Trump o Milei? Meloni di fronte a due modelli di destra

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Il libertarismo del Loco è l'opposto del protezionismo di Donald. Non è una ricetta nelle corde della premier, più vicina a Evita Perón che a Margaret Thatcher, ma è forse ciò che serve di all'Italia per evitare un declino in stile argentino

Ieri, quando ha incontrato Javier Milei, Giorgia Meloni si è trovata di fronte l’esponente di una destra strana, diversa da quella che lei è abituata a frequentare. Mentre la destra globale – da Donald Trump a Viktor Orbán, dai polacchi del PiS a Marine Le Pen – si muove in una direzione nazional-conservatrice, Milei è qualcosa di nuovo, o forse di antico, sicuramente di diverso. Né nazionalista né conservatore, se non nel senso di “fiscal conservative”, che potremmo tradurre come “rigorista”.

 

Lo certificano i libri che ha regalato a Papa Francesco: “L’azione umana” di Ludwig von Mises (pubblicato in Italia da Rubbettino), “La presunzione fatale” di Friedrich von Hayek e “Pandemia e dirigismo” di Jesús Huerta de Soto e Bernardo Ferrero (entrambi editi da Ibl Libri).

 

Lo conferma la sua campagna elettorale: Milei dei populisti ha lo stile provocatorio e la retorica anticasta, in questo simile a Beppe Grillo, ma non i contenuti: per invertire il secolare declino argentino e tornare sulla via della prosperità, propone una ricetta ortodossa. Ha promesso sangue, sudore e lacrime a un’Argentina messa in ginocchio dallo statalismo peronista, ripristinando stabilità monetaria, austerità fiscale, concorrenza e libertà d’intrapresa. E ne sono una dimostrazione i primi radicali provvedimenti che, da presidente, sta firmando.

 

Se il populismo, come dice il politologo Cas Mudde, è una “ideologia sottile” caratterizzata da un nucleo minimo che divide la società in popolo buono contro élite corrotta, Milei è l’opposto. È un politico con un’ideologia robusta, quasi dogmatica, come emerge dai libri che legge (e regala al Papa) e dal fatto che, per esempio, nel dibattito tv per le presidenziali non ha esitato a elogiare Margaret Thatcher che, come è noto, è una delle personalità più odiate in Argentina dopo la guerra delle Falklands/Malvinas vinta contro la dittatura dei militari. Insomma, sebbene abbia i capelli scompigliati come Trump, sotto ha un pensiero molto più simile a quello della Lady di ferro.

 

Meloni quindi dovrebbe chiedersi se Milei sia l’ultimo colpo di coda del neoliberismo anni Ottanta, oppure un fenomeno anticipatore di una nuova onda libertaria che potrebbe imporsi dopo il populismo bipartisan e statalista che ha segnato questi ultimi anni. Si è infatti creata una strana situazione: tra Meloni e Milei c’è una convergenza profonda su un tema oggi cruciale, il posizionamento internazionale, che è proprio una delle questioni in cui è massima la distanza con Trump. Tra i primi atti del presidente argentino ci sono stati l’abbandono del progetto dei Brics e lo spostamento aperto e senza mezzi termini nel campo opposto. L’Argentina si candida a essere un alleato non solo degli Stati Uniti ma dell’intero Occidente, ovunque i suoi valori siano in discussione: Buenos Aires sta con l’Ucraina e contro la Russia e con Israele e contro Hamas.


Anche sulla politica economica l’assonanza tra Milei e la destra globale è solo apparente. Certo, sono tutti favorevoli a tagliare le tasse. Ma con due enormi differenze. Primo: nella logica di Milei il taglio delle tasse non è compensato da una politica monetaria allegra, ma è la conseguenza della riduzione della spesa pubblica e del perimetro dello stato. Non aveva ancora messo piede alla Casa Rosada che già firmava un aggiustamento fiscale del 5 per cento del pil, affondando il bisturi nella spesa clientelare lasciata in eredità dai governi peronisti. E contemporaneamente varava un piano monstre di liberalizzazioni e privatizzazioni con l’obiettivo non di racimolare qualche spicciolo per fare cassa, ma di restituire al mercato aziende che non c’è motivo per mantenere pubbliche. Se Milei sente parlare di “Stato stratega”, come ama ripetere il ministro Adolfo Urso, mette mano alla motosega; e alle richieste di sussidi di Stellantis non replicherebbe con l’offerta di acquisire quote azionarie, ma con un tonante “Afuera!”.

 

La sua politica economica è molto diversa, per non dire opposta, a quella di Trump che è fatta di protezionismo e dirigismo.  “Milei rifiuta quasi tutto ciò che i populisti Maga (Make America Great Again, ndr) negli Usa, e i movimenti analoghi in tutto il mondo sviluppato, affermano di difendere”, ha scritto sul New Statesman Sohrab Ahmari, uno dei principali intellettuali della destra nazional-conservatrice (“sociale” diremmo in Italia), chiedendosi come possano i trumpiani esserne affascinati. “Se dire cose scandalose mentre si promuove un’agenda che farebbe arrossire Thatcher è tutto ciò che serve per essere considerato un populista, allora il populismo ha perso ogni significato”.


Milei non è la cup of tea di Meloni. La sensibilità politica di “destra sociale” della premier italiana la spinge più verso il peronismo di Evita Perón, che peraltro è un sottoprodotto del fascismo italiano, che verso il libertarismo di Murray Rothbard. Però l’Italia, come l’Argentina, ha un problema fiscale e di debito pubblico, seppure non altrettanto grave. Prima che una filosofia, il fortunato slogan di Milei “No hay plata” è una realtà che la stessa Giorgia Meloni e il ministro Giancarlo Giorgetti hanno dovuto constatare di fronte agli eccessi dell’interventismo pubblico culminato nel Superbonus.

 

Copiare modelli dall’estero non porta mai fortuna, ma trarre ispirazione per ciò che può funzionare nel proprio contesto può essere utile.