Quando il negoziato si fa duro

C'è chi bluffa, ci si dispera, chi fa marcia indietro, chi va d'accordo con tutti tranne che con gli amici, chi fa offerte impossibili. Appunti internazionali di trattative col fiato corto

IRAN – L’Europa non ha una superpotenza di scorta che sostituisca l’America. Così è difficile salvare l’accordo sul nucleare

di Paola Peduzzi

 

Milano. Gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare con l’Iran, e ora oltre a reintrodurre le sanzioni che erano state sospese con il patto – voi iraniani fermate l’arricchimento dell’uranio che porta all’arma atomica, noi occidentali, con Russia e Cina, vi togliamo l’embargo – vogliono metterne altre. Il ministero del Tesoro ha imposto sanzioni a Valiollah Seif e Ali Tarzali, il governatore della Banca centrale iraniana e uno dei suoi più stretti collaboratori: sono accusati di aver trasferito milioni di dollari dalle forze al Quds delle Guardie della Rivoluzioni a Hezbollah, il gruppo libanese che è sulla lista americana delle organizzazioni terroristiche. “E’ tremendo ma non sorprendente – ha detto il segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin – che la figura più senior del mondo bancario iraniano lavori con le Forze al Quds per facilitare il finanziamento di un gruppo terroristico come Hezbollah, e questo sminuisce ogni genere di credibilità dell’istituzione che lui rappresenta”. La settimana scorsa, Washington aveva sanzionato una rete di cambio valuta basato negli Emirati arabi uniti che, secondo il governo americano, trasferiva milioni di dollari alle forze Quds: l’obiettivo dell’Amministrazione Trump è lo smantellamento della rete di finanziamento delle Guardie della Rivoluzione, che sponsorizzano le attività di espansione e conquista iraniana in tutto il medio oriente.

 

Gli altri firmatari dell’accordo sul nucleare cercano di tenere in vita il patto ma nonostante il piano di nove punti su cui si sta lavorando tra Bruxelles e Teheran, nonostante le dichiarazioni fiere sul multilateralismo che sopravviverà alle picconate isolazioniste dell’America trumpiana, manca l’ossigeno. La forma si può anche salvare, ma provate a farlo voi un negoziato senza l’interlocutore principale, senza il Grande Satana che era diventato, per l’occasione e dopo tanti accomodamenti e rifiniture, un paese con cui dialogare. L’accordo del 2015 era principalmente un’apertura inedita tra due nemici storici, l’America che parla con l’Iran, l’Iran che parla con l’America: gli europei, così come la Russia e la Cina, erano testimoni, attivissimi nella fase di trattative certo, ma pur sempre testimoni. Il significato politico epocale era dato dal fatto che un presidente americano decidesse di fidarsi di un presidente iraniano, e viceversa. Ora che questa fiducia è crollata, agli europei resta il compito ingrato di tenere insieme un’alleanza piena di insidie – quella con Teheran – e di voltare le spalle a un’alleanza naturale, immediata – quella con l’America.

 

Fuori dal perimetro del deal

Dopo l’incontro a Bruxelles con il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, la francese Total ha dato i primi segnali di cedimento: chiede protezione dalle sanzioni americane, altrimenti non riuscirà a continuare i propri progetti (40 milioni di dollari investiti in South Pars). Il tempo è poco e l’orgoglio – il copyright del patto dell’orgoglio è del capo della diplomazia europea, Federica Mogherini – molto ferito. L’America minaccia di sanzionare anche le aziende europee che fanno affari con l’Iran e questo restringe di parecchio il campo d’azione dei volenterosi del salvataggio. Soprattutto questa operazione di “rescuing” con Teheran comporta una scelta molto più rilevante: riaprire la frattura transatlantica. Donald Trump è un interlocutore poco generoso e poco attendibile, gli europei si sforzano di riadattarsi a quest’America tanto malmostosa e, nei momenti di maggior ottimismo, si rimboccano le maniche e provano a dotarsi dell’autonomia necessaria per restare credibili anche quando Trump impone una strategia unilaterale. Ma come ha scritto sul Guardian un analista che lavora in Francia, Bruno Tertrais, pur criticando la scelta di Washington di abbandonare l’accordo sull’Iran, “semplicemente per l’Europa non c’è alternativa alla partnership transatlantica. Non c’è una superpotenza di scorta disponibile a condividere abbastanza interessi per formare una nuova alleanza”. I flussi di capitali e commercio dall’America sono insostituibili, sulla questione della sicurezza non c’è nemmeno bisogno di discutere. Una guerra diplomatica e sui commerci con l’America? Nemmeno l’orgoglio ferito può arrivare a tanto controsenso.

