Lapresse

Chi tace acconsente

Nell'età dell'indifferenza si vive in un regime di sperimentalismo politico

Alfonso Berardinelli

Il senso di appartenenza partitico ha subìto un crollo rispetto al passato e la disaffezione nei confronti dello stato in Italia non accenna a diminuire. In un contesto del genere, anche l'astensionismo va interpretato più a fondo

Negli ultimi anni e soprattutto da quando il berlusconismo e l’antiberlusconismo hanno perso la loro ragione di essere, viviamo in un regime che si potrebbe definire di “sperimentalismo politico”. Nessun elettore crede davvero in qualcosa e in qualcuno, prova solo a vedere se cambiare governo porterà qualche beneficio. Elezioni a parte, si sono sperimentati prima Monti, poi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi e ora tocca a Meloni. L’elettorato oscilla da una parte all’altra (vedi la penosa vicenda dei Cinque stelle) in attesa che qualcosa di nuovo e di meglio avvenga. Tutti i presidenti del consiglio avevano qualche buona qualità (mai tutte quelle necessarie) e hanno mosso un elemento o un altro della politica nazionale, nei rapporti fra partiti, fra destra e sinistra, nonché nelle priorità e urgenze sociali.

 

Le identità politiche e il senso di appartenenza partitica hanno subito un crollo rispetto al passato; per non parlare delle cosiddette convinzioni ideologiche che ormai, quando riemergono, assumono connotati più caricaturali e anacronistici che seriamente credibili (liberalismo contro socialismo? fascismo e antifascismo?). Al posto del fascismo storico, c’è nella società un teppismo in crescita e un culto della violenza che ha più radici nevrotiche e culturali che politiche. La cultura sta sprofondando nella sottocultura mediatica di massa, un fenomeno al quale si fa sempre più fatica a immaginare un freno e un rimedio. Ma una cosa mi sembra certa: come antidoto alla peggiore cultura di massa, il laicismo è molto più disarmato e inefficace di quanto lo sia la fede religiosa.

 

Quanto all’astensionismo elettorale, che è visto spesso come una minaccia per la democrazia, tendo a pensare che nasca più dalla sfiducia nei partiti che dalla sfiducia nella democrazia. Ovviamente le due cose sono connesse e per interpretarle realisticamente non bisogna dimenticare mai, soprattutto in Italia, che le responsabilità della “demoralizzazione” sociale e civile vanno attribuite anzitutto allo stato, alla sua presenza o assenza nella vita dei cittadini, alla sua scarsa qualità morale e alla sua inefficienza amministrativa e burocratica. Nella nostra storia nazionale, la corruzione e la criminalità organizzata hanno avuto troppo a lungo rapporti torbidi, occulti e criminosi con le istituzioni statali perché i cittadini elettori possano avere con esse un rapporto di fiducia. E questo ha delle conseguenze anche nella nostra opinione pubblica e nelle nostre posizioni in politica internazionale. Le cieche, aberranti giustificazioni che si sentono in giro a proposito della guerra di Putin contro l’Ucraina, nascono dalla patologica indifferenza italiana di fronte all’opposizione fra regimi liberaldemocratici e regimi dittatoriali. Chi dimentica che la democrazia è un valore fondamentale da difendere perché ne vede e ne patisce troppo spesso le carenze, finisce poi per guardare con noncuranza, perfino con tolleranza, ai crimini di stato nella Russia di Putin. La gente pensa: è vero che Putin fa assassinare gli oppositori politici, ma in Italia gli omicidi di mafia non sono meno numerosi e il nostro stato ha avuto e forse non avrà smesso di avere con le mafie rapporti di complicità e di collusione non ancora venuti alla luce, ma che probabilmente emergeranno domani.

 

Fra le varie interpretazioni dell’astensionismo elettorale che ho trovato nei giornali, mi è sembrato che ne mancasse una. È quella che si riassume in un antico ma non logoro proverbio: “Chi tace acconsente”. All’interrogativo sollevato a sinistra e non solo, se l’Italia sia oggi, per così dire, “melonizzata”, alcuni supponenti individui hanno espresso la certezza autoconsolatoria che no, questo non è affatto vero e la ragione sarebbe che nelle recenti elezioni in regioni importantissime come Lombardia e Lazio è andato a votare circa un elettore su tre. Ma (mi chiedo) perché gli altri due non hanno votato né per Letta né per Conte né per Calenda-Renzi? Forse perché erano certi di perdere e quindi l’astensione era del tutto naturale; infatti (si è detto) si va a votare per vincere e non per perdere. Ma non sarebbe stato un po’ meglio votare per perdere, se non altro, con minore danno e umiliazione? Non era meglio mostrare e far ricordare che si esiste anche se si perde?

 

Credo che ci sia un’altra ipotesi da fare. Una percentuale di non votanti forse ha taciuto perché era disposta con rassegnazione e senza particolare disperazione ad accettare il dato di fatto che Giorgia Meloni ha vinto nelle elezioni di settembre soprattutto per la fiacca credibilità dei suoi avversari. Hanno taciuto (chi tace acconsente) coloro che, anche a sinistra, hanno cominciato ad accettare il governo Meloni senza eccessiva animosità. Accettarla non votando era comunque altra cosa che votarla. Era semplicemente prendere atto che almeno per il momento la destra, grazie alle qualità e capacità della sua leader, convince l’elettorato più di quanto sappia fare una sinistra incerta di essere sinistra, cioè sbiadita e divisa. Durare per l’intera legislatura è il primo obiettivo di Meloni: il successo avuto è per lei troppo prezioso per essere messo a rischio. Ma è possibile che una tale stabilità non dispiaccia neppure a una parte di coloro che non l’hanno votata e non la voterebbero mai. Chissà: ci si aspetta che questo governo di destra impari a governare decentemente, piuttosto che andare in crisi fino al punto di cadere. Al ritorno di un fascismo politico in Italia, non si riesce a credere molto. È la violenza da stadio, da droga, da social e da palestra a preoccupare di più.

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