Lo stesso giorno in cui il Sole pubblica l’intervista a Jamie Dimon, il ministro Savona avvertiva che bisogna essere pronti a tutto, anche a “resistere al cigno nero” (foto pixabay.com)

L'amico americano

Stefano Cingolani

Euro o non euro. Mentre appare lo spettro del cigno nero, il gran capo di JP Morgan scommette sull’Italia: “Ci siamo da cent’anni e ci resteremo”

Questa è una storia di cigni (neri naturalmente) e di banchieri, di ministri e (ahinoi) di economisti. Ma soprattutto di una grande scommessa sull’Italia. “Ci siamo da cento anni e ci resteremo per altri cento”: il messaggio lanciato sul Sole 24 Ore da Jamie Dimon, il gran capo di JP Morgan, il banchiere più potente d’America e del mondo, è forte, anche per questo eccita ancora una volta i cultori del complotto pluto-massonico (e mettiamoci anche quello giudaico perché se la JP Morgan non fa parte della finanza ebraica, la Goldman Sachs sì, e anche lei è della partita). Dimon ha avvertito che lasciare l’euro sarebbe “una catastrofe” sia per l’Italia sia per l’Unione europea.

 

Jamie Dimon, il banchiere più potente del mondo, ha avvertito che lasciare l’euro sarebbe, per noi e per l’Ue, “una catastrofe”

E in quello stesso martedì 10 luglio in cui il quotidiano della Confindustria pubblicava l’intervista, in Parlamento il ministro per gli Affari europei Paolo Savona avvertiva che in ogni caso bisogna essere pronti a tutto, anche a “resistere al cigno nero” e lui sa come fare: il piano B potrebbe diventare piano A se proprio l’Italia venisse spinta fuori dalla porta. Spinta da chi? Dalle solite occulte e maligne potenze o da se stessa? A poche ore di distanza il capo dell’Assobancaria Antonio Patuelli evocava lo spettro Argentina dove i tassi d’interesse sono al 40 per cento (in Italia nei primi anni 80 quando regnava l’inflazione, erano arrivati fino al 19 per cento), mentre il ministro dell’Economia Giovanni Tria, che finora ha tenuto ferma la barra, annunciava che l’Italia è disposta a condividere i rischi “ma non a tutti i costi”. Quanto al governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, intervenuto anche lui all’assemblea dell’Abi, ammoniva: se non si fanno le riforme, l’Italia diventa debole, ancor più di dieci anni fa, quindi molto esposta di fronte a una prossima crisi. Il cigno nero, cioè l’evento eccezionale e inatteso, evocato da Savona, potrebbe venire non dall’esterno, ma dall’interno del paese.

  

La banca Morgan, così, diventa ancor più importante proprio per i suoi intrecci con l’Italia, non solo con il passato, ma con il futuro, con l’economica e con la politica, come è accaduto nel primo secolo di una relazione solida e davvero di lunga durata. Quando John Pierpont arrivava a Roma, ogni anno e sempre al Grande Albergo in via del Corso, oggi chiamato Plaza, davanti alla sua suite c’era la coda di antiquari, artisti, uomini d’affari, perché il potentissimo banchiere che teneva in mano le sorti della finanza americana e in parte anche europea, non mancava mai di arricchire la sontuosa collezione d’arte che si può vedere a New York nella biblioteca museo su Madison Avenue e la 36esima strada, ristrutturata da Renzo Piano: Leonardo, Michelangelo, Rubens, Rembrandt, Picasso, 49 edizioni della Bibbia stampate da Gutenberg e delizie del genere. Intanto, Pierpont si informava sulle banche italiane e sulla grande modernizzazione avviata da Giovanni Giolitti. Nel 1910 venne nominato presidente della commissione straniera per celebrare il cinquantesimo dell’unità d’Italia. “Nessuno lo merita più di lui”, si disse. Nella suite imperiale del Grande Albergo morì a 75 anni il 31 marzo 1913. Un picchetto militare accompagnò i funerali nella hall dell’albergo; la salma viaggiò in treno fino a Parigi, poi accompagnato da altri onori questa volta dell’esercito francese, venne imbarcata a le Havre sul transatlantico France (posseduto dalla White Stare Lines, la compagnia di navigazione della JP Morgan, la stessa che aveva subito un anno prima il disastro del Titanic).

