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L'Europa a pezzetti

David Carretta

L’80 per cento della Svezia è europeista e liberale. Il problema ora però è governare la frammentazione che tormenta l’Ue più del populismo. Tutti i casi, e alcune soluzioni

Strasburgo. I risultati delle elezioni di domenica in Svezia hanno dimostrato ancora una volta che la malattia di cui soffre l’Europa non è soltanto il populismo, con le sue diverse declinazioni nazionali, ma la frammentazione dei sistemi politici, che impedisce la formazione di governi stabili con una chiara agenda politica.

  

L’estrema destra dei Democratici svedesi, che secondo alcuni sondaggi avrebbe dovuto trionfare collocandosi davanti a tutti i partiti tradizionali, si è fermata al 17,6 per cento, ben al di sotto del 20-24 per cento che in molti avevano previsto. Per un paese che era stato descritto in preda all’isteria “legge e ordine” a causa dell’impennata della criminalità e del numero di migranti accolti, la Svezia si è dimostrata decisamente resiliente alle sirene del populismo: come in Olanda e in Germania, quasi l’80 per cento dell’elettorato ha votato per partiti che possono essere considerati europeisti e attaccati ai valori della democrazia liberale, a cominciare dai socialdemocratici del premier Stefan Löfven e dai Moderati di Ulf Kristersson. Ma, come in Olanda e Germania, la politica atomizzata lascia più spazio al populismo anti liberale.

 

Per valutare i risultati del voto in Svezia è necessario partire dal contesto: 163 mila richiedenti asilo arrivati nel solo 2015, che hanno portato la popolazione svedese nata all’estero al 17 per cento. I Democratici svedesi e il suo leader Jimmie Akesson speravano di poter capitalizzare anche su diversi episodi di criminalità scoppiati nel corso degli ultimi anni nelle periferie di alcune grandi città, oltre a cavalcare l’onda lunga della popolarità di altri populisti: il referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump nel 2016, Marine Le Pen al secondo turno delle presidenziali in Francia e Alternativa per la Germania per la prima volta al Bundestag nel 2017, e l’arrivo al potere a Roma della coalizione tutta populista tra Movimento 5 stelle e Lega in giugno. Gli elettori svedesi hanno smentito le cassandre che annunciavano la fine della democrazia svedese e dell’Europa. I Socialdemocratici del primo ministro Löfven hanno ottenuto il peggior risultato della loro storia, ma con il 28,4 per cento sono riusciti a limitare i danni e a restare la prima formazione del paese. Anche i Moderati di Kristersson hanno perso terreno rispetto al 2014, ma grazie a un sorpasso effettuato negli ultimi giorni di campagna elettorale, hanno sfiorato il 20 per cento e relegato i Democratici svedesi di Akesson in terza posizione. Alcune forze chiaramente europeiste hanno guadagnato terreno, come il Centro che si è piazzato al quarto posto con l’8,6 per cento, il 2,3 per cento in più rispetto a quattro anni fa. Gli ex comunisti di Sinistra, che difficilmente possono essere catalogati come populisti antisistema visto che stanno al governo con Löfven, hanno chiuso con un più 2,2 per cento al 7,9 per cento. Ma complessivamente sono i partiti che entrano in Parlamento, senza che nessuno dei due blocchi abbia la maggioranza assoluta.

 

Il successo dei Democratici svedesi, per quanto involontario, è di aver contribuito a un sostanziale pareggio che potrebbe paralizzare la Svezia per alcuni mesi: 144 deputati per il blocco di Löfven (Socialdemocratici, Verdi e Sinistra) contro 143 per l’Alleanza (Moderati, Centro, Liberali e Cristiano-democratici). I governi di minoranza non sono di per sé un problema per la Svezia, che come altri paesi nordici è abituata ad accordi per far entrare in funzione un esecutivo e permettere l’adozione della manovra di bilancio anche senza la maggioranza assoluta in Parlamento. Era accaduto nel 2014, quando Verdi e Socialdemocratici formarono un esecutivo con l’appoggio esterno della Sinistra e l’astensione del centrodestra, senza avere i numeri in Parlamento. Ma la Svezia rischia comunque di incamminarsi verso lunghi mesi di negoziati per la formazione del prossimo esecutivo, come era accaduto in Olanda nel 2016 e in Germania nel 2017. Dopo la pubblicazione dei risultati domenica, Löfven ha subito invocato la necessità di “seppellire la politica dei blocchi”, tendendo la mano ai conservatori per formare un governo “grande costellazione” contro l’estrema destra. Sui temi su cui hanno speculato i Democratici svedesi (immigrazione e criminalità), il governo Löfven ha preso provvedimenti duri: l’introduzione di controlli alle frontiere sugli ingressi dalla Danimarca il 12 novembre 2015 e una stretta alla politica di asilo nel giugno del 2016, che hanno fatto calare in modo netto gli ingressi. Ma Kristersson e l’Alleanza pretendono le dimissioni di Löfven e se non saranno presentate entro il 25 settembre – giorno di apertura del Parlamento – hanno annunciato che voteranno la sfiducia.

 

Alcuni tra i conservatori si stanno facendo tentare dall’appoggio dei Democratici svedesi: in altri paesi scandinavi, la frammentazione ha fatto saltare il cordone sanitario contro l’estrema destra . In Norvegia e Svezia, i populisti sono al governo, mentre in Danimarca garantiscono la sopravvivenza di un esecutivo liberale. Ma in Svezia gran parte dei leader dell’Alleanza rifiuta l’offerta dei Democratici svedesi e preferisce collaborare con i Socialdemocratici. L’esito delle trattative a Stoccolma è difficile da immaginare. Ma la Svezia sembra destinata a restare nel gruppo sempre più ampio di paesi dell’Ue – Germania, Olanda, Danimarca, Spagna, Portogallo, Repubblica ceca, Slovenia, Croazia, Irlanda, Lituania, Regno Unito – in cui il governo può essere esercitato solo attraverso grandi coalizioni o minoranze parlamentari.

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