Il crollo di Lehman Brothers il 17 settembre di dieci anni fa (Foto Imagoeconomica)

Il foglio 48 ore

Come arriverà (se arriverà) il prossimo tracollo

Renzo Rosati

L’economia americana è viva e surriscaldata, il prezzo del petrolio è in costante ascesa e spinge l’inflazione, le Borse sono ai massimi, le Banche centrali sono scoordinate. Tutti i cicli finiscono. Ma ora il populismo ci mette il carico

Come può aspettarsi una crisi la più grande potenza economica del mondo, gli Stati Uniti, con la crescita del pil a livelli doppi dell’Europa (più 4,2 per cento), la disoccupazione ai minimi dal 1969 (3,9 per cento), in piena espansione dei consumi con inflazione sopra il tre per cento?

 

Fortune non è certo tra i profeti di sventura, come testimoniano la sua testata e le classifiche delle maggiori imprese che ne sono il vanto dei tycoon di Wall Street: eppure Fortune ha da poco pubblicato un’inchiesta dal titolo “Per il boom economico la fine è vicina – La crescita rallenterà, il toro in borsa finirà, ecco perché”. E il perché non è solo la mera dimostrazione che tutti i cicli hanno una fine. E questo dura da otto anni, dopo la violenta recessione generata dall’esplosione della finanza sporca e dal crac di Lehman Brothers del 15 settembre 2008. Certo, statistiche alla mano, nessun periodo di espansione e aumento dell’occupazione si è mai protratto ininterrottamente per oltre un decennio. Ma al di là di questo, è ancora sui monitor degli operatori un dossier di maggio del Congressional budget office (Cbo), l’ufficio di bilancio del Congresso, che nota come il mercato del lavoro sia così surriscaldato da indurre molti dipendenti a dimettersi con la certezza di trovare subito un altro posto a stipendio migliore (altro che reddito di cittadinanza): quanto è esattamente accaduto nei tre mesi estivi. “Il che – afferma il Cbo – sta rapidamente portando a una penuria di lavoratori e a un’impennata dei salari”. Il National bureau of Economic research, istituto indipendente fondato a New York nel 1920, rileva che il fenomeno attuale è il secondo per durata in 164 anni, dopo l’era di Bill Clinton. Dunque il soccorso all’industria by Barack Obama e i successivi tagli alle imposte per le imprese di Donald Trump hanno funzionato? Sì, ma questi ultimi solo nel breve periodo. Il piano America First – le restrizioni alle assunzioni di manodopera straniera combinate con i benefici per chi produce negli Stati Uniti – rischia di produrre una penuria di lavoratori: fino al 2017 gli immigrati avevano infatti rappresentato almeno il 18 per cento delle necessità delle aziende. Lo dice Neel Kashari, capo della Federal Reserve di Minneapolis: “Per la Corporate America era una riserva garantita a basso costo, una sorta di pasto gratis”. Anche chi ha beneficiato degli sgravi di Trump lo sa benissimo: “Non è per nulla insolito vedere economie forti accompagnate da crolli azionari e dei prezzi di altri asset. Sappiamo tutti di essere a fine ciclo”, dice Ray Dalio, fondatore e Ceo del fondo d’investimenti da 160 miliardi Bridgewater Associates. In definitiva tutti stanno aspettando una crisi fisiologica per indigestione di benessere? Non è, appunto, solo questo: infatti i guai arriveranno stavolta soprattutto da fuori gli Stati Uniti; mentre in Europa saranno principalmente interni. E l’Italia grillino-leghista ne è parte, anzi può esserne sia la scintilla sia la prima vittima: la “Manovra del popolo” che il ieri ha riportato lo spread ben oltre i 300 punti evoca un rischio fatale non troppo lontano.

 

 

A livello globale gli esperti guardano al brusco rialzo delle materie prime, a cominciare dal greggio tornato ad 85 dollari al barile (il Brent del Mare del nord) e 75 (il Wti americano). Le stime dei prossimi rialzi sono in continuo aggiornamento, erano a 90 dollari a settembre sono a 100 oggi. Tutto ciò influisce sui prezzi di produzione dell’industria e spinge l’inflazione: l’inverno, se sarà meteorologicamente freddo, sarà caldissimo per i costi.

 

L’altro grande problema è la divergenza tra le politiche monetarie. La Fed, la Banca centrale americana, continua a ignorare le lamentele di Trump e prosegue con l’aumento dei tassi d’interesse: li ha portati al 2,25 per cento e potrebbe decidere un altro rialzo entro dicembre. La Banca centrale europea invece, benché sia alla fine del Quantitative easing (l’acquisto di titoli pubblici cesserà definitivamente a fine anno), non prevede rialzi dei tassi prima dell’estate 2019. Non solo. Il presidente della Fed, Jerome Powell, ha motivato il rialzo del 26 ottobre con l’obiettivo di far scendere l’inflazione poco sopra il 2 per cento mentre il prossimo anno gli interessi federali toccheranno il tre: dunque dopo il lungo periodo di denaro facile i tassi reali torneranno attivi; il denaro richiederà nuovamente un prezzo da pagare. Economisti come Donato Masciandaro della Bocconi, considerano eccessiva la stretta di Powell, motivata più dalla volontà di marcare l’indipendenza da Trump (che vorrebbe tassi bassi e dollaro debole). Di fatto però mai si era vista una politica monetaria così divergente nelle varie aree del mondo. La Bank of England, in piena incertezza da Brexit, tiene i tassi allo 0,75 per cento, superiori alla Bce ma molto distanti dalla Fed. La People Bank of China li ha alzati all’1,5 nel 2017 ma potrebbe ridurli per il rallentamento dell’economia. La Bank of Japan lo ha confermati a zero ritenendo che famiglie e imprese abbiano ancora bisogno di assistenza. Un caos: tanto che all’ultima annuale riunione dei Banchieri centrali di inizio settembre a Jackson Hole, un’amena vallata del Wyoming, lo slogan più in voga è stato “L’inverno sta arrivando”, con riferimento alla minaccia della serie tv “Il trono di spade” e non alle nevicate natalizie. Se l’inverno (non meteorologico) arriverà davvero non sarà dunque come nel 2008, quando tutto il mondo adottò la stessa ricetta anticrisi: iniezioni coordinate di denaro pubblico. Gli Stati Uniti sono in overdose di crescita, avrebbero bisogno di esportare prodotti e importare manodopera e materie prime. Ma il protezionismo di Trump ostacola tutte e tre le cose.

 

In Europa Mario Draghi ha esaurito le munizioni, in scadenza il Qe, resta una sola arma, l’Omt (Outright monetary transaction), cioè il soccorso a un singolo paese che rischi l’uscita dalla moneta unica, soccorso però condizionato al commissariamento della sua politica economica. Ma da una parte si tratta di una pistola scarica, dall’altra l’unico paese che potrebbero averne bisogno è l’Italia. Il termine più gettonato dai leader gialloverdi è “complotto” ma ignorano che il vero cambiamento con la fine del denaro facile è che il potere non è più nelle mani di chi vende (titoli pubblici, obbligazioni private, azioni), ma di chi compra. Qual è la mercanzia che il Tesoro italiano può esporre per convincere i fondi privati mondiali a comprare 120 miliardi di Btp in più nel triennio (600 in totale) necessari a finanziare la “Manovra del popolo”? Il reddito di cittadinanza, il condono, un piano di investimenti che nessuno conosce. Chi acquisterà una merce simile, tanto più da un venditore già superindebitato? La domanda “comprereste un’auto usata da questo signore”, valeva per la Grecia, oggi è attuale per l’Italia. La risposta è già scritta.