Marco Rubio (foto LaPresse)

Così l'establishment americano è diventato anticinese

Eugenio Cau

Perché il senatore della Florida Marco Rubio si è fatto portabandiera del movimento anticinese

Roma. La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è diventata un match di pugilato con molti round, in cui i pugili, però, appartengono tutti allo stesso team. A riempirsi di pugni sono i rappresentanti dell’Amministrazione Trump, divisi tra protezionisti e globalisti, pronti chi allo scontro chi all’appeasement con Pechino. Fuori dal ring, intanto, uno dei tifosi ha iniziato a urlare più forte degli altri, fino a ottenere una gran influenza: il senatore della Florida Marco Rubio, uno degli sconfitti delle ultime primarie repubblicane, che di recente si è imposto come il più feroce critico delle politiche cinesi dell’Amministrazione Trump e come falco anti Pechino, simbolo di come anche i moderati dentro all’establishment americano stiano assumendo una postura bellicosa nei confronti della Cina e pessimista sul futuro del rapporto bilaterale tra le due superpotenze.

 

Quando, la settimana scorsa, i globalisti dell’Amministrazione hanno ottenuto una gran vittoria, con Steve Mnuchin che annunciava la “messa in pausa” dei dazi americani contro la Cina, Rubio ha cominciato un fiume di tweet durato più giorni in cui ha accusato Trump di essere “soft”, con l’hashtag virale #NotWinning. Quando Trump ha proposto un piano per salvare Zte, il gigante cinese delle telecomunicazioni costretto all’interruzione della produzione dopo che l’Amministrazione aveva comminato sanzioni, Rubio ha scritto che Trump si era “arreso” a Pechino ed è andato in tutte le tv promettendo che c’è una “supermaggioranza” al Congresso pronta a bloccare le concessioni presidenziali e a vietare alle telco cinesi di operare in America. In altri tweet, Rubio ha attaccato la Cina ripetutamente, scrivendo che usa “l’inganno e lo sprezzo della legge” nel mar Cinese meridionale e difendendo il governo di Taiwan.

 

Quando invece questa settimana sono stati i protezionisti ad aggiudicarsi il match, e l’Amministrazione, a sorpresa, ha ripristinato l’annuncio di dazi del 25 per cento su 50 miliardi di dollari di prodotti cinesi, Rubio si è rimesso su Twitter per elogiare la “gran mossa” di Trump. Gli esperti non sanno ancora bene come giudicare questa piroetta improvvisa – la settimana scorsa i dazi erano “in pausa”; questa settimana, senza nessuna giustificazione di rilievo, sono tornati attivi, e i cinesi sono arrabbiatissimi – pensano che si tratti di un bluff per ottenere qualcosa di più al tavolo negoziale e temono che Pechino vedrà il bluff annullando la visita di Wilbur Ross prevista per questo fine settimana. Ma per Rubio, tutto ciò che è anticinese è buono. Il senatore ha elogiato anche un’altra “grande mossa” dell’Amministrazione, che contestualmente mercoledì ha reso più difficile l’ottenimento del visto per i cittadini cinesi che lavorano in settori sensibili come la robotica e l’aeronautica.

 

Ora, perché parlare dei tweet di Rubio? Dopo il fallimento della sua candidatura presidenziale, Little Marco – questo il nomignolo che Trump gli ha affibbiato e che gli è costato la reputazione – è diventato un personaggio relativamente defilato del gioco politico americano. Ma proprio perché ne è stato bruciato, Rubio ha capito una cosa: la retorica trumpiana rimane attaccata alla gente e passa facilmente nel mainstream. Quando, in campagna elettorale, Trump diceva che la Cina aveva “stuprato” l’America, tutti i benpensanti ridevano. Oggi concordano con la sua analisi. Rubio l’ha capito e si è fatto portabandiera del movimento anticinese – sarebbe meglio dire: anti Partito comunista cinese (Pcc). E’ bipartisan e sempre più nutrito, va dai mezzobusti di Fox News, che la settimana scorsa accusavano Trump di essersi rammollito davanti alla minaccia cinese, a Chuck Schumer, capo dei democratici al Senato.

 

Dietro all’opportunismo politico di Rubio c’è un cambiamento fondamentale: l’establishment politico americano sta diventando anti Pcc. Comunque andrà a finire la trade war, Washington si prepara a uno scontro che può soltanto essere rimandato.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.