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C'è un momentum berlusconiano nell'America di Trump

Giuliano Ferrara

E se la turbolenza politica lasciasse un segno? Il presidente americano in un anno ha fatto più di quel che Berlusconi ha sognato di fare. Riflessioni da fare

C’è un’arietta berlusconiana nell’America di Trump a inizio anno, dopo il suo primo di presidenza. In questo senso: il tycoon italiano fattosi esplosivamente politico ventiquattro anni fa diresse il suo primo governo nello scandalo e nella turbolenza per undici mesi soltanto, e poi fu all’opposizione per sette lunghi anni, ma il suo avvento provocò una trasformazione politica e una rivoluzione culturale destinate a durare un’epoca intera, con l’Ulivo ci fu una reazione ma non una restaurazione, come i fatti successivi si incaricarono di dimostrare. Oggi tutto è cambiato, il cosiddetto “ritorno di Berlusconi” sembra un’altra storia, il vecchio sistema italiano si riprende i suoi diritti, per quanto affannosamente, dopo la parentesi postberlusconiana di Renzi, riformista ex art. 18. Però la grande mutazione ci fu: l’outsider non realizzò mai un ordinato e radicale programma di riforme liberali, eppure tutto cambiava in quegli anni, arrivava l’alternanza e il paese di Berlusconi ci faceva scoprire una nuova voce, un nuovo linguaggio, una nuova postura ostile alle regole dell’establishment che poi ha generato figli e figliastri. E tutto era partito dalla televisione, da un costruttore fattosi nella New York milanese, dai suoi molti quattrini (“I’ve got a tremendous amount of money”, dice sempre di sé l’Arancione), dal mito di una leadership personale invincibile che amava il suo paese (“L’Italia è il paese che amo”, Italia First, Make Italy Great Again) e praticava la scorrettezza politica senza imbarazzi. Ora l’arietta trumpista si infiltra anche tra le migliori opinioni liberal che si sentono disarmate, e in molti si domandano se il momentum vincente dell’ultimo Trump, quali che siano le obiezioni anche irriducibili al suo carattere e al suo profilo istituzionale indecente, possa sboccare in una trasformazione della presidenza americana, e del rapporto tra politica e popolo, di portata storica.

 

Le analogie colpiscono la fantasia politica, per chi ce l’abbia. Ma anche le immense differenze. Primo. Salvo gravi incidenti, che anche i suoi avversari più duri stentano ormai a mettere nel conto, Trump non va all’opposizione dopo un anno, al contrario potrebbe confermare la maggioranza al Congresso nel prossimo novembre, non è escluso nonostante i bassi rating nei sondaggi, e comunque governare fino a fine mandato per altri tre anni. Secondo. La forza del potere esecutivo Americano, a quanto pare irrobustita dopo che le mattane del twittarolo l’hanno liberata dalle mediazioni protocollari della tradizione, ha consentito a Trump di realizzare, in modo disordinato e spesso fraudolento, ma realizzare, parecchie cose che erano nel programma della sua campagna, che peraltro berlusconianamente continua incessante anche dopo la presa del potere. Terzo. La sua rivoluzione culturale è per certi aspetti l’opposto simmetrico di quella di Berlusconi. Il Cav. era l’uomo che i suoi nemici volevano “lock up”, incastrare, incarcerare, combattere con metodi violenti del giudiziario; Trump come fenomeno demagogico estremo nasce dal grido “lock her up”, cioè dalla campagna per incastrare, incarcerare, battere con violenza paragiudiziaria la sua competitrice elettorale Hillary Clinton.

 

La scorrettezza politica di Trump non ha niente di liberale, così come il suo nazionalismo, la sua politica estera, i suoi travolgenti dogmi Goldman Sachs, il suoi rapporti con i costumi, con le donne, con le minoranze, con la storia americana. Il “mussolinismo” di Berlusconi fu sempre un compiacente e ironico ammiccamento popolare, mai un revisionismo ideologico della stazza e pesantezza che ebbero i pronunciamenti del presidente Usa dopo i fatti di Charlottesville e lo scontro tra minoranze protestatarie e suprematisti bianchi. E l’establishment ostile a Berlusconi, con la sua convergenza orientata sulle procure, era tendenzialmente repressivo e giustizialista, mentre le élite in lotta con Trump non hanno mai perso distacco e misura istituzionali anche nella più coriacea avversione al maverick (“when they go low, we go high” diceva Michelle Obama).

 

Insomma, Trump ha realizzato più di quanto Berlusconi avesse mai sognato di fare, nel suo primo anno: tagli fiscali reaganiani, deregulation, bilancio della Difesa, tagli all’Onu, voce grossa con Assad e il little rocket man della Nord Corea, Gerusalemme capitale, Iran prenucleare sotto sorveglianza, pratiche correttiste insolenti nei campus universitari condannate, un giudice compos sui alla Corte Suprema, ridimensionamento dell’ossessione ambientalista, spinta ai mercati e a Wall Street (l’elenco è del nevertrumper Bret Stephens). Nella governance ha usato una certa Manliness, ha messo al suo fianco come capo dello staff John Kelly, un generale che nella nostra metafora analogica fa figura di un Big and Strong Letta. Ha cambiato molte cose in ogni direzione, ma non può cambiare sé stesso, il suo peccato originale di demagogo farlocco o di con-man, di impostore. Per i liberal tradisce lo spirito delle istituzioni americane, il fair play, l’imparzialità (e qui c’è una punta di notevole ipocrisia da parte di chi ha esercitato la dittatura del pol. corr. e del pensiero unico negli anni di Obama). Per una parte dei conservatori, quelli che non lo hanno sostenuto o si sono separati da lui dopo un breve flirt, valgono due citazioni. Una del grande Daniel Patrick Moynihan, compianto guru democratico capace di una solida e insolita cultura conservatrice: “La verità centrale e cruciale dei conservatori è che è la cultura, non la politica, a determinare il successo di una società”. L’altra di Irving Kristol (2003), compianto patrono dei neoconservatori, ex liberal assaliti dalla realtà: “Dobbiamo convertire il Partito Repubblicano e il movimento conservatore americano in generale, contro la loro volontà, in un nuovo conio di politica conservatrice capace di governare una democrazia moderna”. Ecco. Trump è già un’icona, sta facendo storia, e ora cerca il dialogo bipartisan da posizioni di forza, ma il tratto temo indelebile del suo percorso, che riesca o fallisca nei suoi grintosi e orrendi capricci capaci di realizzazioni da eterogenesi dei fini, è che la sua storia nasce dal fallimento di una grande e bella illusione, e può trasformarsi in un incubo, mentre i vaghi sogni del mite Berlusconi sono sempre là, tanti anni dopo, a parzialmente consolarci delle delusioni.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.