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La gogna neopuritana

Anne Applebaum

C’è chi ha perso tutto per aver infranto, o solo per essere stato accusato di aver infranto, codici sociali che hanno a che fare con la razza, il sesso, la condotta personale. Censure, isolamento, sete di sacrifici, rabbia via social: storie di un’America impazzita di moralismo. Un saggio

Così inizia la storia di Hester Prynne, raccontata nel romanzo più famoso di Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta. Come i lettori di questo classico americano sanno, la storia inizia dopo che Hester dà alla luce un bambino fuori dal matrimonio e si rifiuta di dire chi è il padre. Il risultato è quello di essere condannata allo scherno della gente, subendo “un’agonia per ogni passo della folla che accorreva a guardarla, come se il  cuore le fosse stato gettato sulla strada perché tutti lo disprezzassero e lo calpestassero”. Dopodiché fu costretta a portare una A scarlatta – A come adultera – attaccata al vestito per il resto della sua vita. Viveva nella periferia di Boston, in esilio. Nessuno voleva socializzare con lei – nemmeno quelli che in silenzio avevano commesso peccati simili, tra cui il padre di suo figlio, il pio predicatore del villaggio. La lettera scarlatta ha “l’effetto di un incantesimo, che la esclude dai rapporti ordinari con l’umanità e la rinchiude in sé stessa”.

 

Leggiamo questa storia con autocompiacimento: che racconto antiquato! Persino Hawthorne prendeva in giro i puritani, con i loro “tristi abiti colorati e grigi cappelli a campana”, il loro rigido conformismo, la loro mentalità chiusa e la loro ipocrisia. E oggi non siamo solo moderni e alla moda; viviamo in un mondo governato dallo stato di diritto; abbiamo procedure intese a evitare l’esecuzione di punizioni ingiuste. Le lettere scarlatte sono una cosa del passato.

Anche se, naturalmente, non lo sono. Proprio qui in America, al giorno d’oggi, è possibile incontrare persone che hanno perso tutto – lavoro, soldi, amici, colleghi – senza aver violato alcuna legge, a volte nemmeno alcuna regola sul posto di lavoro. Ma hanno infranto (o sono accusate di aver infranto) codici sociali che hanno a che fare con la razza, il sesso, la condotta personale o anche l’umorismo accettato, cose che potrebbero non essere esistite fino a cinque anni o forse cinque mesi fa. Alcune di loro hanno commesso enormi errori di giudizio. Altri non hanno fatto assolutamente nulla. Ma non è sempre facile dirlo.

Eppure, nonostante la natura controversa di questi casi, per alcuni è diventato sia facile che utile inserirli in narrazioni più ampie. I faziosi, soprattutto a destra, ora lanciano in giro la frase “cancel culture” quando vogliono difendersi dalle critiche, per quanto legittime. Ma se si scava nella storia di chiunque sia stato una vera vittima del moderno linciaggio, spesso non si troverà di fronte l’ovvia discussione tra prospettive “woke” e “anti woke”, ma piuttosto incidenti che vengono interpretati, descritti o ricordati da persone diverse in modi diversi, anche lasciando da parte qualsiasi questione politica o intellettuale possa essere in gioco.
 
C’è un motivo per cui il giornalista scientifico Donald McNeil, dopo essere stato invitato a dimettersi dal New York Times, ha avuto bisogno di 21.000 parole, pubblicate in quattro parti, per raccontare una serie di conversazioni che ha avuto con studenti delle scuole superiori in Perù, durante le quali può aver detto o meno qualcosa di razzialmente offensivo, a seconda della versione che si trova più convincente. C’è un motivo per cui a Laura Kipnis, un’accademica della Northwestern, è stato necessario un libro intero – Unwanted Advances: Sexual Paranoia Comes to Campus – per raccontare le ripercussioni, anche su sé stessa, di due accuse di molestie sessuali contro un uomo nella sua università; dopo aver fatto riferimento al caso in un articolo sulla “paranoia sessuale”, gli studenti hanno chiesto che l’università indagasse anche su di lei. Una spiegazione completa delle sfumature personali, professionali e politiche di entrambi i casi richiedeva molto spazio. C’è pure un motivo per cui Hawthorne ha dedicato un intero romanzo alle complesse motivazioni di Hester Prynne, del suo amante e di suo marito. Sfumature e ambiguità sono essenziali per una buona narrativa. Sono essenziali anche per lo stato di diritto: abbiamo tribunali, giurie, giudici e testimoni proprio perché lo stato possa sapere se un crimine è stato effettivamente commesso o meno, prima di infliggere la pena. Abbiamo la presunzione d’innocenza per l’accusato; abbiamo il diritto all’autodifesa; abbiamo una legge sulla prescrizione.

Al contrario, la moderna sfera pubblica online, luogo di conclusioni rapide, rigide lenti ideologiche e argomentazioni di 280 caratteri, non favorisce né sfumature né ambiguità. Tuttavia i valori di quella sfera online sono arrivati a dominare molte istituzioni culturali americane: università, giornali, fondazioni, musei. Le richieste pubbliche di punizioni rapide impongono a volte l’equivalente di lettere scarlatte a vita a persone che non sono state accusate di nulla che sia nemmeno lontanamente simile a un crimine. Invece dei tribunali, usano burocrazie segrete. Invece di ascoltare prove e testimoni, esprimono giudizi a porte chiuse.