Europa – ’Ue non vuole essere una semplice “pedina” nel mondo, ma ha perso la sua arte del compromesso

di David Carretta

 

Bruxelles. In vista del Vertice europeo di giugno, quando i capi di stato e di governo europei saranno chiamati a esprimersi su due questioni altamente controverse come la ristrutturazione della zona euro e la riforma delle regole di Dublino sull’asilo, occorre arrendersi all’evidenza: l’Unione europea ha perso la sua arte del compromesso. Le grandi e piccole riforme, negoziate a porte chiuse da grandi leader o da anonimi funzionari, sono un ricordo di un passato lontano quando gli stati membri dell’Ue erano ancora in grado di mettersi d’accordo per il bene comune più grande. Alcuni, in particolare in Francia, danno la colpa all’allargamento: aprire le porte alle giovani democrazie dell’est, dove rimangono forti gli istinti nazionalisti e i sospetti per i poteri accentratori, ha complicato le trattative e moltiplicato i veti. Ma c’è una ragione più profonda che spiega la paralisi. Nel momento in cui l’Ue è diventata più politica e democratica, con ogni sua decisione che ha un’incidenza diretta su cittadini e imprese, partiti e governi nazionali non si sono più limitati a fare di Bruxelles il facile capro espiatorio dei propri fallimenti. Si sono fatti più sospettosi, concentrati sul breve periodo, chiusi nei confini dello stretto interesse nazionale. Con il suo sistema democratico multi-dimensionale, nel quale la commissione bilancio del Bundestag tedesco e il comitato Affari europei del Parlamento finlandese hanno di fatto lo stesso potere dell’Europarlamento e di 28 leader democraticamente eletti, l’ingranaggio del compromesso si è inceppato. Soltanto quando c’è un’effettiva minaccia esistenziale, come la crisi del debito nella zona euro del 2011-2012 o quella dei migranti del 2015-2016, l’Ue ritrova la capacità di riformarsi, ma in una frettolosa improvvisazione che non produce soluzioni ottimali per il lungo periodo.

 

Il Vertice di giugno doveva essere quello del rilancio dell’Europa, dopo la lunga attesa per la formazione del governo di Angela Merkel in Germania seguita all’elezione di Emmanuel Macron in Francia. I due leader avrebbero dovuto trascinare gli altri verso il completamento dell’Unione bancaria e una road map per rifondare la zona euro nel medio periodo. Ma cancelliera e presidente non sono riusciti a superare le divergenze di fondo sul futuro dell’unione economica e monetaria. L’ondata populista in Italia “fornisce loro un facile alibi per nascondere le loro divisioni e rinviare tutto di qualche mese”, spiega al Foglio un osservatore brussellese. Sulla riforma di Dublino, è stallo sulle quote di ripartizione dei richiedenti asilo e la responsabilità decennale sui migranti di cui dovrebbero farsi carico i paesi di primo ingresso. Le chance di un accordo sono pari a “zero”, dice un diplomatico di un grande paese.

 

Le proposte discusse a Sofia

Gli incontri dei capi di stato e di governo di ieri e oggi a Sofia costituiscono un anticipo di ciò che dovrebbe accadere al Vertice di giugno. Il fronte unito sui dazi degli Stati Uniti su acciaio e alluminio ieri ha scricchiolato: per salvare il suo settore auto la Germania è pronti a avviare discussioni su un “Ttip light” (un accordo di libero scambio incentrato su tariffe e barriere non tariffarie), mentre la Francia non vuole negoziare con “la pistola puntata alla tempia”. Sull’Iran i 28 hanno faticato a trovare una risposta coerente a Donald Trump: tendendo la mano gli Stati Uniti la Francia vuole discutere un accordo più ampio che comprenda il programma balistico e l’influenza nella regione, ma molti altri paesi sono ostili a mettere più pressioni su Teheran. Oggi dovrebbe essere il grande giorno dei Balcani occidentali, con il primo summit in 15 anni tra i capi di stato e di governo dell’Ue e quelli della regione. Ma il premier spagnolo, Mariano Rajoy, ha deciso di rovinare la festa, boicottando la riunione a cui parteciperanno Serbia e Kosovo perché l’indipendenza kosovara potrebbe essere vista come un precedente per la Catalogna. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ieri ha denunciato “l’aggressività capricciosa” di Trump che mette in pericolo le relazioni transatlantiche. Tusk ha lanciato un appello all’Ue a essere “economicamente, politicamente e perfino militarmente più unita di quanto sia mai stata finora”, altrimenti da “attore” globale diventerà “pedina”. Per realizzare le aspirazioni di Tusk per l’Ue, i primi a smettere di fare i capricci dovrebbero essere i suoi leader e stati membri.

