Ansa

L'astensione vale

Il non voto è individualismo. Ma per alcuni è anche una critica alla democrazia

Maurizio Crippa

Breve smentita degli usi strumentali e dei moralismi di chi critica una prassi normale

C’è l’uso strumentale dei fatti e c’è il loro uso moralistico, quale sia peggio è difficile dire. Ma negli ultimi due giorni politici, giornalisti, opinionisti professionali o volenterosi dei social non si sono sottratti a entrambi gli usi impropri, e sempre pro domo loro, del tema dell’astensionismo. Fatto reale, ma notizia volutamente esagerata: alle politiche 2022 l’affluenza fu 66 per cento nel Lazio e 73 in Lombardia, e alle precedenti regionali a tenere alto il voto era sempre stato il traino delle politiche. Si insiste su un dato fisiologico in molte democrazie, ma sarebbe più interessante quello politico.


Il più accettabile, in fondo, è l’uso strumentale. Stefano Bonaccini ha dichiarato: “Va detto anche che è una vittoria dimezzata dal punto di vista partecipativo”. Dimenticando che lui venne eletto presidente dell’Emilia-Romagna, nel 2014, con un’affluenza del 37,7 per cento. Mentre Francesco Rocca la gira al contrario: “Dieci anni di centrosinistra hanno allontanato i cittadini” e il Fatto chiude il circolo forzoso: “Nelle urne ha vinto la destra. Nella società civile e politica ha vinto l’astensione”. Senza scomodare Churchill, basterebbe ricordare che la democrazia al momento non ha valide alternative, e chi non vota non conta. Si eviterebbero allarmismi di maniera, come due letture stranamente parallele, e discutibili, di Massimo Franco sul Corriere e Isaia Sales su Repubblica: secondo entrambi l’astensionismo dovrebbe suggerire di mettere un freno alle possibili riforme (e se invece fossero una cura?) e soprattutto sconsigliare di “dare più poteri a istituzioni che gli elettori avvertono così inessenziali” (Sales), e ovviamente parla dell’autonomia. Ma anche qui il segnale uscito delle urne potrebbe indicare l’opposto.


 

C’è poi l’uso moralistico: chi non va a votare non commette uno sbaglio politico, compie un crimine etico contro la collettività. Produce un paese meno democratico, e di conseguenza – il punto d’arrivo è sempre picchiare a destra– sarebbe sbagliato persino esultare. C’è chi ha tirato fuori il problema di una società “egoista”, in cui non c’è più senso di appartenenza: l’individualismo come colpa sociale. Michele Serra parla di una “ragione che capisco ma non condivido”, quella di chi non va a votare perché non ne sente la necessità per la propria esistenza e sente invece la politica come “impiccio”. Un atteggiamento che Serra chiama “qualunquismo”, parola vecchia e vuota, molto più semplice sarebbe chiamarlo individualismo, lasciando perdere i giudizi etici. Molti di coloro che non votano lo fanno, semplicemente, perché ritengono che le cose vadano nel verso giusto, per loro. “Ah già, ma gli altri?”, è il lamento immediato. Gli altri, nel nostro consolidato modo di vivere, sono entità portatrici di altri legittimi interessi, ma loro. Il richiamo al comunitarismo, alla dimensione collettiva, non regge. Certo, c’è chi ne fa bussola di vita personale e azione civile, ma non può diventare riprovazione verso chi la pensa in modo diverso. 

 

C’è poi un terzo aspetto che gira attorno all’astensionismo, visto come una questione politica strutturale. Serra scrive che la maggior parte di chi non vota lo fa per “depressione”, perché non crede che le cose possano cambiare in meglio: una protesta che nemmeno osa dire il suo nome, insomma. O addirittura “una nuova forma di populismo”, come l’ha definita Marco Bentivogli sempre su Repubblica. Ma il populismo non è politica: perché mai dovrebbe esserlo l’astensionismo? Ha scritto il sociologo Aldo Bonomi su Vita.it che, di fronte a un fenomeno che può essere anche interpretato come un fallimento delle élite, occorre “ricostruire piattaforme che oggi mancano”, a partire dalla piattaforma sociale, “forme di convivenza, di cura, di welfare”. Una visione che va molto più in là della semplice lagna perché ha vinto la destra (a proposito: le analisi dei flussi certificano che il partito dell’astensione ha tolto in parti uguali a tutti). Ma l’idea astensionista come forma di opposizione radicale scorre carsica in molte direzioni. Sarà interessante leggere il saggio “Addio alle urne” del politologo canadese Francis Dupuis-Déri, in uscita da Elèuthera, che promette di smontare “il feticismo del voto” che le democrazie occidentali hanno sempre usato per illudere il popolo di avere una voce che davvero li rappresentasse. In parte può essere anche il pensiero di Bentivogli, quando parla, pensando alla sinistra, di “arroganza delle nomenclature dei partiti perdenti”. Tutto molto interessante, a patto di non dimenticare che, due giorni fa, l’affluenza alle urne è stata perfettamente rispettosa della democrazia: quel meccanismo imperfetto ma non sostituibile per cui chi ha più voti, governa.

Di più su questi argomenti:
  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"