L'Iran e la “coscienza da assedio”

Mario Giro*

Le proteste di questi giorni sono l’ultimo capitolo della storia difficile di un paese in guerra perenne

Al direttore - L’Iran è a un passaggio cruciale della sua tormentata recente vicenda. Dal 1979, anno della rivoluzione islamica, è un paese in guerra, a iniziare con quella contro l’Iraq, dal 1980 al 1988. Fu un conflitto sanguinosissimo e disperato che mise a repentaglio la sopravvivenza del nuovo regime e forse del paese stesso. Il leader iracheno Saddam pensò di approfittare della debolezza indotta dalla rivoluzione che aveva privato l’Iran dei suoi sostenitori naturali, in primis gli Stati Uniti. L’esercito iraniano – pensava Saddam – è senza guida, senza rifornimenti e ricambi, senza armi: cadrà presto. Ma la guerra divenne per Teheran una guerra di popolo, una sfida all’ultimo sangue che ebbe l’effetto paradossale di rafforzare il nuovo regime degli ayatollah e dar loro una legittimità nazionale. Gli iraniani si difesero come poterono, fecero combattere i bambini, usarono in massa i kamikaze (che così entrarono nelle strategie militari per essere utilizzati dai terroristi fino a oggi…) e alla fine riuscirono a contenere il meglio armato esercito iracheno.

 

Ne uscì un regime islamo-militare molto più solido, con i pasdaran (guardiani della rivoluzione islamica) divenuti una seconda forza militare a pieno titolo e giustificati dall’enorme contributo di sangue versato. La sofferenze patite hanno trovato un senso nel culto dei martiri – poggiato sul particolare islam degli sciiti – molto presente in tutte le città iraniane: fontane con acqua rosso sangue, monumenti, cimiteri. Posto sotto embargo, senza alleati (a parte la Siria e per un po’ Gheddafi), circondato da nemici, l’Iran ha sviluppato in tutti questi anni una “coscienza da assedio” che si è trasformata in rafforzamento del patriottismo da un lato e, dall’altro, in una versione missionaria e millenarista del suo “islam sofferente”.

 

La guerra degli anni 80 si svolse nella sostanziale indifferenza del mondo: si combattano pure tra loro il più a lungo possibile, dicevano leader ed esperti in occidente e nel mondo arabo. Ma una guerra - si sa – non avviene mai senza conseguenze, anzi: le paghiamo ancora oggi. Infatti è da quel momento che entra in crisi la sistemazione mediorientale voluta dagli europei dopo la Prima guerra mondiale e avvallata dagli americani dopo la Seconda. I conflitti successivi contro l’Iraq sono stati l’effetto diretto di quegli anni di stragi, fino alla distruzione dello stato più laico della regione e la sua trasformazione in una seconda potenza sciita, legata – anche se in modo contraddittorio e contrastato – a Teheran. L’ultima rivalsa l’Iran se l’è presa con la guerra di Siria: senza i pasdaran e gli alleati Hezbollah libanesi, Assad sarebbe caduto molto presto. Infine l’Arabia Saudita, lo storico nemico sunnita degli sciiti, teme a sua volta di restare isolata e si riarma, intervenendo nella guerra dello Yemen.

 

Ma proprio tale susseguirsi di interventi militari, sedimentarsi di guerre e di choc geopolitici (a cui si aggiunga il sostegno ad alcuni movimenti terroristici), si rivolta oggi contro il regime dei mullah: troppo costoso l’intervento in Siria, meno facile da spiegare alla popolazione come guerra patriottica. La crisi economica, le ristrettezze, gli effetti a lungo termine di un embargo le cui ragioni si perdono nei decenni, l’austerità imposta dal governo, malgrado le speranze sorte con l’accordo sul nucleare, la disoccupazione e i rincari: ci sono tutti gli ingredienti per l’esplosione della rabbia popolare. Tuttavia si tratta di una rivolta senza leader e le Primavere arabe ci hanno insegnato a rimanere cauti davanti a tali rivolgimenti, soprattutto quando la matrice non è chiara. Alcuni dicono che a soffiare sul fuoco siano i conservatori, battuti per due volte dal pragmatico Rohani; altri sostengono che in ogni caso la base riformista si stia assottigliando per non aver dato risposte adeguate alle speranze dell’Onda verde del 2009. Altri infine vi vedono l’inizio della crisi del sistema religioso-militar-politico costruito dai successori di Khomeini. Dobbiamo seguire da vicino tali avvenimenti consci di una minaccia: ogni instabilità ulteriore – soprattutto se spinta o indotta dall’esterno – sarebbe foriera di pericoli ancor peggiori di quelli già presenti.

 

*viceministro degli Esteri

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