   

Una coda di antiquari, artisti, uomini d’affari attendeva John Pierpont quando arrivava a Roma negli anni del governo Giolitti

Il sostegno all’Italia continua sotto la guida di John Pierpont junior, con abbondanti prestiti durante la Prima guerra mondiale e dopo, fino al sostanziale aiuto a Benito Mussolini. Nel 1927, mentre il duce stringe le redini del suo regime totalitario, la banca americana raddoppia da 50 a 100 milioni di dollari l’erogazione al Regno d’Italia conosciuta come “prestito Morgan” e concede altri 50 milioni a un consorzio di tre banche guidato dalla Banca d’Italia. La condizione è che la lira sia una moneta forte. Proprio per ottenere denari dall’estero, essenziali per tenere in piedi il paese (nonostante il nazionalismo e il sovranismo fascista), Mussolini un anno prima, con il discorso tenuto a Pesaro, si era impegnato a sostenere la valuta italiana fino a un cambio di uno a 90 con la sterlina. Ma l’uso politico della lira si trasformò in un boomerang quando arrivò il grande crac del 1929.

  

La JP Morgan era stata ed è rimasta per molti versi la cassiera dei governi, togliendo ai Rothschild nel ’900 il primato del quale avevano goduto nell’800. Per avvicinarci ai giorni nostri, la banca americana ha aiutato l’ingresso dell’Italia nell’euro grazie a un contratto derivato stipulato nel 1996 quando Carlo Azeglio Ciampi era ministro del Tesoro e Mario Draghi direttore generale. Non che abbia fatto scomparire d’incanto gli ostacoli o che abbia assorbito il debito pubblico, ma ha consentito di portare il deficit di bilancio entro il limite del 3 per cento. Tecnicamente, fu un currency swap, vennero scambiate lire con yen giapponesi e altre valute il cui cambio era favorevole. Il ricavato entrò nelle casse del Tesoro, come contropartita l’Italia si impegnava a futuri pagamenti che, però, grazie al derivato, non venivano contabilizzati come passività. La JP Morgan non era l’unica per la verità; il Tesoro in quegli anni ha utilizzato con esiti contrastanti i derivati firmando accordi con ben 19 banche; un contratto con la Morgan Stanley si è rivelato micidiale ed è costato ben 3 miliardi nel 2012 al governo di Mario Monti. Secondo alcune stime gli strumenti in portafoglio al Tesoro contabilizzano perdite pari a 36 miliardi, per fortuna sono solo potenziali perché non c’è nessuno (ancora) che richieda indietro il capitale.

  

Jamie Dimon è l’unico rimasto in sella tra i grandi banchieri americani dopo il collasso del 2008, il solo ad uscirne addirittura rafforzato. Nato a New York nel 1956 da una famiglia di finanzieri originaria della Grecia, si è fatto le ossa all’American Express dove suo padre era un dirigente di alto livello, Nel 2000 entra nella JP Morgan dalla finestra (era amministratore delegato della Bank One comprata dalla JP Morgan), ma quattro anni dopo è già in plancia di comando del gruppo nel quale era confluita la Chase Manhattan Bank di David Rockefeller, anch’essa legata per diversi fili all’Italia, in particolare alla Fiat e a Gianni Agnelli. Democratico centrista, Dimon ha spesso litigato con Barack Obama, ma il suo vero capolavoro è stato ottenere 25 milioni di dollari dal fondo salva banca (Tarp) anche se la JP Morgan non aveva realmente bisogno di essere salvata. Superato un cancro alla gola nel 2014, il banchiere sembra voler restare in carica a vita, non senza suscitare malumori e conflitti. Per guidare le operazioni nell’Europa meridionale ha scelto Vittorio Grilli, ex direttore generale e poi ministro del Tesoro. Ed è lui che lo ha fatto incontrare con Matteo Renzi.