Commerci – Alleati maltrattati, Trudeau ignorato, ripensamenti asiatici. Per l’America Nafta e Tpp sono una porta girevole

di Eugenio Cau

 

Roma. Per il presidente americano, Donald Trump, il Nafta e il Tpp sono rispettivamente “il peggior deal mai siglato da qualsiasi paese che ha a che fare con lo sviluppo economico” (febbraio 2017) e “il peggior deal della storia di questo paese” (gennaio 2017). Per questo Trump, appena diventato presidente, ha immediatamente ritirato l’America dalla Trans-pacific partnership (Tpp) faticosamente raggiunta dall’Amministrazione Obama con 11 paesi alleati sulle due coste del Pacifico e ha iniziato una tediosa rinegoziazione del North American Free Trade Agreement (Nafta), siglato nel 1994, pietra angolare del commercio nordamericano e dei rapporti trilaterali con Canada e Messico. Sono due accordi molto differenti tra loro. Il Tpp aveva un afflato politico: radunare attorno a Washington e alla sua orbita economica tutti gli alleati che affacciano sul Pacifico, con l’intento mai detto ma piuttosto chiaro di contenere l’espansione cinese. Il Nafta è un accordo di libero scambio di stampo classico.

 

Ma hanno due somiglianze. La prima: gli accordi raccolgono insieme tutti i più stretti alleati degli Stati Uniti, eccezion fatta per l’Europa – dal Canada al Giappone. Questi alleati sono stati delusi, sbeffeggiati, maltrattati dall’Amministrazione. La seconda: entrambi sono stati oggetto dapprima dell’odio trumpiano, e in seguito dei suoi ripensamenti, quando il nativismo si è scontrato con la realtà di un mondo globale.

 

Il caso famoso è quello del Tpp. Gli alleati pacifici avevano già considerato la non presenza americana nel deal come caso chiuso. Poi Trump, a metà aprile, twitta che quasi quasi nell’accordo pacifico lui ci potrebbe rientrare, con le giuste condizioni. La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina infuriava, ed è sembrato che il presidente americano volesse usare il “peggior deal mai siglato” per lo scopo immaginato da Obama: contenere Pechino. Il ripensamento è durato una settimana. Pochi giorni dopo, Trump già ritornava sui suoi passi, ovviamente con un tweet, ma tanto era bastato per mettere gli alleati in subbuglio. L’altro grande ripensamento trumpiano riguarda la Cina. Pochi giorni fa, dopo aver messo in ginocchio il gigante delle telecomunicazioni cinese Zte con provvedimenti durissimi, Trump ha promesso (in un tweet, chiaro) di salvare l’azienda. Esperti confusi, e ieri nuova giravolta via tweet: su Zte è ancora tutto da decidere, il vero negoziato con la Cina non è ancora nemmeno iniziato, ha scritto – ignorando settimane di colloqui tra rappresentanti americani e cinesi.

 

“We’ll see what happens”

Con il Nafta l’andamento è altrettanto ondivago. Trump ha dapprima legato la rinegoziazione del trattato alla costruzione del Muro al confine con il Messico, poi ha smentito, ma al tempo stesso, mentre la costruzione del Muro langue, il presidente ha tirato in lungo la chiusura dei negoziati. Lo speaker della Camera, Paul Ryan, ha imposto la giornata di oggi come limite ultimo per trovare un accordo: se si chiude entro oggi, il Congresso a maggioranza repubblicana farà in tempo a ratificare il nuovo deal. Altrimenti si passa a dopo le mid-term, e chissà se la maggioranza ci sarà ancora. Martedì il premier canadese, Justin Trudeau, ha telefonato a Trump per dirgli: ormai ci siamo, l’accordo è quasi fatto, basta la tua approvazione – Trump l’ha ignorato. A Città del Messico, dove sono riuniti i rappresentanti dei tre paesi per l’ultimo round negoziale, tutti dicono che la deadline non sarà rispettata. Gli americani hanno troppe pretese sul settore automobilistico e riguardo alla clausola di rinegoziazione quinquennale dell’accordo.

 

Il New York Times ha elencato tutte le volte che sul Nafta e sugli accordi commerciali – e su molto altro – Trump ha concluso un discorso con la frase “we’ll see what happens”, vedremo cosa succede. Sono tantissime. Per un autoproclamato decisionista, non è una bella frase simbolo. Ma per ora sul commercio Trump è questo: ondeggiante.