  

Ho cercato di comprendere queste storie per molto tempo; sia perché credo che il principio del giusto processo sia alla base della democrazia liberale, sia perché mi ricordano altri tempi e luoghi. Una decina di anni fa, ho scritto un libro sulla sovietizzazione dell’Europa centrale negli anni Quaranta, e ho scoperto che gran parte del conformismo politico del primo periodo comunista  fu il risultato non della violenza o di una coercizione diretta dello stato, quanto piuttosto di un’intensa pressione reciproca. Anche senza un chiaro rischio per la propria vita, le persone si sentivano obbligate – non solo per amore della carriera, ma per i  figli, gli amici, i coniugi – a ripetere slogan in cui non credevano, o a compiere azioni di pubblica obbedienza a partiti politici che in privato disprezzavano. Nel 1948, il famoso compositore polacco Andrzej Panufnik inviò la sua partecipazione a un concorso per scrivere una “canzone per il partito unito” – che più tardi descrisse come “spazzatura” – perché pensava che se si fosse rifiutato di presentare qualcosa, l’intera Unione dei compositori polacchi avrebbe potuto perdere i finanziamenti. Per sua eterna umiliazione, vinse. Lily Hajdú-Gimes, una celebre psicoanalista ungherese di quell’epoca, diagnosticò il trauma del conformismo forzato nei pazienti, così come a sé stessa. “Sto al gioco che mi viene offerto dal regime”, diceva agli amici, “anche se appena si accetta quella regola si è in trappola”.

Ma non c’è nemmeno bisogno dello stalinismo per creare questo tipo di atmosfera. Durante un viaggio in Turchia all’inizio di quest’anno, ho incontrato uno scrittore che mi ha mostrato il suo ultimo manoscritto, che teneva in un cassetto della scrivania. Il suo lavoro non era propriamente illegale, ma semplicemente impubblicabile. I giornali, le riviste e le case editrici turche sono soggette a procedimenti penali imprevedibili e a sentenze drastiche per discorsi o scritti che possono arbitrariamente essere interpretati come insulti al presidente o alla nazione turca. La paura per queste sanzioni porta all’autocensura e al silenzio.

Certamente in America non abbiamo questo tipo di coercizione da parte dello stato. Attualmente non ci sono leggi che impongono ciò che gli accademici o giornalisti possano o non possano dire; non c’è censura di stato né da parte di un partito dominante. Ma la paura della massa online, delle masse in ufficio o tra colleghi sta producendo alcuni risultati simili. Quanti manoscritti americani rimangono ora nei cassetti delle scrivanie – o non scritti del tutto – perché i loro autori hanno paura di un giudizio altrettanto arbitrario? Quanta vita intellettuale è ora soffocata dalla paura di come potrebbe apparire un commento formulato male se preso fuori contesto e condiviso su Twitter?

Per rispondere a questa domanda, ho parlato con più di una dozzina di persone che sono state vittime o attenti osservatori di improvvisi cambiamenti nei codici sociali americani. Lo scopo non è quello di riesaminare o ridiscutere i loro casi. Alcuni di coloro che ho intervistato si sono comportati in modi che io o i lettori di questo articolo potremmo considerare inopportuni o immorali, anche se non erano illegali. Non sono qui per mettere in discussione i nuovi codici sociali che hanno portato al loro licenziamento o al loro effettivo isolamento. Molti di questi cambiamenti sociali sono chiaramente positivi.

Eppure, nessuno di quelli citati qui, in maniera anonima o per nome, è stato accusato di un crimine reale, per non parlare della condanna in un tribunale reale. Tutti contestano la versione pubblica della loro storia. Molti dicono che sono stati accusati ingiustamente; altri credono che i loro “peccati” siano stati amplificati o male interpretati da persone con secondi fini. A tutti loro, peccatori o santi, sono state inflitte pene drastiche, che hanno cambiato la loro vita a tempo indeterminato, spesso senza che potessero far valere le proprie ragioni. Questo – la condanna e la sentenza senza un giusto processo o senza pietà – dovrebbe profondamente preoccupare gli americani. Nel 1789, James Madison propose che la Costituzione degli Stati Uniti dovesse assicurare che “nessuna persona sarà… privata della vita, della libertà o della proprietà senza un giusto processo di legge”. Sia il Quinto che il Quattordicesimo Emendamento della Costituzione invocano il giusto processo. Tuttavia, questi americani ne sono stati di fatto privati.

Molte delle persone descritte in questo articolo, rimangono inevitabilmente anonime. Questo perché sono coinvolte in complicate battaglie legali o di mandato e non vogliono rilasciare dichiarazioni, o perché temono un’altra ondata di attacchi sui social media. Ho cercato di raccontare le loro situazioni attuali – di spiegare quale prezzo abbiano pagato, che tipo di punizione abbiano ricevuto – senza dare identità a coloro che non hanno voluto essere identificati, e senza nominare le loro istituzioni. Molti dettagli importanti sono quindi stati necessariamente esclusi. Ma per alcuni, questo è ormai l’unico modo in cui osano parlare.

Ecco la prima cosa che succede una volta che sei stato accusato di aver infranto un codice sociale, quando ti ritrovi al centro di una tempesta sui social media per qualcosa che hai detto o che si presume tu abbia detto. Il telefono smette di suonare. La gente smette di parlarti. Diventi tossico. “Ho nel mio dipartimento decine di colleghi – penso di non aver parlato con nessuno di loro nell’ultimo anno”, mi ha detto un accademico. “Uno dei miei colleghi con cui ho pranzato almeno una volta alla settimana per più di dieci anni, di punto in bianco ha smesso di parlarmi, senza fare domande”. Un altro ha calcolato che, della ventina di membri nel suo dipartimento, “ce ne sono due, di cui uno non ha potere e l’altro sta per andare in pensione, che ora mi parlano”.

Un giornalista mi ha detto che dopo essere stato licenziato in tronco, le sue conoscenze si sono divide in tre gruppi. Il primo, gli “eroi”, un numero molto ristretto, che “insistono sullo svolgimento di un regolare processo prima di rovinare la vita di un’altra persona e che restano accanto ai loro amici”. Il secondo, i “cattivi”, che pensano si debba “immediatamente far perdere i mezzi di sussistenza non appena viene mossa l’accusa”. Alcuni vecchi amici, o persone che lui pensava fossero vecchi amici, si sono anche uniti al pubblico attacco. Ma la maggioranza è relegata in una terza categoria: “Buoni ma inutili. Non pensano necessariamente il peggio di te, sostengono il tuo diritto a un processo, ma, sai, non si sono informati. Hanno motivi per giudicarti con indulgenza, forse, ma sono troppo impegnati per aiutarti. O hanno troppo da perdere”. Un’amica gli ha detto che avrebbe scritto volentieri una sua difesa, ma che aveva una proposta di libro in corso. “Ho risposto: ‘Grazie per la sincerità’”.

