Davide Casaleggio (foto LaPresse)

Rousseau è peggio di Cambridge Analytica

Carlo Alberto Carnevale Maffé

La piattaforma grillina è populismo industriale, non marketing politico

Si sono sprecate le comparazioni tra la piattaforma Rousseau e il caso di Cambridge Analytica. Il paragone tra le due realtà, tuttavia, non è corretto. Cambridge Analytica, l’azienda inglese coinvolta nello scandalo sull’utilizzo di 50 milioni di profili estratti da Facebook, risulta essersi procurata dati personali in modo scorretto: tuttavia, se i mezzi adottati – incluso l’uso di fake news – sono stati del tutto censurabili, il fine perseguito era a suo modo legittimo. Lo scopo di Cambridge Analytica, così come per la “Bestia” nella macchina propagandistica salviniana, è quello tradizionale del marketing politico, ovvero influenzare le preferenze degli elettori. Questi ultimi, però, saranno successivamente sottoposti a un voto regolare, trasparente e non manipolabile, assoggettato a processi e regole istituzionali. Cambridge Analytica ha giocato sporco, ma le regole e i processi della democrazia e della libera espressione delle preferenze elettorali, a valle, sono stati rispettati. La piattaforma Rousseau, al confronto, è potenzialmente molto più distorsiva e manipolatoria, in quanto interpreta e mette in pratica un esplicito piano di eversione dei processi della democrazia rappresentativa, con chiara valenza anti costituzionale. Un conto è puntare a influenzare gli elettori, in un mercato politico che viene comunque sottoposto a libere e regolari elezioni, un altro è pilotare gli eletti (cioè i parlamentari), con la pretesa di determinarne il comportamento in esplicita violazione dell’art. 67 della Costituzione che esclude il vincolo di mandato. Un conto è il (censurabile) utilizzo di dati personali per titillare gli istinti populisti degli elettori più influenzabili, un altro è controllare integralmente il processo di produzione di decisioni politiche vincolanti per la collettività: dall’ammissione non trasparente alle “liste elettorali” di Rousseau, all’informazione fornita ai votanti, che non rispetta in alcun modo la “par condicio” delle diverse opzioni, alla formulazione (arbitraria) del quesito, alla verifica della correttezza dei processi di espressione della volontà dei votanti, allo spoglio e all’integrità e non manipolabilità dei risultati. Cambridge Analytica è marketing politico, per quanto irregolare e inaccettabile. La piattaforma Rousseau è populismo industriale verticalmente integrato. Perfino Salvini, in preda a manie di grandezza, si è limitato a chiedere “pieni poteri”, da ottenere tuttavia tramite le normali procedure elettorali di una democrazia. L’Associazione Rousseau avanza invece la pretesa di applicare surrettiziamente a tutti i cittadini, tramite un vincolo al mandato dei parlamentari e senza alcuna considerazione per i principi costituzionali, gli effetti dei propri “poteri opachi”. Imporre contrattualmente una specifica scelta a deputati e senatori, posto che per la Costituzione “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione” (art. 67), non riguarda solo gli iscritti alla piattaforma, ma tutto il paese.

 

Si è già scritto molto sulle carenze tecnologiche della piattaforma Rousseau. Qui si tratta di essere fortemente critici non solo sulla soluzione tecnica, ma sul metodo e sul merito della piattaforma Rousseau. Poiché i vagheggi ideologici della democrazia diretta si fondano sul fatto che il popolo sia il soggetto unico e indiscusso della saggezza sovrana e i parlamentari svolgano il ruolo di semplici portavoce, la votazione su Rousseau viene usata come strumento di decisione sul merito di singole questioni, più o meno ampie. La delimitazione del perimetro della domanda è quindi un passaggio di fondamentale importanza, poiché si nega alla radice la delega alla rappresentanza politica, ma al contrario si impone un vincolo di mandato specifico ai parlamentari. E il diavolo, quando si tratta di formulare decisioni vincolanti, sta nei dettagli. Un conto è chiedere se si è genericamente “d’accordo” sul contratto del “governo del cambiamento” (formulazione del quesito del 2018), un altro è chiedere di approvare o respingere della scelta di formare un governo con il Pd, allegando un generico estratto di alcune idee programmatiche senza alcuna valutazione di impatto regolatorio né analisi costi/benefici. Ogni specificazione, infatti, può anche essere intesa come esclusione di terzi: l’approvazione va intesa per un governo con il Pd, ma non con Leu o con altri partiti o gruppi parlamentari?

