Il grattacielo Intesa Sanpaolo, progettato dall'architetto Renzo Piano, alto 166 metri per 37 piani, sorge nel quartiere Cit Turin, vicino alla Stazione Porta Susa (foto LaPresse)

La grande Intesa

Stefano Cingolani

L’operazione su Ubi, con l’accordo tra i duellanti Messina e Nagel, avrà un impatto di sistema. Vantaggi e limiti di un nuovo campione italiano

Se l’offerta di Intesa Sanpaolo agli azionisti di Ubi Banca avrà successo, la mappa finanziaria italiana cambierà in modo importante. Ci saranno due veri campioni nazionali, la Grande Intesa e le Assicurazioni Generali; una banca europea, Unicredit, con la testa in Francia, una gamba in Italia e una in Germania; una banca d’affari che riprende lena (Mediobanca); qualche altro campioncino a cominciare dal polo composto da Unipol, numero due nelle assicurazioni, e dalla Bper (controllata da Unipol) numero tre tra le banche. Tutte aziende ben gestite, che fanno profitti nonostante la crisi, la stagnazione, il coronavirus e quant’altro. Attore protagonista di questo riassetto è senza dubbio Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo. Chissà se avrà mai letto il pensierino di Mao Tsedong sul trasformare la sconfitta in vittoria (che del resto è un precetto più confuciano che comunista). In ogni caso, lo ha messo in pratica. Il banchiere romano comanda un gruppo esteso da Torino al Veneto passando per Milano mentre con il Banco di Napoli copre parte del Mezzogiorno. Fondendosi con la Ubi, in Toscana avrebbe una quota di mercato persino superiore al Monte dei Paschi di Siena. La futura banca diventerebbe la numero quattro in Europa per capitalizzazione con 48 miliardi di euro preceduta da HSBC, BNP, Santander, la nona per risultati operativi netti, in linea con Deutsche Bank e Crédit Agricole, e potrebbe contare su un plafond di risparmio nazionale stimato in 1.100 miliardi di euro. L’acquisizione avviene attraverso uno scambio di titoli: 17 azioni ordinarie Intesa Sanpaolo contro 10 Ubi il cui titolo viene valutato a 4,254 euro, con un premio de l 27 per cento sulla chiusura del 14 febbraio.

 

Il blocco dei soci più rilevanti che detiene il 18 per cento del capitale ha respinto l’offerta, “ostile e inaccettabile”, quindi è battaglia aperta. Il no dei principali azionisti della Ubi lascia aperta la partita, ci vogliono mesi per completare l’offerta e le contromosse. Alcuni soci fanno circolare un report di Goldman Sachs secondo il quale la banca vale più di quanto stimato da Intesa; un gioco al rialzo? Messina dichiara di non voler cambiare la sua valutazione che nell’insieme ammonta a 4,9 miliardi. Gli azionisti storici, tra i quali fondazioni come la Cassa di risparmio di Cuneo, famiglie bresciane e bergamasche come Bombassei e Beretta, potrebbero essere compensati con un ruolo nella Grande Intesa, anche se la loro quota nel nuovo gruppo sarebbe comunque irrisoria, sotto l’un per cento. Con chi si schiereranno i fondi di investimento? La parola al mercato in una operazione che nasce all’insegna del mercato? 


È ancora battaglia aperta: il blocco dei soci più rilevanti di Ubi ha respinto l’offerta, giudicata “ostile e inaccettabile”


 

Il progetto Grande Intesa nasce da una grande intesa, secondo alcune interpretazioni che tendono a dare all’operazione un impatto di sistema e vogliono interrogarsi sugli equilibri al vertice della finanza del nord o di quel che ne resta. L’accordo in questione riguarda proprio i duellanti che negli anni scorsi in più fasi si erano contesi la leadership: Messina da una parte e dall’altra Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca. Il progetto Generali e il polo della salute (il matrimonio tra Ieo, Humanitas e Policlinico San Donato) avevano segnato il culmine dello scontro.

