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Riconquistare il popolo

Servirebbe un po' d'erotismo per rivitalizzare il rapporto tra politica e cultura

Ludovica Taurisano

Se i partiti non piacciono più non è soltanto per lo svuotamento di contenuto. Non ci sentiamo più partecipi della vita civile, perché il racconto mediatico segue schemi polemistici che rincorrono la viralità

Si dice in giro che la politica non piaccia a nessuno. L’affermazione così fatta è piena di insidie: non ci piace o non ci interessa? E poi qual è la quidditas della cosiddetta politica, il fattore che ci ripugna: il processo, i personaggi, forse gli esiti? Ma la politica non può “piacere” perché è problematica e divisiva: in quanto sede naturalmente conflittuale, lascerà sempre degli scontenti. Anche sulle pagine di questo giornale si è provato a spiegare perché tirare fuori argomenti politici annoierà i vostri commensali e non vi farà passare per persone brillanti. Tra le motivazioni addotte, a ragione, c’è il fatto che la politica non è più un fatto culturale. Pur con le dovute cautele, legate all’assunto che ogni società produce storicamente le proprie divisioni e tentate risoluzioni (pensiamo a come i partiti si stiano faticosamente riorganizzando nel post materiale, digitale, umano, post etc.), dovremmo riconoscere che questo matrimonio all’italiana tra politica e cultura è stato largamente consumato, fino a consumarsi.

 

Questa scissione è avvenuta su due fronti: il primo è il tracollo della concettualizzazione sistematica dell’attività politica dentro un orizzonte valoriale organico. Nel 1950, Bruno Leoni firmava il primo editoriale della rivista Il Politico scrivendo che “la confusione delle idee nel dominio politico sta aumentando [..] combattere questa confusione diviene un’opera indispensabile, per scongiurare eventualità dolorose”. Pertanto, non è che la politica un tempo ci piacesse così com’era, ma esisteva una riflessione corroborata dal dibattito tra gli studiosi della politica e la più vasta schiera di intellettuali, rielaborata in formati artistici e divulgativi e, infine, introiettata dentro i corpi intermedi come stimolo di confronto (ed eventuale, frequente, scissione). Questo meccanismo oggi si è inceppato, che sia per il rigetto da parte degli operatori culturali o per la sordità degli attori politici, così che entrambi si dilettano solo fiaccamente in esercizi immaginativi di futuro, aspettandosi una partenogenesi della società che desiderano.

 

La seconda separazione è avvenuta sul piano della comunicazione della politica stessa, endogena ed esogena. Da un lato i soggetti politici, maldestramente alle prese con i nuovi media, hanno consentito lo scadimento del dibattito dentro i triviali thread di Twitter; dopo aver tentato la via fotoromanzata delle tribune politiche sui reality del primo pomeriggio, sull’onda di un egocentrico protagonismo hanno cominciato a rincorrere i ritmi forsennati di TikTok. Tuttavia, se la politica non ci piace più non è soltanto per lo svuotamento di contenuto, ma perché non riusciamo a raccontarla come se fosse qualcosa che, per davvero, ci riguarda. Sembra che il discorso sulla politica debba essere o semplificato fino alla banalizzazione, oppure affidato al burocratese, antilingua calviniana che aumenta il sentimento di distanza di un’ampia fetta di pubblico. Allora la politica non piace anche perché viene raccontata secondo schemi polemistici che rincorrono la viralità, o dentro formati pseudo-specialistici che ce ne allontanano.

 

Ma non è sempre stato così. Nel 1969, su Playmen – rivista che Michele Masneri ha qui definito “patinata ed eccitante” – tra un nudo e l’altro si riusciva a discorrere con Cesare Zavattini della politica come fatto culturale: “Noi abbiamo un’idea quasi sacrale degli strumenti culturali. Quando dico partecipazione politica, voglio dire un tipo di partecipazione diretta, cioè la necessità di una immediatezza. [..] Il fatto è che la cultura, quella professionale, è scomparsa come presenza nella politica. [..] Io cercherei di entrare, di influenzare i partiti”. E con quali mezzi?, chiede la redazione. Con la “convergenza di tutte le forze che credono a un bisogno di mutamento radicale”, risponde il teorico del neorealismo, “e allora ben venga anche l’erotismo”. Ben venga, se serve a farci interessare alla politica, purché di questa si parli diffusamente, e se ne parli bene.

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