La maggior parte della gente si allontana perché la vita va avanti; altri lo fanno perché hanno paura che quelle accuse infondate possano implicare qualcosa di molto peggio. Un professore che non è stato accusato di alcun contatto fisico con nessuno si è stupito nello scoprire che alcuni dei suoi colleghi hanno dato per assodato che se la sua università lo stava sottoponendo a un provvedimento disciplinare, doveva essere uno stupratore. Un’altra persona sospesa dal lavoro l’ha messa in questo modo: “Qualcuno che mi conosce, ma forse non conosce la mia anima o il mio carattere, potrebbe dire a se stesso che la prudenza gli imporrebbe di mantenere le distanze, perché non diventi un danno collaterale”.

E questa è la seconda cosa che succede, strettamente legata alla prima: anche se non sei stato sospeso, punito o trovato colpevole di nulla, non puoi svolgere la tua professione. Se sei un professore, nessuno ti vuole come insegnante o mentore (“Gli studenti laureati mi hanno fatto capire che ero una non-persona e che non potevo essere tollerato”). Non puoi pubblicare su riviste professionali. Non puoi lasciare il tuo lavoro, perché nessun altro ti assumerà. Se sei un giornalista, potresti scoprire che non puoi pubblicare per niente. Dopo aver perso il suo lavoro come direttore della New York Review of Books a seguito di una polemica editoriale legata al #MeToo – non è stato accusato di aggressione, solo di aver pubblicato un articolo di qualcuno che lo era – Ian Buruma ha scoperto che molte delle riviste su cui aveva scritto per trent’anni non lo avrebbero più pubblicato. Un direttore ha parlato di “personale più giovane” nella sua rivista. Nonostante un gruppo di oltre 100 collaboratori della New York Review of Books – tra cui Joyce Carol Oates, Ian McEwan, Ariel Dorfman, Caryl Phillips, Alfred Brendel (e io) – avessero firmato una lettera pubblica in difesa di Buruma, questo direttore evidentemente temeva i suoi colleghi più di Joyce Carol Oates.

Per molti, la vita intellettuale e professionale si ferma. “Stavo facendo il miglior lavoro della mia vita quando ho saputo di questa indagine”, mi ha detto un accademico. “Si è fermato tutto. Da allora non ho più scritto un altro articolo”. Peter Ludlow, un professore di Filosofia alla Northwestern (nonché soggetto di un libro di Laura Kipnis) ha perso due contratti editoriali dopo che l’università lo ha costretto a lasciare il lavoro per due presunti casi di molestie sessuali, che lui nega. Gli altri filosofi non avrebbero permesso che i loro articoli apparissero nello stesso volume accanto a uno dei suoi. Dopo che Daniel Elder, un compositore premiato (e un politico liberal) ha postato una dichiarazione su Instagram che condannava l’incendio doloso nella sua città natale, Nashville, dove i manifestanti di Black Lives Matter avevano dato fuoco al tribunale dopo l’uccisione di George Floyd, ha scoperto che il suo editore non avrebbe stampato la sua musica e i cori non l’avrebbero cantata. Dopo che il poeta Joseph Massey è stato accusato di “molestie e manipolazioni” da donne con cui aveva avuto relazioni sentimentali, l’Accademia dei poeti americani ha rimosso tutte le sue poesie dal suo sito web, e i suoi editori hanno rimosso i suoi libri dai loro. Stephen Elliott, un giornalista e critico che è stato accusato di stupro sulla lista anonima “Shitty Media Men” che circolava su internet all’apice del discorso del #MeToo – ora sta facendo causa al creatore di quella lista per diffamazione – ha scritto che, nel periodo successivo, una collezione dei suoi saggi è sparita senza lasciare traccia: le recensioni sono state cancellate; la Paris Review ha annullato un’intervista programmata con lui; gli inviti a giurie letterarie, letture e altri eventi sono stati annullati.

Per alcune persone, questo può voler dire una catastrofica perdita di entrate. Ludlow si è trasferito in Messico, perché lì poteva vivere in maniera più modesta. Per altre, può creare una sorta di crisi d’identità. Uno degli accademici che ho intervistato sembrava soffocare dopo aver descritto i vari lavori che ha svolto nei mesi successivi alla sospensione dal suo lavoro di insegnante. “Sono davvero bravo solo in una cosa”, mi ha detto indicando le formule matematiche su una lavagna alle sue spalle: “Questo”.

A volte i sostenitori della nuova giustizia delle masse sostengono che queste sono punizioni minori, che la perdita di un lavoro non è cosa grave, che le persone dovrebbero essere in grado di accettare la loro situazione e andare avanti. Ma l’isolamento, più la pubblica umiliazione, più la perdita di guadagno, sono sanzioni severe per gli adulti, con ripercussioni personali e psicologiche a lungo termine – soprattutto perché le “sentenze” in questi casi sono di durata indefinita.

Elliott ha contemplato il suicidio e ha scritto che “ogni testimonianza diretta che ho letto di umiliazione pubblica – e ho letto più di quanto avrei dovuto – include pensieri di suicidio”.  Anche Massey ci fece un pensiero: “Avevo un piano e i mezzi per eseguirlo; poi ho avuto un attacco di panico e ho preso un taxi per il pronto soccorso”. David Bucci, l’ex presidente del dipartimento di Neuroscienze della Dartmouth, che è stato coinvolto in una causa contro il college, nonostante non fosse stato accusato di cattiva condotta sessuale, si è suicidato dopo aver realizzato che non sarebbe mai stato capace di ristabilire la propria reputazione.