 

Martedì 24 gennaio 2017, a mercato chiuso, Intesa Sanpaolo conferma il suo interesse a “combinazioni industriali” con le Assicurazioni Generali, ma nel fine settimana precedente erano uscite indiscrezioni di stampa su un piano ben più ampio: acquisto di un pacchetto rilevante, accordo con la tedesca Allianz, tanto che le Generali avevano lanciato un contrattacco preventivo comprando sul mercato il 3,01 per cento di Intesa Sanpaolo, con l’obiettivo di mettere in stallo l’intera operazione perché la legge Draghi stabilisce che “se due società possiedono più del 3 per cento del capitale l’una dell’altra, nelle relative assemblee degli azionisti non possono votare per più del 3 per cento delle quote”. La mossa del cavallo blocca tutto, Mediobanca e Unicredit si schierano a difesa del Leone di Trieste. Intesa molla la presa. Passano due mesi ed è di nuovo scontro. La Humanitas dei Rocca e il San Donato dei Rotelli propongono di acquistare lo Ieo, l’Istituto oncologico fondato da Umberto Veronesi. Mediobanca guida il fronte del no insieme a Unipol, Generali, Telecom, contro una cordata formata da Intesa, Rcs, Mediolanum, Allianz, Pirelli. Alla fine l’assemblea dei soci respinge le offerte, il matrimonio non si fa. Piazzetta Cuccia si prende una rivincita sul palcoscenico milanese dopo la cocente sconfitta subita alla Rcs, dove Intesa ha sostenuto l’opa di Urbano Cairo quando nel 2013 John Elkann ha messo in vendita la quota Fiat. 


Una possibile reazione a catena. Che succederà adesso a Siena? E Bpm andrà avanti da sola come dice il suo capo azienda o no?


 

Ruggini e rancori si sono accumulati nel tempo, ma un fattore inatteso cambia l’intero quadro: il 6 novembre 2019 la Unicredit vende la sua partecipazione nella banca creata da Enrico Cuccia: l’amministratore delegato Jean-Pierre Mustier spezza così ogni immaginifico asse francese esteso fino alle Generali (amministrate da un manager francese, Philippe Donnet, con Mediobanca azionista numero uno) che tanto preoccupa i sovranisti, i servizi segreti e il Copasir. In Borsa qualcuno ipotizza che Intesa possa colmare il vuoto, invece si fa largo Leonardo Del Vecchio, il quale sfida Nagel e punta a diventare azionista di riferimento, vista l’eclisse dell’altro socio importante, Vincent Bolloré, bloccato dalla guerra con Berlusconi in Mediaset e dal braccio di ferro con il fondo Eliot in Tim. Ma non è questa l’intenzione di Messina, anche se è pronto a cogliere il momento di relativa solitudine del management di Mediobanca per mettere fine agli antichi ardori. Il coinvolgimento di Nagel come advisor nell’offerta pubblica di scambio per la Ubi Banca, insieme alla Unipol di Carlo Cimbri che in questi anni ha fatto da alleato di ferro, si muove senza dubbio in questo senso, anche se molti osservatori tendono a ridimensionare gli affreschi visionari molto in voga nell’èra Cuccia.

 

Messina ha dimostrato di guidare una fabbrica di quattrini, amministrando al meglio la banca, senza rinunciare a svolgere quel ruolo di aggregatore più volte annunciato. L’acquisizione della Popolare di Vicenza e della Veneto Banca con il senno di poi può essere considerata un lauto antipasto. Comprate per un euro con in più una dote di 5 miliardi da parte dello stato fino a un impegno massimo di 17 miliardi: davvero un bel colpo, anzi un regalo. Messina ha sempre respinto con sdegno l’accusa. “La nostra banca non ha chiesto di acquistare le attività delle venete – ha ribadito in una intervista alla Repubblica – ma è arrivata a questa operazione dopo essere stata chiamata dall’advisor del Tesoro a partecipare a un’asta alla quale si sono presentate altre primarie banche internazionali (Bnp Paribas, Crédit Agricole e anche Unicredit). E da noi è arrivata l’unica offerta completa”. Non solo. Negli ultimi mesi della loro esistenza le due banche venete hanno avuto bisogno di interventi sostanziosi a sostegno della loro liquidità: si tratta di 10 miliardi di titoli collocati presso investitori istituzionali e garantiti integralmente dallo stato. Se fossero fallite, le garanzie pubbliche sarebbero andate a coprire le perdite.