  

Siamo nel luglio del 2016, esattamente due anni fa anche se sembrano trascorsi due decenni; si celebra il centenario della Banca d’Italia e tra gli invitati non può mancare Dimon. In quell’occasione, Renzi accompagnato da Pier Carlo Padoan e Claudio Costamagna si siede a tavola con Dimon e Grilli. Si parla di tutto a cominciare dall’economia mondiale, ma anche del Monte dei Paschi di Siena. Nasce allora l’ipotesi di salvataggio, chiamato svendita o complotto da coloro i quali faranno in modo di nazionalizzare la banca senese, prima temporaneamente e adesso per sempre, come propongono i leghisti. Si tratta di garantire un aumento di capitale sul mercato per cinque miliardi, con la pulizia completa delle sofferenze e un prestito ponte di cinque o sei miliardi fornito dalla stessa JP Morgan in attesa di una garanzia pubblica. Scende in campo la Ubs (Unione delle banche svizzere) consulente di Mps, che sostiene il piano alternativo presentato da Corrado Passera. Contro JP Morgan si schiera anche il Corriere della Sera con un articolo dell’ex direttore Ferruccio de Bortoli. Intanto, sugli organi dell’opposizione di destra e di sinistra la polemica si fa politica. Il Giornale titola contro la riforma istituzionale (il referendum è alle porte) suggerita se non dettata da Dimon in persona, perché un rapporto degli analisti della banca pubblicato nel 2013 aveva criticato la debolezza istituzionale dell’Italia, la debolezza dei governi nella maggior parte dei paesi europei, suggerendo un rafforzamento del potere esecutivo e una legge elettorale maggioritaria (per la quale si era pronunciato in verità vent’anni prima un referendum rimasto ampiamente “tradito”). Sulla Repubblica è l’archeologo Salvatore Settis a impugnare indignato quell’analisi della JP Morgan contro la riforma Renzi.

   

JP Morgan era ed è rimasta per molti versi la cassiera dei governi italiani, conquistando nel ’900 il primato che era stato dei Rothschild

Quando non si sa di che cosa si parla è meglio tacere, sosteneva, vero profeta inascoltato, il filosofo Ludwig Wittgenstein. Non che la JP Morgan non coltivi i propri affari, non è una ong né Dimon assomiglia a Muhammad Yunus, qui siamo nel tempio del capitalismo versione Wall Street. Proprio De Bortoli fa i conti e mostra che tra commissioni (4,75 per cento) e utili dalla vendita dei crediti marci, il bottino sarebbe consistente. Val la pena ricordarlo. “Mps cede 9 miliardi di sofferenze nette su 28 lorde – scrive l’ex direttore –. Svalutandole in bilancio, prima della cessione, si crea un ammanco di capitale che va coperto. A fronte della cessione di 9 miliardi di sofferenze, Mps dovrebbe ottenere 7,6 miliardi, di cui 1,6 da Atlante e 5 da JP Morgan come prestito ponte per 18 mesi guidato da JP Morgan e concesso con la garanzia di tutti i non performing loans. Se qualcosa dovesse andare storto, la banca d’affari si prenderebbe tutti i 28 miliardi a un prezzo effettivo di 18 centesimi contro i 33 riconosciuti alla banca, di cui 27 pagati subito. Il margine di guadagno potenziale sarebbe elevatissimo. E Atlante, cui partecipano 69 istituzioni italiane, compresa la Cassa depositi e prestiti con i soldi del nostro risparmio postale, perderebbe tutto”. Quanto al piano Passera (3,5 miliardi complessivi subito, rinviando di un anno l’aumento di capitale) viene respinto dalla banca senese. Fatto sta che tutto salta in aria insieme al referendum. Il giorno dopo la sconfitta renziana, la JP Morgan ritira tutto lasciando Paolo Gentiloni, chiamato di corsa a Palazzo Chigi, con il cerino acceso. Dopo l’intervento del Tesoro, i contribuenti, hanno visto bruciare in borsa tre miliardi su 5,4 investiti e nessuno è in grado di prevedere quanti quattrini ancora verranno perduti. Non era meglio un intervento di mercato?