Altre persone hanno cambiato atteggiamento verso le loro professioni. “Mi sveglio ogni mattina con la paura di insegnare”, mi ha detto un accademico: il campus universitario che un tempo amava è diventato una giungla pericolosa, piena di trappole. Nicholas Christakis, il professore di Medicina e Sociologia di Yale che è stato al centro di una bufera nel campus e sui social media nel 2015, è anche un esperto del funzionamento dei gruppi sociali umani. Mi ha ricordato che l’ostracismo “era considerato un’enorme sanzione nei tempi antichi – essere cacciati dal proprio gruppo era mortale”. Non è sorprendente, ha detto, che le persone in queste situazioni prendano in considerazione il suicidio.

La terza cosa che succede è che si cerca di chiedere scusa, che si sia fatto qualcosa di sbagliato o meno. Robert George, un filosofo di Princeton che ha agito come avvocato di facoltà per studenti e professori che sono caduti in difficoltà legali o amministrative, descrive così il fenomeno: “Sono stati popolari e di successo per tutta la vita; è così che sono riusciti a fare carriera fino ad arrivare alle loro posizioni accademiche, almeno in posti come quello in cui insegno. E poi improvvisamente c’è questa terribile sensazione di tutti mi odiano... Quindi cosa fanno? Il più delle volte cedono e basta”. A una delle persone con cui ho parlato è stato chiesto di scusarsi per un’offesa che non ha infranto alcuna regola esistente. “Ho detto, ‘Per cosa mi devo scusare?’ E loro hanno detto: ‘Beh, i loro sentimenti sono stati feriti’. Così ho costruito le mie scuse intorno a ciò: ‘Se ho detto qualcosa che vi ha fatto arrabbiare, non avevo previsto che sarebbe successo’”.

   

Le scuse sono state inizialmente accettate, ma i suoi problemi non sono finiti.

Questo è tipico: il più delle volte le scuse verranno analizzate, esaminate per “sincerità” – e poi respinte. Howard Bauchner, l’editore del Journal of the American Medical Association, si è scusato per qualcosa con cui non aveva nulla a che fare direttamente, dopo che uno dei suoi colleghi aveva fatto dichiarazioni controverse in un podcast e su Twitter sul fatto che le comunità di colore siano state frenate di più dal “razzismo strutturale” o da fattori socioeconomici. “Rimango profondamente deluso da me stesso per le lacune che hanno portato alla pubblicazione del tweet e del podcast”, ha scritto Bauchner. “Anche se non ho scritto o visto il tweet, o creato il podcast, come caporedattore, sono in ultima analisi responsabile per loro”. Alla fine si è dimesso. Ma anche questo ormai è tipico: perché le scuse sono diventate rituali, sembrano sempre insincere. I siti web ora offrono “modelli di esempio” per persone che hanno bisogno di scusarsi; alcune università offrono consigli su come scusarsi con studenti e impiegati, e includono persino liste di buone parole da usare (errore, malinteso, interpretazione errata).

Non che tutti vogliano davvero delle scuse. Un ex giornalista mi ha detto che i suoi ex colleghi “non vogliono appoggiare il processo di errore/scuse/comprensione/perdono – non vogliono perdonare”. Invece, ha detto, vogliono “punire e purificare”. Ma la consapevolezza che qualsiasi cosa tu dica non sarà mai abbastanza è debilitante. “Se fai delle scuse e sai in anticipo che le tue scuse non saranno accettate – che saranno considerate una mossa in un gioco psicologico o culturale o politico – allora l’integrità della tua introspezione viene derisa e ti senti definitivamente abbandonato in un mondo di imperdonabilità”, mi ha detto una persona. “E questo è un mondo veramente immorale”. Gli editori musicali di Elder gli hanno chiesto di fare delle scuse umilianti – sono arrivati persino a scriverle per lui – ma lui ha rifiutato.

Anche dopo che le scuse sono state fatte, succede una quarta cosa: la gente comincia a indagare su di te. Una persona con cui ho parlato si è detta convinta che il suo datore di lavoro avesse indagato su di lei perché non voleva offrirle un’indennità di licenziamento e aveva bisogno di ragioni extra per giustificare il suo licenziamento. Un altro pensava che fosse stata avviata un’indagine su di lui perché licenziarlo per una discussione sulla lingua avrebbe violato il contratto sindacale. Le lunghe carriere includono quasi sempre episodi di disaccordo o ambiguità. Quella volta che ha abbracciato un collega in segno di consolazione era davvero qualcos’altro? La sua battuta era davvero uno scherzo o qualcosa di peggio? Nessuno è perfetto; nessuno è puro; e una volta che la gente si mette a interpretare episodi ambigui in un determinato modo, non è difficile trovare nuove prove.

A volte le indagini hanno luogo perché qualcuno nella comunità sente che non hai pagato un prezzo abbastanza alto per qualsiasi cosa tu abbia fatto o detto. L’anno scorso Joshua Katz, un popolare professore di lingue e letterature classiche di Princeton, ha scritto un articolo critico di una lettera pubblicata da un gruppo di docenti di Princeton sulla razza. In risposta, il Daily Princetonian, un giornale studentesco, ha passato sette mesi indagando sulle sue precedenti relazioni con gli studenti, convincendo alla fine i funzionari universitari a riesaminare incidenti di anni prima che erano già stati giudicati – una classica violazione della convinzione di James Madison che nessuno dovrebbe essere punito due volte per la stessa cosa. L’inchiesta del Daily Princetonian sembra più un tentativo di ostracizzare un professore colpevole di cattivi pensieri che un tentativo di portare a soluzione un caso di presunto cattivo comportamento.