 

È stata una prova di forza, dunque, che in ogni caso ha lasciato malumori. Ma poiché, come insegnava Machiavelli, il leone ha sempre bisogno della volpe, è arrivato anche il momento della diplomazia, quando è stata coinvolta Mediobanca, ancora avvolta dalle mosse nebulose di Del Vecchio. Dopo i tuoni e fulmini dell’anno scorso, sembra che il vecchio patron di Luxottica, in cerca di una nuova dimensione italica dopo aver sposato la sua azienda con la francese Essilor, sia stato convinto a suon di dividendi che la compagnia di assicurazioni e la banca d’affari non sono poi gestite tanto male: gli azionisti del Leone di Trieste hanno avuto in tre anni l’89 per cento in più, grosso modo quel che hanno distribuito a Piazzetta Cuccia. Il profumo dei soldi caccia i cattivi umori? 


Nel novembre 2019 Unicredit vende la sua partecipazione in Mediobanca: si spezza l’asse francese esteso fino alle Generali


 

Cadono i vecchi steccati, c’è un nuovo scenario dove le ruggini di un tempo non hanno molto senso. Unipol non ha più il fattore K. La Banca d’Italia non è più il primo motore immobile del sistema e nemmeno la Bce, anche se resta l’istituzione di riferimento. Il ministro del Tesoro viene informato solo poco prima che parta l’operazione. “Segnali importanti – commenta un banchiere concorrente che preferisce non essere citato – Messina si è emancipato anche dalla politica. Oggi può dire dei no: ai salvataggi, a riempirsi di titoli di stato, a operazioni che non abbiano una validità economica”. E’ il secondo balzo in avanti da parte di Intesa, dopo quello del 2007 quando il dominus era ancora Giovanni Bazoli e la politica ci metteva lo zampino. Il matrimonio con il Sanpaolo era stato benedetto da Romano Prodi, allora presidente del Consiglio italiano oltre che grande sostenitore di Bazoli fin dai tempi del Banco Ambrosiano. Si racconta che sia stato Prodi al ritorno da Madrid a telefonare all’amico “Nani” per avvertirlo che il Banco di Santander era pronto a fare shopping in Italia. Quella mossa ha innescato una reazione a catena: Unicredit ha preso Capitalia, Monte dei Paschi l’Antonveneta. Bocconi grandi, indigesti (per il Montepaschi), lenti a essere metabolizzati (Capitalia). Bocconi sui quali la politica aveva impresso il suo sigillo, a cominciare da Prodi (per Bazoli), Berlusconi (per Cerare Geronzi), il Pd allora signore di Siena.

 

La grande crisi ha ramazzato ogni cosa e da allora è stata tutta una emergenza. L’operazione Intesa-Ubi è il segno di una svolta, l’inizio di una razionalizzazione del sistema bancario italiano per crescere, non per smaltire le sofferenze tramutate in perdite secche. Così è stata presentata e potrebbe diventarlo. Le ambizioni sono molte. Intanto è cambiato lo spirito del tempo: Mediobanca parla troppo inglese, Unicredit francese o tedesco, Messina si presenta come il campione nazionale; a chi può andare la simpatia in un mondo politico permeato ormai dal neo statalismo, dal colbertismo, dalla difesa dei confini e non solo tra i nazional-populisti? Basta leggere i giornali, a cominciare da quello che un tempo era il giornale della borghesia, cioè il Corriere della Sera, un allure che nemmeno la popolarizzazione dell’era Cairo ha radicalmente cambiato. Da anni ormai si leva un tam tam diventato grido d’allarme: il risparmio italiano fugge all’estero, non nelle valige e negli zaini degli spalloni, non in modo illegale, ma attraverso scelte molto più semplici, lineari, del tutto legittime e razionali, attraverso le decisioni di investimento consigliate dalle banche e dai fondi di investimento. Molte sono le ragioni, ma senza dubbio contribuisce il fatto che mancano soggetti finanziari solidi, affidabili, capaci di muovere grandi masse di risparmio da investire in modo fruttuoso in attività italiane. 