 

La scienza sociale ha evidenziato che sia la formulazione delle domande sia la disposizione stessa delle possibili risposte (prima il Sì o il No, oppure un No che significa Sì a una domanda formulata sotto forma di negazione, ecc.) non sono da considerarsi neutre, ma al contrario presentano numerosi effetti di distorsione e di “bias cognitivo”. Qualunque studente di metodologia di scienze sociali potrebbe aggiungere una lunghissima lista di problemi per i quali questo tipo di consultazione può al più avere valenza di segnalazione, non certo effetti di deliberazione, per di più con la pretesa di estenderne gli effetti a tutta la nazione, e con il supremo paradosso monocratico di essere annullabile per insindacabile decisione del presunto “Garante”. La lunghezza della domanda ha impatto sulla capacità di comprensione del quesito. Molte ricerche empiriche evidenziano che le domande con più di 16 parole hanno difficoltà a essere pienamente comprese. La forma grammaticale, la semplicità e la specificità del quesito hanno effetti sulla capacità di comprensione di chi è chiamato a votare. La stessa scelta delle modalità di risposta è potenzialmente distorsiva: un conto è un’opzione binaria (Sì/No), con funzione di ratifica o bocciatura delle decisioni del gruppo dirigente, un altro è la modalità a opzioni multiple, sia essa chiusa (una lista di candidati) o aperta (candidature spontanee). Le ricerche empiriche sul “wording” di un quesito sottoposto a votazione hanno ampiamente dimostrato l’esistenza di evidenti distorsioni cognitive. Una delle più note è il cosiddetto “acquiescence bias”, in base al quale l’elettore tende a concordare con la formulazione del quesito. E’ stato documentato anche il “social desirability bias”, che influenza il voto nel senso della percepita desiderabilità sociale dell’opzione proposta. Anche l’ordine nel quale vengono presentate le risposte ha un’influenza sul risultato: sono noti in ricerca sociale sia il “primacy effect” (si privilegia la prima opzione di voto proposta) sia il “recency effect”, nella quale viene meglio ricordata e quindi preferita l’opzione che è stata esposta per ultima nella domanda.

 

Nelle votazioni elettroniche, anche l’interfaccia utente conta: le opzioni mutuamente esclusive a “radio button” funzionano in maniera più efficace e trasparente dei menù “drop-down” a tendina. Per questo i ricercatori sociali, e a maggior ragione le istituzioni democratiche, prevedono uno scrutinio pubblico e una verifica indipendente sia della formulazione del quesito sia delle risposte possibili, sia della modalità pratica di espressione della preferenza da parte dell’utente.

 

Non è necessario pensare che gli iscritti alla piattaforma Rousseau siano “barbari”, ma certo, per poter essere “buoni” decisori – nella logica del filosofo dell’Èmile – devono necessariamente essere almeno un po’ “selvaggi”, ovvero non corrotti dalle istituzioni della vecchia e odiata democrazia rappresentativa costituzionale. A questi “buoni selvaggi” tuttavia, è la stessa piattaforma Rousseau a imporre le catene: non quelle generiche della civiltà, bensì quelle specifiche e stringenti dell’organizzazione, intesa come associazione controllata e governata da persone che sono emanazione diretta dei vertici aziendali della Casaleggio Associati. Il problema è che oggi quelle stesse catene, tramite l’esplicito vincolo di mandato dei parlamentari, legano l’intera nazione.