   

Ma torniamo al 10 luglio e al cigno nero. E’ una strana coincidenza che parlino in contemporanea Dimon, Visco, Savona, Tria e Patuelli, dicendo ciascuno cose diverse, spesso contraddittorie. Non è che l’uccello del malaugurio sta già dispiegando le sue grandi ali? Certo, ha ripreso quota una vecchia polemica che scompare e riappare come un fiume carsico, quella legata ai debiti dell’Italia non con se stessa (come in gran parte avviene visto che due terzi del debito pubblico è detenuto da italiani), ma con l’estero. E si tratta per lo più in questo caso di debiti privati, soprattutto da parte di banche e fondi di investimento. Il saldo della posizione delle banche italiane sul conto Target2 della Bce che è “l’arteria principale della circolazione monetaria” (definizione di Franco Passacantando sul Foglio), a giugno è arrivato a 481 miliardi di euro, ovvero quasi un terzo del prodotto lordo, oltre i saldi negativi registrati al tempo della crisi finanziaria, tra l’ottobre del 2011 e i primi mesi del 2012. Ad esso corrisponde un saldo creditorio complessivo del sistema bancario tedesco di 914 miliardi di euro. E’ l’ossessione dell’economista Hans Werner Sinn, ma in Germania il Target2 è diventato altrettanto popolare sulla stampa e in televisione, come da noi lo spread e con lo stesso significato minaccioso. In sostanza, il timore è che, nel momento in cui andasse in crisi l’euro, la patata bollente cadrebbe addosso ai tedeschi i quali così dovrebbero pagare i nostri debiti.

  

Il piano controverso per Mps, il rapporto del 2013 che auspicava le riforme. Ritorna la vecchia polemica sui debiti con l’estero

Secondo l’economista Stefano Micossi, “quel che accade in pratica è che gli investitori esteri non rinnovano i nostri titoli in scadenza o li cedono alla Bce, e questi saldi diventano saldi passivi delle banche italiane su Target2 nel momento della liquidazione. Del resto – aggiunge sul giornale online Inpiù – il passivo inizia a gonfiarsi rapidamente dopo le elezioni del 4 marzo e continua ad aumentare nelle settimane successive alla formazione del nuovo governo. Per ora non è una valanga, ma i disinvestimenti continuano. La sfiducia degli investitori esteri, insomma, è palpabile”. Non tutti condividono questa interpretazione. La Banca d’Italia più volte ha cercato di spiegare che si tratta di ipotesi teoriche legate alla dissoluzione dell’euro il quale, come dice Mario Draghi, “è irreversibile”. Ipotesi non condivisa dai tedeschi a cominciare dallo stesso Hans Weidmann, il gran capo della Buba, che considera la moneta unica una scelta da lui condivisa, ma in ogni caso una scelta politica che la politica può teoricamente invertire.

  

Non è facile districarsi anche perché bisogna calcolare il gioco dei fondi esteri e il meccanismo con il quale avviene il quantitative easing. Quando la Bce e le banche centrali comprano titoli di stato, li parcheggiano presso la Bundesbank, spiega l’economista Gianpaolo Galli, e questo crea uno scompenso verso la Germania. Ma ciò avviene davvero per ragioni operative o è anch’esso un modo per mettersi al sicuro, quindi è un segnale di sfiducia che dà ragione a Micossi? Certo, quel saldo è salito a maggio di venti miliardi circa e qui si sente puzza di fuga dei capitali. S’avvicina il cigno nero evocato da Savona, quindi ha ragione il ministro, dobbiamo essere pronti anche allo scenario peggiore? In tal caso, che cosa farebbe Jamie Dimon: scommetterebbe sull’uscita dell’Italia dall’euro (come alcuni analisti della sua banca avevano ipotizzato mesi fa), o sosterrebbe il debito italiano, dicendo anche lui “whatever it takes”, come fa pensare il suo intervento urbi et orbi? La domanda resta aperta, perché l’inferno è lastricato di buone intenzioni, tanto più se sono le intenzioni di un grande banchiere.