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Il capo di Federacciai spiega cosa significa per l'Italia la crisi dell'Ilva

Renzo Rosati

Aleggia il sospetto che Di Maio per tener buono il proprio elettorato stia giocando la partita di ritorno dopo la magra figura del “delitto perfetto” da lui “scoperto” ad agosto 2018

Roma.“Le regole del gioco vanno rispettate. Non possiamo, come sistema paese, permetterci di non dare certezza del diritto a chi vuole investire nella nostra economia, siano investitori italiani o esteri”. Alessandro Banzato, presidente di Federacciai, è schierato con ArcelorMittal, multinazionale prima produttrice mondiale di acciaio impegnato nella riconversione e rilancio dell’Ilva di Taranto, che andrà via se resterà la norma del decreto crescita, peraltro definitivamente approvato ieri, voluta di 5 stelle che prevede la responsabilità penale nel processo di bonifica ambientale, oltretutto con aspetti di retroattività. Di fatto, una modifica del contratto sottoscritto nel 2017 tra lo stato e il primo produttore siderurgico mondiale.

 

Banzato guida un’associazione che riunisce 123 imprese siderurgiche alle quali fa capo il 95 per cento della produzione e trasformazione nazionale. Nel 2018 l’Italia con 24,5 milioni di tonnellate, in aumento dell’1,9, ha difeso il secondo posto in Europa, dietro la Germania (43,6 milioni), dopo essere stata scavalcata tre anni fa dall’Ucraina. La crisi dell’Ilva rischia di mettere in crisi non solo questi buoni piazzamenti ma un’intera filiera. E anche per questo sulla stessa linea di Federacciai si trovano il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia e il segretario generale della Cgil Maurizio Landini. Aleggia il sospetto che Luigi Di Maio per tener buono il proprio elettorato stia giocando la partita di ritorno dopo la magra figura del “delitto perfetto” da lui “scoperto” ad agosto 2018. Per questo, per non subire un precedente che li intrappolerebbe nelle tattiche di giornata, il fronte industriale nazionale è compatto benché nel 2017 l’altra offerta per Taranto fosse firmata, oltre che da Jindal, da nomi come Arvedi, Cassa depositi e prestiti e Leonardo Del Vecchio. Nei sette anni perduti dal sequestro degli stabilimenti della famiglia Riva si calcola che siano andati perduti 23 miliardi di produzione, l’1,35 per cento del pil cumulato. Oltre a questo è in ballo il futuro quantitativo e qualitativo dell’intero settore.

 

Come rivelano gli studi sulla siderurgia italiana condotti da Federacciai, Mediobanca e da Siderweb, osservatorio con base a Brescia, la competitività italiana riflette l’eccessiva frammentazione nonché la divisione verticale del prodotto: le aziende del nord (la Lombardia rappresenta un terzo della produzione) sono specialiste nei laminati lunghi e nei tubi, ottenibili maggiormente con la tecnologia del forno elettrico, mentre nei grandi altoforni, come l’Ilva di Taranto, si producono laminati piani. Dei primi nel 2018 sono stati prodotti nel 12,4 milioni di tonnellate, in aumento del 4,1 per cento. Dei secondi 11,1 milioni, in calo dell’1,6. Uno studio di Gianfranco Tosini docente di mercati internazionali all’università di Brescia afferma che i primi e i forni elettrici hanno garantito all’Italia una maggiore flessibilità specie in periodi di crisi. I clienti tipici di questi prodotti sono le pipeline, le costruzioni e l’offshore. “La debolezza finora avuta nei laminati piani” dice Tosini “si riflette negli acciai ad alta resistenza e nelle leghe leggere utilizzati sempre più in componenti dell’auto e nel settore militare e aereo”. L’Ilva avrebbe dovuto colmare questo gap. E prima ancora che ArcelorMittal tornasse brevemente sulla scena italiana grandi gruppi come Fiat Chrysler e Fincantieri avevano concluso contratti all’estero (con Mittal e ThyssenKrupp). Non solo. Altri produttori, come Arvedi, per colmare il vuoto avevano diversificato la produzione nei laminati larghi, creando però un gap nei tubi, che ha contribuito alla perdita da parte dell’industria italiana della commessa Tap (andata a Mannesmann e a Corinth Pipework), e problemi a un altro cliente pubblico, la Snam. Se davvero la multinazionale indiana mollasse Taranto l’intera siderurgia italiana si troverebbe nuovamente alle prese con una crisi di strategie, investimenti e commesse, oltre che con un quadro legislativo modificabile in base alle ripicche politiche. Nonostante gli sforzi fatti negli anni difficili.

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