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Brexit d'acciaio

Mariarosaria Marchesano

British Steel comprata dai turchi e sussidiata da Londra. Per Banzato (Federacciai) danneggerà l’Europa

Roma. In queste settimane decisive per la Brexit si sta chiudendo un’operazione che potrebbe essere il primo esempio di come l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, soprattutto se non regolamentata, rischia di stravolgere la libera concorrenza del mercato unico. Il colosso siderurgico British Steel, in amministrazione straordinaria a causa di una profonda crisi, sta per essere venduto al fondo pensioni dell’esercito turco (la società Oyak) forte di un pacchetto di sostegno finanziario di 300 milioni di sterline assicurato dal governo inglese. La notizia, di dominio pubblico dallo scorso agosto, non aveva finora sollevato obiezioni se non un certo stupore per l’attivismo della Oyak che conta 260 mila sottoscrittori ai quali garantisce forme di previdenza integrativa e che è quotata alla Borsa di Istanbul. Ma un investitore è un investitore e la Oyak conta partecipazioni in vari settori, compreso il 49 per cento della joint venture automobilistica con Renault.

 

Cosa c’è allora che non va? A sollevare il caso è stato il presidente di Federacciai, Alessandro Banzato, durante l’assemblea annuale che si è svolta il 14 ottobre a Milano e alla quale è intervenuto anche il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. Banzato si è domandato: “Quali strumenti avrà la Commissione europea per contrastare questo potenziale aiuto di stato e in quanto tempo sarà in grado eventualmente di attivarli?”.

 

Il quesito apre una questione molto più grande legata ai contraccolpi che gli operatori siderurgici europei potrebbero subire dalla cessione della British Steel, gruppo nato nel 2016 quando il colosso indiano Tata ha acquisito le attività siderurgiche inglesi dal fondo Greybull Capital e però andato in crisi subito dopo. “Da quel poco che trapela sulla stampa, si intuisce che per salvare 5 mila di posti di lavoro il governo britannico si starebbe impegnando a sovvenzionare il compratore – chiarisce in un colloquio con il Foglio Alessandro Banzato – Questa operazione è distorsiva della concorrenza perché gli aiuti di stato sono severamente vietati nei paesi dell’Unione, ma evidentemente in Gran Bretagna si guarda già oltre”.

 

Perché se la British Steel viene venduta al fondo pensioni dell’esercito turco è un problema per i produttori di acciaio europei? “Il problema non è legato all’identità del compratore ma agli aiuti finanziari pubblici che potrebbero determinare una competizione al ribasso sui prezzi. Oltre il 50 per cento delle esportazioni dell’azienda britannica – complessivamente pari a circa 3,7 miliardi di sterline – sono destinate a paesi dell’Unione europea, compresa l’Italia. Questa situazione ha le potenzialità per aggravare la contrazione del settore già in atto”. Nei primi otto mesi di quest’anno, infatti, la siderurgia italiana ha registrato un calo del 4,5 per cento della produzione e redditività e prezzi in frenata. Non solo. Per Banzato è l’intera siderurgia europea che rischia di essere marginalizzata, basti pensare che la produzione mondiale di acciaio registra un’eccedenza di 550 milioni di tonnellate, ovvero più del triplo della produzione di tutta l’Unione nel 2018. Come presidente di Federacciai, Banzato racconta di avere già sottoposto il caso British Steel a una delegazione di parlamentari europei e all’ambasciatore Maurizio Massari, rappresentante permanente presso l’Unione europea.

 

“Anche la Germania avrebbe intrapreso alcune iniziative diplomatiche e della questione sarà investita direttamente l’Eurofer, l’associazione dei produttori siderurgici, che ha come vice presidente l’italiano Mario Caldonazzo, ceo del gruppo Arvedi”, prosegue. Difficile dire se esistono margini di manovra per intervenire su una transazione che potrebbe chiudersi in tempi brevi (la due diligence della Oyak su British Steel terminerà a fine ottobre dopodiché potrebbescattare un’offerta vincolante) e che per gli inglesi ha una ricaduta di tipo sociale. Del resto, anche l’Ilva di Taranto ha subito nel 2017 un procedimento della Commissione europea per aver ricevuto 84 milioni di euro di aiuti di stato, una vicenda che ha poi fatto da sfondo alla vendita dello stabilimento al gruppo Arcelor Mittal alla cui guida – per la divisione italiana – sta per insediarsi la manager Lucia Morselli in sostituzione di Matthieu Jehl. Ma lo stallo dell’attuale Commissione, presieduta da Ursula von der Leyen (Sassoli all’assemblea di Federacciai ha confermato che l’insediamento slitterà dal primo novembre al primo dicembre), non gioca certo a favore di un intervento tempestivo sul caso inglese.

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