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Dal 2008 l'indebitamento globale è cresciuto fino al 318 per cento del pil mondiale

Mariarosaria Marchesano

Mentre si teme una nuova fase critica globale, la questione centrale resta il livello di “leva” nell’economia

Milano. Il mondo è minacciato dall'indebitamento globale, cresciuto tanto velocemente negli ultimi dieci anni al punto di diventare un potenziale rischio sistemico. In una fase in cui tutti si chiedono che forma avrà la prossima crisi – se lo scoppio di una presunta bolla che sgonfierà i valori degli asset finanziari sui mercati oppure l’effetto contagio scatenato dal default di un paese emergente come la Turchia, l’Argentina o addirittura l’India – la questione centrale resta il livello di “leva” nell’economia.

 

Il grande debito, appunto, che il mondo dopo Lehman Brothers ha ereditato insieme alle politiche ultra espansive delle Banche centrali, arrivate a tamponare la situazione, e una montagna di regole per gli operatori finanziari. Secondo una ricerca della casa d’investimenti Moneyfarm, il debito aggregato – inteso come l'insieme dei debiti dei governi, delle famiglie e delle istituzioni-aziende finanziarie e non – è passato da 173 mila a 250 mila miliardi di dollari, pari a circa il 318 per cento del pil mondiale. Era al 283 per cento solo dieci anni fa.

 

“In seguito alla grande crisi ci saremmo aspettati di vedere una diminuzione dei livelli di esposizione, ma ciò è successo solo in alcuni paesi e in certi settori – spiega Andrea Rocchetti, autore della ricerca Moneyfarm – Ma in generale il livello di tassi estremamente basso e l'intervento da parte degli stati ha portato un aumento generalizzato della leva economica”.

 

Ma perché bisogna temere una nuova fase critica dell’economia globale? Il punto di partenza del ragionamento di Moneyfarm è che probabilmente ci troviamo di fronte a “una crisi a doppia recessione”: vuol dire che, dopo dieci anni, siamo solo a metà del processo di normalizzazione del rapporto tra il ciclo economico e quello finanziario. La prima recessione è avvenuta nel 2009: ne è seguito un massiccio intervento monetario e fiscale che ha avuto come effetto una ripresa estremamente graduale e a diverse velocità. “Queste risposte politiche hanno creato una serie di nuovi squilibri come il costo del capitale molto basso, debito, prezzo di azioni e obbligazioni elevato – prosegue Rocchetti – Adesso che le Banche centrali si trovano nella posizione di dover modificare le proprie politiche, probabilmente vedremo la crescita rallentare e non è escluso che alcune aree geografiche entrino in recessione, cosa che stiamo già vedendo in molte geografie emergenti. Solo allora capiremo veramente se la struttura di regole che è stata messa in piedi sarà sufficiente a proteggere l'economia e la stabilità del sistema finanziario”.

 

Quello degli effetti distorsivi della politica di acquisto di asset finanziari da parte delle Banche centrali, il cosiddetto quantitative easing, è stato messo in luce di recente anche da un’analisi di Kairos-Julius Baer, in cui, in modo provocatorio ma non tanto, si auspica che alla “prossima bolla” le Banche centrali comprino meno bond e più petrolio, acciaio, case e auto, vale a dire materie prime e beni di consumo, in modo da finanziare con moneta, e non con il debito, una nuova spesa pubblica. Ad ogni modo, il rischio di una nuova crisi globale, che non manca ormai di essere segnalato nelle analisi di quasi tutti gli osservatori di mercato, viene percepito con gradazioni diverse. Per esempio Dws, la divisione di asset management di Deutsche Bank, mette in evidenza che, secondo l’indice che misura lo stress dei mercati finanziari calcolato dalla Federal Reserve Bank di Saint Louis, “a oggi non c’è motivo di temere una nuova crisi”. Tale indice tiene conto di un grande numero di componenti ed è particolarmente attendibile perché ha dato l’allarme durante l’estate del 2007, più di dodici mesi prima del crollo di Lehman. Ebbene, attualmente l'indicatore è in zona verde, quindi nessun pericolo. La stessa Dws, però, aggiunge che ciò potrebbe essere dovuto alle Banche centrali, che hanno stabilizzato l’economia e i mercati finanziari in tempi difficili, mentre l’aumento del debito delle imprese americane potrebbe mettere in allarme gli investitori. “E’ quindi probabile che la pace attuale non duri per sempre. Come abbiamo visto recentemente, l'umore nei mercati a volte può cambiare molto rapidamente”, conclude il rapporto.

 

Molti debiti pubblici, meno privati

 

Quello che è interessante notare di questo trend è che dal 2008 in poi, mentre i governi hanno aumentato il proprio indebitamento di 30 mila miliardi di dollari, passando dal 60 per cento all’86 per cento del pil globale, le istituzioni finanziarie sono state più virtuose e la loro esposizione in relazione al pil è scesa all’80 per cento rispetto al precedente 89 per cento. Tradotto: le banche sono più solide e regolamentate e gli stati sovrani sempre più fragili nel loro assetto contabile ed esposti nei confronti dei mercati dove sono collocati i loro titoli di debito. In questo quadro l'Italia si posiziona molto al di sopra della media mondiale con un rapporto deficit-pil aumentato di 30 punti percentuali nello stesso arco di tempo preso in considerazione dalla ricerca (oggi al 132 per cento circa). Non è dunque un caso se a ogni dichiarazione del governo gialloverde che indica un possibile aumento della spesa pubblica ci sia un sussulto dello spread unito a un calo dei corsi di Borsa. Ieri all’apertura della settimana in cui è attesa la nota al Documento di programmazione economica e finanziaria, l’incertezza si è riflessa sui mercati con un lieve innalzamento dello spread a 242 punti punti base. Piazza Affari ha perso l’1 per cento, ed è stata la peggiore tra le Borse europee che hanno aperto tutte in negativo a poche ora dall’entrata in vigore dei nuovi dazi americani sull’importazione di 200 miliardi di merci cinesi. Un alto indebitamento, in queste condizioni, è un ulteriore fattore di debolezza.

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