John Bolton

Bolton, un falco coi baffi

Il nuovo arrivo al consiglio per la Sicurezza nazionale delude i nazionalisti e cambia la postura su Iran, Corea e Russia. Ma non chiamatelo neocon

New York. “Un pazzo al consiglio per la Sicurezza nazionale” titola The American Conservative, il rifugio dei conservatori nazionalisti e paleo che con Donald Trump avevano accarezzato il sogno di una riforma isolazionista del Partito repubblicano e ora si trovano il falco John Bolton al posto del misurato H. R. McMaster e l’aggressivo Mike Pompeo in luogo del negoziatore Rex Tillerson. I due tambureggianti avvicendamenti vanno nella direzione opposta del disimpegno americano, delle trattative con gli stati canaglia, del ritorno al realismo come dottrina che guida le relazioni internazionali. Per gli amanti delle distinzioni ideologiche intraconservatrici, Bolton non è un neoconservatore, perché, come scrive il direttore di The National Interest, Jacob Heilbrunn, “non è mai stato convinto dell’idea della democratizzazione di altri paesi”, ma la sua esperienza nell’Amministrazione Bush alla segreteria di stato e poi come ambasciatore all’Onu, unita all’adesione alla dottrina Cheney e a un inequivocabile pedigree di antagonista con gli scarponi chiodati di ogni regime illiberale lo collocano da quel lato della storiografia conservatrice. Molti neocon lo considerano troppo estremo, soprattutto quando si tratta dei rapporti con l’Iran: “Bolton crede che l’accordo con l’Iran sia talmente sbagliato che non ci sia la possibilità di correggerlo. La mia speranza di una vera riforma dell’accordo è morta con la sua nomina”, ha detto Mark Dubowitz, capo della Foundation for Defense of Democracies, fondazione di falchi repubblicani che ha sempre tenuto una posizione inflessibile verso il regime degli ayatollah.

 

Bolton era stato in lizza per la guida della segreteria di stato, ma a parte il disagio di Trump per i suoi baffi, aveva prevalso infine una linea interna più prudente, e il nome di Tillerson era stato raccomandato e benedetto niente meno che da Condi Rice e Bob Gates. Bolton è uscito dalla corsa ma, presentendo l’aria di defenestrazione e rimpasto permanente, non è rimasto ozioso, e ha colto ogni opportunità per assecondare gli istinti di Trump in politica estera. Quando il presidente ha lasciato intendere che voleva abbandonare l’accordo con l’Iran, lui ha scritto sulla National Review un puntuale saggio su come rescindere lo scellerato patto nucleare; quando ha castigato le ipotesi diplomatiche di Foggy Bottom con Kim Jong-un, lui ha argomentato a favore della dottrina dello strike preventivo, giustificato – con dovizia di dettagli legali – dal fatto che il regime di Pyongang è una “minaccia imminente” per gli Stati Uniti. Non ha mai risparmiato critiche alla Russia di Vladimir Putin, e considera gli sforzi del Cremlino per influenzare le elezioni americane “un vero atto di guerra che Washington non può tollerare”. Per non farsi mancare nulla, Bolton è stato anche un protetto della famiglia Mercer, che ha versato milioni di dollari quando ipotizzava una campagna presidenziale, e un beneficiario dei servizi di profilazione “psicografica” di Cambridge Analytica.

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