Intesa-Ubi come inizio di una razionalizzazione del sistema bancario: per crescere, non per smaltire le sofferenze 


A questo rumore di fondo Intesa Sanpaolo vuole rispondere, attraverso le dichiarazioni dei suoi top manager, la loro influenza diretta o indiretta sui mezzi di comunicazione, ma anche con scelte operative, persino quelle che, come nel caso delle banche venete, per altri versi possono sembrare salvataggi. I gioielli di famiglia vanno tenuti in famiglia. Il debito pubblico si può affrontare anche con mezzi eccezionali, mobilitando l’enorme patrimonio dello stato attraverso operazioni che solo grandi banche ben attrezzate possono fare, la conversione verde dell’economia può essere aiutata utilizzando risorse consistenti (i 50 miliardi di euro annunciati da Messina). Intesa, insomma, si caratterizza come un baluardo dell’italianità, non in senso protezionistico o sovranista, ma attraverso il mercato – che non è tutto, direbbe Bazoli, però resta insuperato (e insuperabile). Quanto alle Generali c’è un pacchetto di mischia italiano (l’allusione al rugby non dispiacerà all’amministratore delegato Donnet che da giovane era un buon giocatore) che controlla una quota consistente: il 13 per cento Mediobanca e oltre il 15 per cento mettendo insieme le quote di Del Vecchio, Caltagirone, Benetton, Pellicioli che rappresenta la De Agostini. Ciascuno ragiona per sé, non ci sono patti di sindacato, e tuttavia può diventare il nocciolo duro (per citare ancora il modello francese). E’ importante dunque che si creino campioni in grado di competere con quelli transalpini. E’ essenziale che tra questi campioni possa cominciare un’era di collaborazione con un doppio fine: difensivo contro le ricorrenti velleità di mettere le mani nei portafogli degli italiani, offensivo, o se si vuole costruttivo, per esercitare un ruolo tra i grandi della finanza europea.

 

Sarà decisivo capire se Intesa-Ubi farà scattare una reazione a catena. Che succede al Monte dei Paschi di Siena, resterà sempre più in capo al Tesoro o sarà privatizzato? Allo stato attuale non sembra che sia appetibile, almeno finché non verrà davvero ripulito dai prestiti marci (impresa per ora titanica). La Bpm, già Popolare di Milano, andrà avanti da sola come dice il suo capo azienda oppure no? Una cosa è certa, banche il cui valore azionario ruota attorno a zero virgola, cioè pochi centesimi a pezzo, non hanno un roseo futuro davanti. E poi c’è una questione di fondo: esiste un capitalismo italiano in grado di giocare le sue carte non in senso nazionalistico, ma per competere sul mercato internazionale? E’ vero che oggi non vige il cosmopolitismo kantiano, ma piuttosto prevale una logica klausewitziana secondo cui l’economia è una guerra condotta con altri mezzi, tuttavia il denaro non può più essere rinchiuso dentro confini ristretti.

 

“Il punto debole di una mossa senza dubbio fondata e ben costruita – spiega un analista che conosce bene il sistema finanziario europeo – è proprio la sua italianità. Mi spiego: in Italia non c’è nessuna banca in grado di operare ad ampio raggio sui mercati internazionali. Unicredit non ha più i prodotti e non si capisce dove voglia andare a parare. Ha raccolto 30 miliardi di euro tra aumenti di capitale e cessioni. Per fare cosa? In Italia è debole, in Europa non è abbastanza forte. L’operazione Intesa-Ubi consolida in senso ancor più nazionale una banca nazionale. E’ quel che vuole Messina, però il mercato del risparmio e del capitale è mondiale”. Ma stiamo andando decisamente troppo avanti, lasciamo il resto alla prossima puntata, molte cose possono ancora accadere.

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