Brexit - Una puntata di “Homeland”, la trattativa fallita e quella domanda sull’Irlanda del nord che fa molto male

di Paola Peduzzi

 

Milano. Nell’ultima puntata della serie tv “Homeland” trasmessa da Sky Atlantic c’è una trattativa in cui va tutto storto. Ci sono troppi fucili, troppa ideologia e troppi cani che abbaiano: il sospetto che finisca malissimo non ti abbandona mai, ma c’è anche un negoziatore esperto che ha già distrutto e salvato il mondo due o tre volte, c’è una buona dose di merce di scambio, ci sono voci profonde che sono sempre rassicuranti e quindi fino all’ultimo ti lasci tentare dal lieto fine. Mentre distogli lo sguardo dallo strazio conclusivo – indugiare sui fallimenti è pornografia, deve piacere – pensi: qual è stato l’errore più grande? Forse l’assenza di coerenza. All’interno delle varie opzioni di trattativa, ce n’era una che stonava, che non poteva realizzarsi se non con il collasso di tutte le altre.

 

Con la Brexit è un po’ la stessa cosa: c’è uno degli elementi della trattativa tra Londra e Bruxelles che non è coerente con gli altri, e rischia di far saltare un accordo già parecchio disastrato. “Perché l’intera classe politica inglese – chiede Simon Nixon, che si occupa di affari europei al Wall Street Journal – continua a discutere su due proposte sul mercato unico che non funzionano entrambe e che sono già state rifiutate dall’Europa entrambe quando è evidente che senza un accordo sul confine nordirlandese il processo di accordo a giugno si schianterà?”. La questione nordirlandese è dirimente, non soltanto perché rischia di far collassare l’intero negoziato ma perché costringe tutti, inglesi europei irlandesi e nordirlandesi, a guardare la Brexit da vicino, lì dove ogni difetto è più visibile. Per meglio rendere l’idea, i sondaggisti si sono inventati un’altra domanda in cui la risposta è “remain” o “leave”: serve per essere più chiari e diretti, ma il ricordo fa male lo stesso. Se ci dovesse essere una hard Brexit, ha chiesto un istituto di ricerca a un campione di cittadini nordirlandesi, l’Irlanda del nord dovrebbe rimanere nell’Unione europea riunificandosi all’Irlanda o lasciare l’Unione europea rimanendo nel Regno Unito? L’esito è doloroso quanto la domanda: il 47,9 per cento vuole restare in Europa, costi quel che costi, anche unirsi all’Irlanda; il 45, 4 per cento preferisce stare con il Regno, staccarsi dall’Ue, e quindi prendersi quel confine “hard” che viene appresso alla Brexit “hard”. C’è un sei per cento di indecisi che, come abbiamo già sperimentato, possono cambiare il risultato finale, ma intanto, mentre divorzia con l’Europa Londra rischia di perdersi un pezzetto di Regno: per questo il governo di Theresa May sta cercando di correre ai ripari. Se continuate a sentir parlare di telecamere al confine e di strumenti di sicurezza digitali quindi invisibili è perché in assenza di alternative si cerca di salvare l’apparenza: se non si vede che il confine tra Irlanda del nord e Irlanda, forse è un po’ meno “hard”.

 

La terza via di accordo

Tutto dipende dall’accordo sulle future relazioni commerciali che il governo della May sta negoziando con l’Europa (un po’ dipende anche dal fatto che il governo stesso della May, che sta prendendo qualche colpo in Parlamento, deve la sua maggioranza a un partito nordirlandese pro Brexit): la questione era stata accantonata con un promettente “vedremo” nel dicembre scorso, per evitare che si interrompesse il negoziato in corso sugli altri temi. Ma dopo qualche mese in cui era sembrato che finalmente Londra e Bruxelles avessero trovato una modalità di dialogo più conciliante ora gli europei si lamentano di nuovo: è da marzo che non si vedono progressi da parte degli inglesi, se a giugno non ci sono passi avanti significativi, a ottobre non si siglerà l’accordo e tutta la road map Brexit, che comprende anche due anni tatticissimi di transizione, rischia di collassare. Così si fa strada l’idea di una terza via tra uscire dal mercato unico e rimanerci: a parte i tecnicismi è una alternativa che assomiglia molto a restare con un trattamento speciale. Mentre i brexiteers si preparano a gridare al tradimento, si sentono cani che abbaiano, troppi: ma si è già salvato l’accordo due o tre volte, qualche volta il lieto fine succede.