Mike Pesca, un podcaster di Slate, si è messo a discutere con i suoi colleghi sulla bacheca interna di Slack della sua azienda se sia accettabile pronunciare un insulto razziale ad alta voce quando si segnala l’uso di un insulto razziale – un’azione che, dice, non era contro nessuna regola aziendale in quel momento. Dopo una riunione dello staff editoriale tenutasi subito dopo per discutere dell’incidente – a cui Pesca stesso non è stato invitato – la società ha avviato un’indagine per scoprire se ci fossero altre cose che potrebbe aver fatto di sbagliato. (Secondo una dichiarazione di un portavoce di Slate, l’indagine è stata spinta da più di “un’isolata discussione astratta in un canale Slack”). Amy Chua, la professoressa di Diritto di Yale e autrice di Battle Hymn of the Tiger Mother, mi ha detto che crede che le indagini sulle sue relazioni con gli studenti siano state innescate dalle sue connessioni personali con il giudice della Corte suprema Brett Kavanaugh.

Molte di queste indagini coinvolgono segnalazioni o denunce anonime, alcune delle quali possono essere una totale sorpresa per coloro che vengono denunciati. Per definizione, le masse sui social media coinvolgono account anonimi che amplificano storie non verificate con “mi piace” e condivisioni. La lista “Shitty Media Men” era una raccolta anonima di accuse non verificate che sono diventate pubbliche. Le procedure di molte università in realtà impongono l’anonimato nelle prime fasi di un’indagine. A volte nemmeno all’accusato viene dato alcun dettaglio. Il marito di Chua, il professore di Diritto di Yale Jed Rubenfeld, che è stato sospeso dall’insegnamento a causa di accuse di molestie sessuali (che nega), dice di non aver saputo i nomi dei suoi accusatori o la natura delle accuse contro di lui per un anno e mezzo.

A Kipnis, che è stata accusata di cattiva condotta sessuale perché ha scritto sulle molestie sessuali, inizialmente non è stato permesso di sapere chi fossero i suoi accusatori, né qualcuno le avrebbe spiegato le regole che disciplinano il suo caso. Né, del resto, le regole erano chiare a chi le applicava, perché, come ha scritto in Unwanted Advances, “non c’è un insieme di procedure stabilite o uniformi a livello nazionale”. Come se non bastasse, Kipnis avrebbe dovuto mantenere la riservatezza dell’intera faccenda: “Ero stata immersa in un mondo sotterraneo di tribunali segreti e regole capricciose e medievali, e non dovevo dirlo a nessuno”, ha scritto. Questo si accorda con la storia di un altro accademico, che mi ha detto che la sua università “non ha mai parlato con me prima di decidere di punirmi. Hanno letto i rapporti degli investigatori, ma non mi hanno mai portato in una stanza, non mi hanno mai chiamato al telefono, perché potessi dire qualcosa sulla mia versione della storia. E mi hanno detto apertamente che mi stavano punendo sulla base delle accuse. Solo perché non hanno trovato prove, mi hanno detto, non significa che non sia successo”.

Le procedure segrete che si svolgono al di fuori della legge e lasciano che l’accusato si senta impotente e isolato, sono state un elemento di controllo nei regimi autoritari attraverso i secoli, dalla giunta argentina alla Spagna di Franco. Stalin creò le “troike”, organi extragiudiziali ad hoc che ascoltavano decine di casi in un giorno. Durante la rivoluzione culturale cinese, Mao autorizzò gli studenti a creare comitati rivoluzionari per attaccare e rimuovere rapidamente i professori. In entrambi i casi, le persone usavano queste forme non regolamentate di “giustizia” per perseguire rancori personali o ottenere vantaggi professionali. In The Whisperers, il suo libro sulla cultura stalinista, lo storico Orlando Figes cita molti di questi casi, tra cui Nikolai Sacharov, che finì in prigione perché qualcuno si era invaghito di sua moglie; Ivan Malygin, che fu denunciato da qualcuno geloso del suo successo; e Lipa Kaplan, mandata in un campo di lavoro per 10 anni dopo aver rifiutato le proposte sessuali del suo capo. Il sociologo Andrew Walder ha rivelato come la Rivoluzione culturale a Pechino fu plasmata da competizioni di potere tra leader studenteschi rivali.

Questo modello si sta ripetendo negli Stati Uniti. Molti di quelli con cui ho parlato hanno raccontato storie complicate sui modi in cui le procedure anonime sono state usate da persone che non piacevano, si sentivano in competizione con loro, o avevano qualche tipo di rancore personale o professionale. Uno ha descritto una rivalità intellettuale con un amministratore dell’università, risalente alla scuola di specializzazione – lo stesso amministratore che aveva avuto un ruolo nel farlo sospendere. Un altro ha attribuito una serie di problemi a un ex studente, ora collega, che lo aveva visto a lungo come un rivale. Un terzo pensava che uno dei suoi colleghi non sopportava di dover lavorare con lui e avrebbe preferito un lavoro diverso. Un quarto riteneva di aver sottovalutato le frustrazioni professionali dei colleghi più giovani che si sentivano soffocati dalle gerarchie della sua organizzazione. Tutti loro credono che i rancori personali aiutino a spiegare perché sono stati presi di mira.

  

Le motivazioni potrebbero essere ancora più meschine di così. La scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie ha recentemente descritto come due scrittori più giovani con cui aveva stretto amicizia l’abbiano attaccata sui social media, in parte, ha scritto, perché stanno “cercando attenzione e pubblicità a beneficio di sé stessi”. Una volta che diventa chiaro che l’attenzione e la lode possono essere raccolte organizzando un attacco alla reputazione di qualcuno, molte persone scoprono di avere interesse a farlo.

L’America rimane a distanza di sicurezza dalla Cina di Mao o dalla Russia di Stalin. Né i nostri comitati universitari segreti né le masse dei social media sono sostenuti da regimi autoritari che minacciano la violenza. Nonostante la retorica di destra che dice il contrario, queste procedure non sono guidate da una “sinistra unificata” (non c’è una “sinistra unificata”), o da un movimento unificato di qualsiasi tipo, tanto meno dal governo. È vero che le norme del Titolo IX del Dipartimento dell’Educazione che hanno plasmato alcuni dei casi di molestie sessuali nelle università sono scandalosamente vaghe e possono essere interpretate in modi draconiani. Ma gli amministratori che portano avanti queste indagini e procedure disciplinari, sia che lavorino nelle università o nei dipartimenti delle risorse umane delle riviste, non lo fanno perché hanno paura del Gulag. Molti li perseguono perché credono di rendere migliori le loro istituzioni: stanno creando un posto di lavoro più armonioso, portando avanti le cause dell’uguaglianza razziale o sessuale, mantenendo gli studenti al sicuro. Alcuni vogliono proteggere la reputazione della loro istituzione. Invariabilmente, alcuni vogliono proteggere la propria reputazione. Almeno due delle persone che ho intervistato credono di essere state punite perché un capo, bianco e maschio, ha ritenuto di dover sacrificare pubblicamente un altro uomo bianco per proteggere la propria posizione.

Ma cosa dà a qualcuno la convinzione che una tale misura sia necessaria? O che “tenere gli studenti al sicuro” significhi che si debba violare il giusto processo? Non è la legge. Né, in senso stretto, è la politica. Anche se alcuni hanno cercato di collegare questa trasformazione sociale al presidente Joe Biden o alla presidente della Camera Nancy Pelosi, chiunque cerchi di inserire queste storie in un quadro politico deve spiegare perché così poche delle vittime di questo cambiamento possono essere descritte come “di destra” o conservatrici. Secondo un recente sondaggio, 62 americani su cento, compresa una maggioranza di individui che si definiscono moderati e liberali, hanno paura di dire la loro sulla politica. Tutti quelli con cui ho parlato sono centristi o liberal di centrosinistra. Alcuni hanno opinioni politiche non convenzionali, ma alcuni non hanno affatto opinioni forti.

Certamente nulla nei testi accademici della teoria critica della razza impone questo comportamento. I teorici critici razziali originali sostenevano l’uso di una nuova lente per interpretare il passato e il presente. Si può discutere se quella lente sia utile o meno, o se si voglia guardare attraverso di essa, ma non si possono incolpare gli autori della teoria critico-razziale, per esempio, della frivola decisione della Yale Law School di indagare se Amy Chua abbia o meno dato una cena a casa sua durante la pandemia, o per la serie di rettori universitari che hanno rifiutato di sostenere i propri colleghi di facoltà quando sono stati attaccati dagli studenti.

La censura, l’evitamento, le scuse ritualizzate, i sacrifici pubblici sono comportamenti piuttosto tipici in società illiberali con rigidi codici culturali, imposti da pesanti pressioni tra pari. Questa è una storia di panico morale, di istituzioni culturali che si controllano o si purificano di fronte alle folle che disapprovano. Le folle non sono più letterali, come una volta a Salem, ma piuttosto folle online, organizzate tramite Twitter, Facebook, o a volte canali Slack interni all’azienda. Dopo che Alexi McCammond è stata nominata caporedattore di Teen Vogue, la gente ha scoperto e fatto circolare su Instagram vecchi tweet antiasiatici e omofobi che aveva scritto un decennio prima, quando era ancora un’adolescente. McCammond si è scusata, naturalmente, ma non era abbastanza, ed è stata costretta a lasciare il lavoro prima di iniziare. Ha avuto un atterraggio più morbido di alcuni – è stata in grado di tornare al suo precedente lavoro come reporter politico ad Axios – ma l’incidente rivela che nessuno è al sicuro. Era una donna di colore di 27 anni che era stata nominata “Giornalista emergente dell’anno dalla National Association of Black Journalists, eppure la sua adolescenza è tornata a perseguitarla. Si potrebbe pensare che sarebbe una buona cosa per i giovani lettori di Teen Vogue imparare il perdono e la misericordia, ma per i nuovi puritani, non c’è prescrizione.

Questa censura è legata non solo ai recenti, e spesso positivi, cambiamenti negli atteggiamenti verso la razza e il genere, e ai cambiamenti di accompagnamento nel linguaggio usato per discuterne, ma ad altri cambiamenti sociali che sono più raramente riconosciuti. Mentre la maggior parte di coloro che perdono le loro posizioni non sono “colpevoli” in nessun senso legale, non sono nemmeno stati evitati a caso. Proprio come un tempo le donne anziane e strane erano soggette ad accuse di stregoneria, così anche certi tipi di persone sono ora più inclini a cadere vittime della moderna giustizia delle masse. Per cominciare, i protagonisti della maggior parte di queste storie tendono ad avere successo. Anche se non sono miliardari o capitani d’industria, sono riusciti a diventare editori, professori, autori pubblicati, o anche solo studenti in università competitive. Alcuni sono insolitamente sociali, persino iper-gregari: erano professori a cui piaceva chiacchierare o bere con i loro studenti, capi che andavano a pranzo con i loro collaboratori, persone che confondevano i confini tra la vita sociale e quella istituzionale.

“Se chiedete a qualcuno una lista dei migliori insegnanti, dei migliori cittadini, delle persone più responsabili, io sarei in ognuna di quelle liste”, mi ha detto un membro di facoltà ormai caduto in disgrazia. Amy Chua era stata nominata in numerosi e potenti comitati alla Yale Law School, incluso uno che aiutava a preparare gli studenti per i tirocini. Questo, dice lei, perché è riuscita a far ottenere agli studenti, specialmente a quelli delle minoranze, buoni incarichi. “Faccio un lavoro extra, imparo a conoscerli”, mi ha detto. “Scrivo referenze molto buone”. Molte persone molto socievoli che sono brave negli incarichi tendono anche a spettegolare, a raccontare storie sui loro colleghi. Alcuni, sia uomini che donne, potrebbero anche essere descritti come civettuoli, godendo di giochi di parole e battute che vanno proprio al limite di ciò che è considerato accettabile.

