Il nuovo governo visto da Luciano Violante
Il contratto ieri e il programma oggi. Crescita vs redditi per non lavorare. Intervista sul Conte bis
Roma. La bozza di programma c’è, la squadra è quasi al completo, si attende soltanto il verdetto della piattaforma Rousseau. “Un bel grattacapo”, commenta sornione il presidente emerito della Camera dei deputati Luciano Violante. “Il nuovo accordo di governo presenta differenze sostanziali rispetto a quello gialloverde – prosegue il professore – Matteo Salvini e Luigi Di Maio avevano siglato un patto apparentemente conveniente per entrambi; il contratto non prevedeva un programma unico ma due programmi distinti che marciavano in base al principio di scambio: io voto per la tua proposta non perché la condivida ma solo se tu poi voterai per la mia. Pd e M5S tentano un’impresa più ambiziosa che impone una maggiore responsabilizzazione: per i grillini potrebbe essere il passaggio all’età adulta, per il Pd invece la fuoriuscita dalla marginalità”. In che senso? “I due partiti hanno definito un programma comune. Conte non sarà più arbitro tra due pezzi del governo, ma motore di un governo auspicabilmente unitario”. Sempre che il fantasma di Rousseau dia il suo assenso. “Occorre riconoscere che il M5s la base l’ha consultata. Poi la democrazia diretta è il terreno delle minoranze attive, la democrazia rappresentativa è il terreno delle maggioranze riflessive”.
Di questi tempi la riflessione sembra un privilegio. “La crisi agostana mi è parsa il frutto di un doppio errore: prima Di Maio che, spiazzando l’alleato, mette ai voti la mozione sulla Tav. Salvini che ha deciso unilateralmente di andare al voto senza ponderare i caratteri della democrazia parlamentare. Entrambi hanno messo in moto conflitti che non sono stati in grado di chiudere”. Eppure, senza il colpo di teatro di Matteo Renzi, il Quirinale avrebbe condotto il paese verso le urne. “Renzi è dotato di una grande intelligenza politica, non inferiore alla sua disinvoltura. L’apertura ai grillini ha colto di sorpresa il leader leghista, e di fronte a uno scenario mutato il presidente della Repubblica ha preso atto della possibile esistenza di una maggioranza alternativa”.
Il segretario ufficiale del Pd Nicola Zingaretti, favorevole al voto anticipato, ne esce indebolito. Detto altrimenti: il partito ha un segretario ma il segretario ha il partito? “Era il 2006 quando pensammo, in un gruppo di dirigenti, che per Zingaretti fosse venuto il momento di assumere le redini del partito. E’ una persona solida, e ha una dote fondamentale in politica: la prudenza. Il segretario non può essere un tipo nevrotico. Il presentismo sui social network, la mania continua di twittare non sono compatibili con una guida razionale ed efficace”.
Renzi era nevrotico? “Un po’”. E Salvini? “I leader contemporanei sono sovraesposti, il che li rende più fragili, non più forti. Tuttavia, il capo della Lega non è finito: in politica non finisce mai nessuno che non voglia finire”.
Tornando ai giallorossi, esiste finalmente una bozza di programma: taglio dei parlamentari, abolizione di “tutte le forme di diseguaglianze”, salario minimo, Green New Deal, “transizione ecologica”, acqua pubblica, legge sul conflitto di interessi. Manca la pace nel mondo. “Bisognerà vedere come queste proposizioni si declineranno in concreto. Sarà fondamentale la qualità delle persone designate a ricoprire gli incarichi di governo. Quanto al numero dei parlamentari, la sua riduzione è stata approvata da tutti i progetti di riforma costituzionale, a partire dalla commissione D’Alema. Tuttavia nei progetti precedenti era accompagnata dalla revisione del procedimento legislativo. Il Senato avrebbe particolari difficoltà a svolgere le funzioni attuali con duecento componenti invece che con 315. La strada maestra è il superamento del bicameralismo paritario. Sarebbe sufficiente stabilire che il primo voto spetta alla Camera, che il Senato possa richiamare la legge approvata dalla Camera e che quest’ultima dia il voto finale”.
Sul Corriere della Sera lei ha evidenziato i contraccolpi sulla distribuzione dei collegi. “E’ un aspetto non secondario. Oggi c’è un senatore ogni 188.424 abitanti, domani ce ne sarà uno ogni 302.420. Solo dieci comuni superano i 300 mila abitanti e sono circa seimila i comuni con meno di cinquemila abitanti. Un collegio comprenderebbe circa sessanta di questi comuni. In altre parole, ci sarebbe un’esplosione delle spese elettorali per coprire una popolazione distribuita in migliaia di medi e piccoli comuni. Se si vuole ridurre il numero dei seggi e arginare un lobbismo spinto, si deve tornare a un proporzionale puro”.
Anche Romano Prodi ha dato la propria benedizione al connubio giallorosso. “Ho visto. E’ una tradizione alla quale lui appartiene, l’amalgama. O la conciliazione degli opposti”. Il rischio è quello di maggioranze litigiose, di governi instabili. “Nella Prima Repubblica i governi duravano un anno perché al cambio degli equilibri interni alla Dc cambiavano ruoli e ministri. Era un modo lungimirante per evitare il consolidamento degli interessi: governava un solo partito, e così, pur nella instabilità degli esecutivi, si registrava una sostanziale continuità di linea politica. Oggi è venuta meno anche quella. Perciò serve stabilità”.
I segnali positivi giungono dall’Europa: il commissario uscente al Bilancio Guenther Oettinger ha accolto con soddisfazione il “governo europeista” promettendo una “ricompensa”. “A Bruxelles i rapporti umani contano, e Conte ha saputo costruire un patrimonio di stima e fiducia non solo personale ma dell’intero paese. Non mi stupirei se l’approccio verso i nostri conti pubblici diventasse più indulgente, anzi penso che con un rapporto deficit/pil al 2,5 per cento potremmo realizzare un massiccio piano di investimenti in infrastrutture e misure per la crescita, altro che distribuire redditi per non lavorare”.