesso Trump ha detto che la Feinstein e il suo silenzio sono la rappresentazione della politica dei democratici, “fanno ostruzionismo e resistenza, questa è la campagna contro di me”. Ma anche alcuni democratici si pongono la stessa domanda – il suo sfidante alle midterm, Kevin de León, lo fa con enfasi interessata – , con stupore: perché non ha detto nulla? La Feinstein è in Senato da decenni, sa una cosa tanto rilevante, è nella commissione decisiva, e tace? La senatrice risponde a ognuno allo stesso modo: senza il consenso della Ford, non volevo, non potevo dire nulla. Non soddisfa nessuno dei suoi interlocutori, ma questa vicenda, e trovarsi al centro di questa vicenda, è per la Feinstein un tuffo nel passato, una retrospettiva sulla propria carriera al Congresso nel mezzo di “un incendio culturale, politico e sociale – scrive il Washington Post – reso ancora più esplosivo dalla presidenza polarizzante di Trump e dalle forze del #metoo”.

 

La Feinstein – che al mid-term si candida per essere riconfermata per la sesta volta – è entrata per la prima volta al Congresso nel 1992, in quello che è stato definito “l’anno delle donne” – le donne, allora, quelle che furono elette in numero mai visto alla Camera e al Senato, non amavano affatto quella etichetta: “È come dire che è l’anno dei caribù – disse la senatrice Mikulski, che è stata a Washington fino all’anno scorso – o l’anno dell’asparago. Noi non siamo una moda, non siamo un lusso, non siamo nemmeno un anno”. Buona parte di quell’ondata femminile fu determinata da quel che era accaduto l’anno prima: la testimonianza al Senato di Anita Hill, che accusava il giudice nominato alla Corte Suprema Clarence Thomas, di molestie sessuali. Il giudice fu confermato, ma quell’audizione in diretta, la commissione composta da soli uomini, le rivelazioni sul linguaggio e l’atteggiamento di Thomas finirono per incoraggiare molte donne a mettersi in gioco: mai come quell’anno ci furono tante candidate per Camera e Senato, in tutta l’America.

 

Non è un caso che i giornali americani oggi siano pieni di riferimenti a quel momento della storia politica del paese, perché anche ora ci sono moltissime candidate per le elezioni di mid-term (l’argine al trumpismo è femmina, si dice) e perché anche ora c’è un giudice che deve affrontare un’accusa di molestie. In mezzo però sono cambiate molte cose: allora l’opinione pubblica non si schierò mai dalla parte della Hill, secondo i sondaggi più di metà del paese ha sempre creduto più a Thomas che alla Hill. Sono passati ventisei anni, e in più c’è il #metoo. Sul suo ultimo numero, la rivista Time ha messo in copertina il giudice Kavanaugh con la mano alzata per il giuramento, e dietro di lui, come uno spettro che incombe, c’è il giudice Thomas con la stessa mano destra alzata: “Cosa è cambiato” è il primo titolo, “#metoo, un anno dopo” è il secondo. Ridurre la vicenda di Kavanaugh all’ultimo capitolo del #metoo è riduttivo, la questione è molto più estesa e articolata, ma per la Feinstein c’è anche un risvolto personale importante, per lei e per quel che rappresenta: che cosa ho cambiato io?

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi