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Le chance di Rohani

Francesco Maselli

Queste proteste potrebbero far saltare prima il presidente iraniano e poi il deal atomico

Parigi. “Hassan Rohani ha tutto da perdere e tutto da guadagnare da queste manifestazioni”. Vincent Eiffling, ricercatore al Centre d’études des crises et des conflits internationaux dell’Università cattolica di Lovanio spiega al Foglio quali sono gli scenari per il presidente iraniano: “In questo momento Rohani cerca di utilizzarle a suo favore, per far capire alle fazioni più conservatrici che le riforme del suo programma sono necessarie, altrimenti in futuro gli iraniani potranno protestare di nuovo, magari in maniera organizzata. E’ per questo, probabilmente, che ha legittimato la protesta e ha spiegato che le richieste vanno ascoltate. Può funzionare, a patto che la situazione si calmi”. Cosa succede se, invece, le manifestazioni continuano e degenerano? “In questo caso il regime potrebbe rispondere in modo violento, dando un pretesto in più a Donald Trump per far naufragare l’accordo sul nucleare e una copertura per chi in Iran non vede di buon occhio l’apertura. Rohani ne uscirebbe indebolito”.

 

La frattura tra moderati e conservatori esiste, ma non sugli obiettivi finali: “Entrambi vogliono che il regime sopravviva – continua il politologo – Rohani però è convinto che l’avvenire passi da una modernizzazione dell’economia, e questa modernizzazione a sua volta non può prescindere da una maggiore apertura internazionale. I conservatori, invece, hanno paura che questa apertura possa minare i fondamenti del regime e si oppongono al progetto rohaniano”. Finora ci sono stati morti e violenze, ma non massacri paragonabili a quelli avvenuti durante le primavere arabe. Questo perché la polizia ha evitato lo scontro diretto con i manifestanti. Il regime ha imparato dai propri errori, ci spiega Bernard Hourcade, dal 1978 al 1993 direttore dell’Institut français de recherche en Iran : “Per ora il governo di Rohani ha dato disposizioni molto precise, l’obiettivo è evitare reazioni violente da parte della polizia, cosa che invece avvenne durante le proteste del 2009, che furono alimentate dalle ritorsioni”.

 

La posizione di Rohani è comunque fragile, continua Hourcade: “L’incertezza rappresentata da Donald Trump ha fatto sì che il paese sia di fatto rimasto sotto embargo. Tutti gli accordi siglati dalle aziende occidentali con partner iraniani non sono ancora stati applicati perché è difficile finanziarli, le banche non vogliono lavorare in Iran perché temono multe in America. Il boom economico promesso con il deal sul nucleare non è avvenuto”. Un regime change sembra, al momento, escluso dalla maggior parte degli esperti: “L’Iran, che noi lo vogliamo o meno, è una repubblica islamica. La rivoluzione del 1978 è successa davvero, non possiamo ignorarlo. Ma non è una teocrazia, e negli ultimi anni la parte ‘repubblica’ ha acquistato maggior peso rispetto alla parte ‘islamica’. Non sappiamo se queste manifestazioni aiutano il cambiamento oppure no, lo capiremo nei prossimi mesi. Bisogna ricordare, tuttavia, che la società iraniana è istruita e abituata a un certo grado di libertà, che negli ultimi anni è aumentata. Non siamo più negli anni Ottanta”.

 

Per Eiffling il ruolo dell’Europa può essere determinante, e il presidente iraniano ne è consapevole: “Rohani sta cercando di riavvicinarsi all’Europa perché ha bisogno di un contrappeso alla posizione dell’Amministrazione americana, deve trovare un altro partner solido che bilanci il ‘tradimento’ degli Stati Uniti”. Quindi le dichiarazioni molto morbide di Federica Mogherini sono frutto di cinismo e della preoccupazione di perdere quanto ottenuto finora con l’accordo sul nucleare? “L’Europa è in una impasse – nota Eiffling – da un lato una posizione di ferma condanna contrasta con i suoi obiettivi strategici, dall’altro quanto accade in Iran è contrario ai valori dei quali si pretende ambasciatrice. Non credo ci saranno dichiarazioni più dure se le manifestazioni non degenerano. Certo, una repressione dura non sarebbe accettata, ma non ci troviamo ancora in questo scenario”. Secondo il ricercatore la posizione prudente dell’Unione europea è spiegabile con la paura di contribuire alla destabilizzazione del paese: “L’Iran ha ottanta milioni di abitanti ed è grande tre volte la Francia. Non è interesse di nessuno che piombi nel caos, da qui, la prudenza degli europei”.

 

Sullo sfondo, la decisione di Donald Trump, che a metà gennaio deciderà se ritirare alcune sanzioni all’Iran, come previsto dall’accordo sul nucleare. Le manifestazioni di queste ore hanno dato una copertura politica alla posizione intransigente dell’Amministrazione, il presidente potrà spiegare in modo relativamente facile la sua volontà di sabotare l’accordo sul nucleare: “Un ritiro degli Stati Uniti pone un problema più all’Iran che agli altri stati parte dell’accordo – nota Eiffling – il regime avrà difficoltà ad accettare un’umiliazione del genere e potrebbe rinunciare definitivamente alle trattative. A quel punto gli europei dovrebbero proporre una sorta di contromisura che bilanci la decisione americana, ne hanno una pronta? La vedo molto complicata”.