Christine Lagarde (foto LaPresse)

Madame Qe davanti al muro di Francoforte

Alberto Brambilla

Perché Lagarde dovrà superare le remore tedesche per seguire le orme di Draghi

La nomina di Christine Lagarde come prossima presidente della Banca centrale europea è stata una scommessa, giocata soprattutto dal presidente francese Emmanuel Macron, che ha avuto come primo risultato quello di insidiare le pretese della Bundesbank di influenzare l’unione monetaria. Il candidato battuto dal presidente del Fondo monetario internazionale è stato il banchiere tedesco Jens Weidmann.

   

La scelta di Lagarde, che subentrerà a Draghi dal primo novembre prossimo e avrà attorno a sé la stessa squadra di economisti e tecnici del predecessore, comporta una serie di conseguenze per l’Unione europea. Alcune sono notizie positive altre invece negative. In un contesto di rallentamento generale dell’economia mondiale e dell’economia europea è probabile che la Bce con Lagarde si impegni a fare quanto ormai già annunciato da Draghi, ovvero una politica monetaria ultra-accomodante con tassi bassi fino a inizio 2020 (almeno) e con la possibilità di rinnovare il programma di acquisto di titoli pubblici, il Quantitative easing, interrotto soltanto nel gennaio scorso prima di avere contezza di un deterioramento delle previsioni macroeconomiche e della fiducia di imprese e consumatori. La cattiva notizia, dal punto di vista di chi si attende un nuovo round di stimoli, è che molti elettori in Germania potrebbero sentirsi frustrati da un nuovo sostegno a paesi molto indebitati e refrattari a compiere riforme radicali, come l’Italia, e spingere l’establishment tedesco a opporsi a un nuovo soccorso da parte della Banca centrale europea.

  

C’è ancora una notevole opposizione tedesca a un ulteriore Quantitative easing in Europa. La Corte costituzionale tedesca terrà a Karlsruhe un’udienza pubblica dal 30 al 31 luglio in merito a una lunga azione legale contro il Qe presentata da alcuni economisti e uomini d’affari tedeschi convinti che Draghi, quando ha lanciato il programma nel 2012, abbia già abusato della pazienza dei tedeschi. All’epoca la cancelliera Angela Merkel acconsentì, infine, affinché Draghi facesse “tutto il necessario per salvare l’euro” mitigando l’opposizione interna alla Bundesbank e del suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Oggi la vocazione espansiva di Lagarde è stata accolta con un “nein” preventivo dalla nuova leader della Cdu Annegret Kramp-Karrenbauer, eletta a fine 2018 per succedere a Merkel. Alla Frankfurter Allgemeine Zeitung ha detto che la Bce dovrebbe mettere fine a un lungo periodo di tassi bassi, che riducono la possibilità di fare profitti di banche e assicurazioni tedesche, e dovrebbe rimanere indipendente.

   

Lagarde è stata criticata in quanto il suo passato da ministro delle Finanze francese non è garanzia di imparzialità. Madame Lagarde in effetti potrebbe non essere un difensore radicale dell’indipendenza della banca centrale, come i suoi predecessori, considerato soprattutto che la pressione politica sulle banche centrali è aumentata negli ultimi anni, anche sulla Federal Reserve americana. Quando la Banca centrale fu istituita nel 1998, Theo Waigel, allora ministro delle Finanze tedesco, resistette dal nominare Jürgen Stark, suo segretario di stato, per riempire il seggio tedesco nel consiglio di sei persone, sostenendo che questo avrebbe potuto politicizzare la Bce. La Germania voleva contrastare con tutti i mezzi il desiderio del presidente francese François Mitterrand di istituire una Banca centrale apertamente politica. Il primo capoeconomista della Bce è stato Otmar Issing proveniente dalla Bundesbank e dall’Università di Würzburg. Benché quel periodo di strenua difesa dell’indipendenza sia ormai finito, il ricordo tedesco della purezza istituzionale non giova al gradimento della nuova presidente (francese) della Bce.

   

“Un presidente come Weidmann sarebbe stato in grado di migliorare l’immagine della Bce in Germania, il che sarebbe stato vantaggioso per l’unione monetaria nel lungo periodo”, ha commentato l’editore del quotidiano conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung, Gerald Braunberger.

  

Non che Lagarde, nei suoi otto anni al Fondo monetario internazionale, abbia fatto granché per farsi ben volere in Germania: spesso ha criticato il modello tedesco. Nel gennaio 2018 in una conferenza alla Bundesbank ha sposato la critica americana dicendo che un surplus commerciale dell’8 per cento del pil è segno di un eccesso di risparmio e di investimenti pubblici inefficienti, il che rappresenta un problema per l’economia mondiale. Una tesi equivalente a quella del presidente americano Donald Trump.

  

Se davvero Lagarde volesse proseguire con il compito consegnatole da Draghi e diventare “madame Qe” dovrebbe dunque superare l’opposizione tedesca. Il suo migliore alleato, in quel caso, sarebbe la percezione del declino, o almeno il rischio di un rallentamento pronunciato. Percezione che comincia a farsi largo all’interno della Confindustria tedesca, nelle grandi imprese, dalla Volkswagen alla chimica Basf, nei bastioni bancari di Deutschebank e Commerzbank per invertire la tendenza o per avere una protezione da fattori negativi esterni e quindi incontrollabili.

  

L’imposizione di dazi all’importazione da parte degli Stati Uniti di Trump ha colpito l’economia cinese, che procede a un ritmo più lento ed è il secondo mercato di sbocco dell’export tedesco. E sempre la guerra commerciale trumpiana potrà avere effetti diretti sull’economia tedesca dal momento che gli Stati Uniti sono la prima destinazione dei prodotti made in Deutschland. La percezione che le grandi imprese e le principali banche non riescano a rimettersi in sesto con le loro forze cambierebbe la prospettiva in merito all’opposizione convinta a una banca centrale interventista.

  

Dopo avere evitato una recessione tecnica alla fine dell’anno scorso, le previsioni di crescita per il 2019 della Germania sono migliori solo a quelle dell’Italia, che è ultima in Europa. Se il rallentamento dovesse continuare, o se si intensificasse, alla fine, la Bce sarebbe costretta a ricominciare gli acquisti di titoli oltre il muro (eventuale) di Francoforte.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.