Ed è proprio questo che ha messo nei guai alcune di queste persone, perché la definizione di accettabile è cambiata radicalmente negli ultimi anni. Una volta non solo andava bene ma era anche considerato ammirevole che Chua e Rubenfeld ricevessero studenti di Legge a casa loro per riunioni. Quel momento è passato. Così come è passato il tempo in cui uno studente poteva discutere i suoi problemi personali con il suo professore, o quando un impiegato poteva spettegolare con il suo datore di lavoro. Le conversazioni tra persone che hanno status diversi – datore di lavoro-impiegato, professore-studente – possono ora concentrarsi solo su questioni professionali, o su argomenti strettamente neutrali. Affrontare qualsiasi cosa che abbia a che fare con il sesso, anche in un contesto accademico – per esempio, una discussione riguardo le leggi sullo stupro – ora è rischioso. La professoressa Jeannie Suk Gersen della Harvard Law School ha scritto che i suoi studenti “sembrano più ansiosi di discutere in classe, e di avvicinarsi alla legge sulla violenza sessuale in particolare, di quanto non lo siano mai stati nei miei otto anni di insegnamento di Legge”. Akhil Reed Amar, professore a Yale, mi ha detto che non cita più un particolare incidente storico che una volta usava nel suo insegnamento, perché costringerebbe i suoi studenti a leggere un caso di studio che ruota intorno all’uso di un insulto razziale.

 


 

Anche le regole sociali sono cambiate. I professori uscivano con i loro studenti e addirittura li sposavano. I colleghi bevevano insieme dopo il lavoro e a volte tornavano a casa insieme. Oggi questo può essere pericoloso. Un amico accademico mi ha detto che nella sua scuola di specializzazione, le persone che stanno per ottenere il dottorato sono diffidenti nell’uscire con persone che hanno appena iniziato i loro studi, perché le regole non scritte ora impongono di non uscire con i colleghi, specialmente se potrebbe esserci un qualsiasi tipo di differenza di potere (reale o immaginaria) tra te e la persona che stai frequentando. Questo cambiamento culturale è per molti versi salutare: i giovani sono ora molto più protetti dai capi predatori. Ma ha dei costi. Quando scherzi e flirt sono completamente off-limits, scompare anche parte della spontaneità della vita in ufficio.

Non sono solo gli iper-sociali e i maliziosi che si sono trovati vittime del nuovo puritanesimo. Anche le persone che sono – in mancanza di una parola più precisa – difficili, hanno problemi. Sono altezzose, impazienti, conflittuali, o non sufficientemente interessate alle persone che percepiscono come meno talentuose. Altre sono persone di alto livello, che a loro volta stabiliscono standard elevati per i loro colleghi o studenti. Quando questi standard elevati non vengono soddisfatti, queste persone lo dicono, e questo non va bene. Ad alcune di loro piace superare i limiti, specialmente quelli intellettuali, o mettere in discussione le ortodossie. Quando le persone non sono d’accordo con loro, controbattono con gusto.

Questo tipo di comportamento, una volta accettato o almeno tollerato in molti posti di lavoro, ora è anch’esso off-limits. Gli ambienti di lavoro una volta considerati esigenti adesso sono descritti come tossici. Il tipo di critica aperta, espressa di fronte ad altre persone, che una volta era normale nelle sale stampa e nei seminari accademici, ora è inaccettabile come masticare con la bocca aperta. L’indole non allegra, i modi non proprio amichevoli possono essere motivo di punizione o di ostracismo: una critica rilevante a Donald McNeil è risultata quella di essere “un vecchio brontolone”, come lo ha descritto uno studente durante quel viaggio in Perù.

Ciò che molte di queste persone – quelle difficili, quelle pettegole, quelle eccessivamente gregarie – hanno in comune è che mettono gli altri a disagio. Anche qui, è avvenuto un profondo cambiamento generazionale. “Penso che la tolleranza della gente per il disagio – la tolleranza della gente per la dissonanza, per non sentire esattamente quello che vogliono sentire – sia scesa a zero”, mi ha detto una persona. “Il disagio una volta era un termine di lode per la pedagogia – voglio dire, la persona più scomoda di tutte è stato Socrate”.


Non è sbagliato desiderare un posto di lavoro più confortevole, o meno colleghi scontrosi. Il problema è che la sensazione di disagio è soggettiva. Il complimento spensierato di una persona è una microaggressione per un’altra. L’osservazione critica di una persona può essere vissuta da un’altra persona come razzista o sessista. Gli scherzi, i giochi di parole e tutto ciò che può avere due significati sono, per definizione, aperti all’interpretazione.

Ma anche se il disagio è soggettivo, ora è anche inteso come qualcosa che può essere curato. Qualcuno che è stato messo a disagio ora ha più strade attraverso le quali chiedere riparazione. Questo ha dato vita a un nuovo aspetto della vita nelle università, nelle organizzazioni non profit e negli uffici aziendali: i comitati, i dipartimenti delle risorse umane e gli amministratori del Titolo IX che sono stati nominati proprio per ascoltare questo tipo di reclami. Chiunque si senta a disagio ora ha un posto dove andare, qualcuno con cui parlare.

Una parte di questo è, ripeto, positiva: i dipendenti o gli studenti che sentono di essere stati trattati ingiustamente non devono più annaspare da soli. Ma questo ha un costo. Chiunque crei accidentalmente disagio – attraverso i suoi metodi di insegnamento, i suoi standard editoriali, le sue opinioni o la sua personalità – può improvvisamente trovarsi dalla parte sbagliata non solo rispetto a uno studente o a un collega, ma rispetto a un’intera burocrazia impegnata a epurare le persone che mettono a disagio altre persone. E queste burocrazie sono illiberali. Non seguono necessariamente le regole dell’indagine basata sui fatti, dell’argomentazione razionale o del giusto processo. Invece, gli organi amministrativi formali e informali che giudicano il destino delle persone che hanno infranto i codici sociali sono parte di una conversazione pubblica vorticosa ed emotiva, governata non dalle regole del tribunale o della logica o dell’Illuminismo, ma dagli algoritmi dei social media che incoraggiano la rabbia e l’emozione, e dall’economia dei like e delle condivisioni che spinge le persone a sentire – e a esibire – la rabbia. L’interazione tra la folla arrabbiata e la burocrazia illiberale genera una sete di sangue, di sacrifici da offrire agli dei pii e spietati dell’oltraggio – un procedimento che vediamo in altre epoche della storia, dall’Inquisizione al passato più recente.