Guerra d'Ucraina – Gli accordi di Minsk mai rispettati e la speranza di Kiev che con Trump possa cambiare tutto

di Micol Flammini

 

Roma. Lo stallo, il silenzio, i ribelli, gli omini verdi, la Crimea, le sanzioni. L’Ucraina è ferma, sempre con le armi in mano. Il conflitto iniziato nel 2014 doveva spegnersi dietro alle firme degli accordi di Minsk, raggiunti dopo notti di insonni trattative, e finiti con quella foto in cui l’unico a sorridere era Aleksandr Lukashenko, il padrone di casa bielorusso. Angela Merkel era stravolta, François Hollande attonito, Petro Poroshenko infastidito, Vladimir Putin distratto. Tutti vestiti di nero, ognuno ritto di fronte alla propria bandiera. Da quella foto si sarebbe potuto intuire che gli accordi, siglati il 12 febbraio del 2015, non avrebbero portato i risultati sperati. Prevedevano innanzitutto il cessate il fuoco, l’introduzione di modifiche costituzionali, l’adozione di leggi a statuto speciale nelle regioni di Donetsk e Lugansk, il rilascio degli ostaggi, dialogo, elezioni anticipate, rimozione dei gruppi di ribelli armati illegalmente, cessione delle armi, dei veicoli e di tutto ciò che mandava avanti gli scontri, rimozione dei soldati mercenari provenienti dalla Russia. La pace doveva essere garantita da dodici punti, dimenticati in fretta, neutralizzati dal conflitto che non è mai cessato da nessuna delle due parti. La Rada, il Parlamento ucraino, non avrebbe mai potuto acconsentire a cedere al Donbass lo statuto speciale e il Donbass non avrebbe mai potuto acconsentire a cedere le armi. L’unico a uscire indebolito dagli accordi è stato l’esercito regolare, gli scontri nella parte orientale della nazione infatti sono stati condotti da nazionalisti ucraini e ribelli filorussi. La Russia nel frattempo era riuscita ad annettersi la Crimea, i mercenari, i cosiddetti omini verdi, non hanno mai abbandonato Donetsk e Lugansk e combattono ancora al fianco dei filorussi. Gli scontri continuano, prosegue la guerriglia e a quasi quattro anni dallo scoppio del conflitto i morti sono diecimila, stando all’ultimo report dell’Alto commissariato delle Nazioni unite.

 

Germania e Francia speravano, con gli accordi di Minsk, di poter gestire un capitolo così delicato della politica estera europea autonomamente, tentando di allentare le tensioni con Mosca e senza l’ingerenza degli Stati Uniti che fino al 2016, con la compiacenza dell’Amministrazione Obama, si sono limitati a rifornire Kiev soltanto di artiglieria non letale, di veicoli e divise, con lo scopo di non fomentare le ostilità. Questa era l’opinione di Barack Obama, rotta però dall’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che sin da subito ha dimostrato interesse nei confronti del conflitto in Ucraina. Nel 2017 ha firmato un pacchetto di aiuti militari pari a 47 milioni di dollari e poche settimane fa ha rifornito l’esercito ucraino del sistema missilistico Javelin, soddisfacendo finalmente le attese del presidente ucraino Poroshenko che da tempo aspettava un cambio di strategia da parte degli Stati Uniti.

 

Un nuovo conflitto con Trump

I Javelin e Trump fanno sentire Kiev più forte e la sensazione di questa nuova forza conquistata ha dettato la necessità dei provvedimenti che la Rada ha deciso di adottare contro Mosca. All’ombra di Washington, Poroshenko ha deciso di sanzionare le stesse aziende colpite dagli Stati Uniti e fin qui il Cremlino ha evitato di replicare. Mentre mercoledì Vladimir Putin inaugurava il ponte sullo stretto di Kerch, che collega la Crimea alla regione di Krasnodar, i servizi di sicurezza ucraini perquisivano le redazioni dell’emittente Russia Today, facevano irruzione nell’agenzia di stampa Ria Novosti e arrestavano il direttore Kirill Vyshinski con l’accusa di alto tradimento. Il Cremlino non è intervenuto ma ha promesso di reagire “in modo aggressivo” e lo farà fomentando il conflitto in Ucraina, armando i ribelli o tramite delle controsanzioni. Quella notte a Minsk, le tredici ore di trattative che si sono protratte fino all’alba hanno avuto come unico risultato la fine dei bombardamenti, ma di fatto hanno portato alla nascita di due Ucraine, più povere e più stanche.

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