Donald Trump (foto LaPresse)

In Iran Trump tifa per il cambio di regime?

Il dilemma del presidente che prometteva il disimpegno americano

New York. I tweet di Donald Trump sono concepiti per essere smentiti con il cinguettio successivo, cercarvi indizi di una strategia politica è un esercizio rischioso, ma le proteste in Iran hanno prodotto nel presidente americano reazioni che non sono soltanto dettate dall’umore del momento, ma riflettono un dibattito interno alla Casa Bianca che si sta facendo ogni giorno più denso. Il dilemma è il seguente: quale posizione deve tenere l’America di fronte alle rivolte? Incoraggiare e cavalcare le proteste, oppure osservare gli eventi da una posizione defilata? Soffiare sulla rivolta democratica o trincerarsi dietro il principio dell’America First? Il primo giorno dell’anno il presidente ha lasciato intendere una preferenza per la posizione dei falchi: “Nonostante l’accordo terribile fatto da Obama, l’Iran sta fallendo a tutti i livelli. Il grande popolo iraniano è stato oppresso per molti anni. E’ affamato di cibo e di libertà. Assieme ai diritti umani, anche la ricchezza iraniana è stata depredata. E’ tempo di cambiare!”.

 

 

Ieri ha aumentato ulteriormente la puntata: “Il popolo dell’Iran si sta finalmente muovendo contro il brutale e corrotto regime iraniano. Tutti i soldi che il presidente Obama ha stupidamente dato loro sono finiti nel terrorismo e nelle loro ‘tasche’. La gente non ha cibo, ha inflazione e nessun diritto umano. Gli Stati Uniti guardano!”.

 

  

Su Fox News la consigliera Kellyanne Conway ha spiegato che il presidente “sta con il popolo iraniano” e “non suole rimanere silenzioso come troppi hanno fatto nel 2009”. Il riferimento alle rivolte dell’Onda verde è un fattore cruciale nella considerazione della Casa Bianca, che non perde occasione per produrre narrazioni in perfetto contrasto con l’operato del suo predecessore. Le proteste iniziate negli ultimi giorni dell’anno offrono il destro per ricordare che nel 2009 Obama ha cinicamente voltato le spalle ai manifestanti scesi in piazza per contestare il risultato delle elezioni, e sei anni più tardi ha siglato un accordo nucleare con gli ayatollah che Trump definisce “il peggiore di sempre”. Flirtare, ancorché solo con qualche tweet, con l’idea del regime change nella teocrazia di Khamenei è innanzitutto un modo per castigare l’appeasement praticato da Obama.

  

Le circostanze specifiche che hanno originato le manifestazioni soffiano altro vento nelle vele trumpiane. La gente protesta per le spese folli del governo, a discapito del popolo, per espandere la propria influenza in Siria, Libano, Iraq e a Gaza, dove eserciti irregolari vengono mantenuti e fondi generosamente distribuiti per occupare gli spazi vuoti nel grande processo di ridefinizione degli equilibri della regione. Proprio per contenere queste manovre espansionistiche iraniane Trump si è mosso con decisione: ha introdotto sanzioni specifiche contro la Guardia rivoluzionaria, la forza che coordina i movimenti militari e d’intelligence all’estero, ha rinsaldato l’alleanza con l’Arabia Saudita e soprattutto ha collaborato con il principale alleato regionale, Israele, che da tempo lavora per creare un fronte sunnita da opporre all’avanzata dell’Iran. I negoziati sono culminati con un accordo strategico congiunto, firmato alcune settimane fa, per contrastare le mire di Teheran. Il Congresso non ha revocato l’accordo nucleare, ma Trump ha decertificato la sua applicazione, cioè si è rifiutato di confermare ufficialmente la periodica notifica che il regime sta rispettando gli accordi. Significa che il deal è formalmente ancora in piedi, ma una delle due parti non crede alla versione dell’altra: non sono esattamente le premesse per un’intesa duratura. Gli Stati Uniti ora stanno monitorando la situazione fluida per valutare se le rivolte possono indurre un nuovo posizionamento politico. Alla fine di gennaio la Casa Bianca dovrà anche decidere se reintrodurre le sanzioni, e il presidente ha anche la possibilità – come ha già mostrato – di infliggere sanzioni slegate dall’accordo nucleare.

 

Se c’è un dossier di politica estera su cui finora Trump ha dimostrato più flessibilità rispetto alle premesse isolazioniste (ora ribattezzate principled realism) alla base della sua presidenza, è quello iraniano, dove il presidente è anche incalzato dai falchi repubblicani. Da quando sono iniziate le violenze i falchi, dai senatori John McCain e Lindsey Graham fino all’ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley, hanno espresso solidarietà verso il popolo iraniano che sta finalmente facendo sentire la sua voce dopo decenni di oppressione. E l’animosità è rivolta anche all’accordo di Obama, segno della legittimazione dell’arcinemico dell’America e del mondo libero. Anche il primo ministro di Israele, Bibi Netanyahu, si è espresso allo stesso modo. John Bolton, ambasciatore all’Onu negli anni di Bush, ha dato voce a molti repubblicani di scuola neocon: “Il regime change è l’unica possibilità”. Questa ondata, che per il momento Trump sta a parole assecondando, è in rotta di collisione con le idee isolazioniste che aveva venduto alla sua base, fatta anche di paleoconservatori che volevano vedere l’America più impegnata nella ricostruzione della propria grandezza che nell’esportazione della democrazia. “La smetteremo finalmente di rovesciare regimi stranieri di cui non sappiamo nulla e con i quali non dovremmo nemmeno coinvolgerci”, aveva promesso Trump dopo le elezioni, compimento di una campagna fatta di glorificazione dei confini nazionali e di disimpegno dell’America dai suoi compiti globali.

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