Twitter, mi ha detto il presidente di una grande istituzione culturale, “è la nuova sfera pubblica”. Eppure Twitter non perdona, è implacabile, non controlla i fatti né fornisce il contesto. Peggio ancora, come gli anziani della Massachusetts Bay Colony che non avrebbero perdonato Hester Prynne, Internet tiene traccia delle azioni passate, assicurandosi che nessun errore, nessuna frase detta male o metafora maldestra vada mai persa. “Non è che tutti sono famosi per 15 secondi”, mi ha detto Tamar Gendler, decano della facoltà di Arti e Scienze a Yale. “È che tutti vengono dannati per 15 secondi”. E se hai la sfortuna di avere i peggiori 15 secondi della tua vita condivisi con il mondo, non c’è nulla che garantisca che qualcuno peserà quel singolo commento mal formulato contro tutte le altre cose che hai fatto nella tua carriera. Gli incidenti “perdono la loro sfumatura”, mi ha detto un funzionario dell’università. “Così, quello che si ottiene sono tutti  tipi di persone con opinioni prestabilite, che arrivano e usano l’incidente per dire una cosa o un’altra”.

Può accadere molto velocemente. A marzo, Sandra Sellers, una professoressa aggiunta al Georgetown University Law Center, è stata ripresa mentre parlava con un’altra professoressa di alcuni studenti neri che avevano un rendimento insufficiente nella sua classe. Non c’è modo di sapere dalla sola registrazione se i suoi commenti rappresentassero un pregiudizio razzista o una genuina preoccupazione per i suoi studenti. Non che abbia avuto importanza per Georgetown – è stata licenziata pochi giorni dopo che la registrazione è diventata pubblica. Né si poteva sapere cosa David Batson, il collega con cui stava parlando nella registrazione, pensasse veramente. Tuttavia, è stato messo in congedo amministrativo perché sembrava, vagamente, essere educatamente d’accordo con lei. E si è rapidamente dimesso.

Quella conversazione è stata catturata inavvertitamente, ma le rivelazioni future potrebbero non esserlo. Questa primavera, Braden Ellis, uno studente del Cypress College in California, ha condiviso la registrazione Zoom della reazione della sua professoressa a una sua difesa della rappresentazione dei poliziotti come eroi. Ellis ha detto di averlo fatto per esporre un presunto pregiudizio contro i punti di vista conservatori nel campus. Anche se la registrazione di per sé non prova l’esistenza di un pregiudizio di lunga data, la professoressa,  una musulmana che ha detto nella registrazione di non fidarsi della polizia, è diventata protagonista di un’inchiesta di Fox News, di una tempesta sui social media e di alcune minacce di morte. Così come altri professori del college. E anche gli amministratori. Dopo alcuni giorni, la professoressa è stata rimossa dai suoi incarichi di insegnamento, in attesa di indagini.

In questo incidente, la tempesta è venuta da destra, come sicuramente accadrà in futuro: gli strumenti della giustizia di massa dei social media sono disponibili per i faziosi di tutti i tipi. A maggio, una giovane reporter, Emily Wilder, è stata licenziata dal suo nuovo lavoro all’Associated Press in Arizona dopo che una serie di pubblicazioni conservatrici e di politici hanno pubblicizzato i post su Facebook che lei aveva scritto mentre era al college, critici nei confronti di Israele. Come molti prima di lei, non le è stato detto esattamente perché è stata licenziata, o quali regole aziendali avessero violato i suoi vecchi post.

Alcuni hanno usato il caso di Wilder per sostenere che la critica conservatrice della “cancel culture” è sempre stata fraudolenta. Ma la vera lezione, e non di parte, è questa: nessuno, di qualsiasi età, in qualsiasi professione, è al sicuro. Nell’era di Zoom, telecamere per cellulari, registratori in miniatura e altre forme di tecnologia di sorveglianza a buon mercato, i commenti di chiunque possono essere presi fuori contesto; la storia di chiunque può diventare un grido di raduno per le folle di Twitter a destra o a sinistra. Chiunque può poi cadere vittima di una burocrazia terrorizzata dall’improvvisa eruzione di rabbia. E una volta che un gruppo di persone perde il diritto a un giusto processo, lo stesso vale per tutti gli altri. Non solo i professori ma gli studenti; non solo i redattori di pubblicazioni d’élite ma membri casuali del pubblico. I momenti “Gotcha” possono essere coreografati. Project Veritas, un’organizzazione di destra ben finanziata, si dedica alle operazioni pungenti: adesca le persone per far dire loro cose imbarazzanti su telecamere nascoste e poi cerca di farle punire per questo, sia dai social media che dalle loro stesse burocrazie.

Ma mentre questa forma di giustizia delle masse può essere usata opportunisticamente da chiunque, per qualsiasi ragione politica o personale, le istituzioni che hanno fatto di più per facilitare questo cambiamento sono in molti casi quelle che una volta si vedevano come i guardiani degli ideali liberali e democratici. Robert George, il professore di Princeton, è un conservatore di lunga data che una volta criticava gli studiosi liberali per il loro relativismo sincero, la loro convinzione che tutte le idee meritassero un analogo ascolto. Non aveva previsto, mi disse, che i liberali un giorno “sarebbero sembrati arcaici come i conservatori”, che l’idea di creare uno spazio in cui le diverse idee potessero competere sarebbe sembrata fuori moda, che lo spirito di tolleranza e curiosità sarebbe stato sostituito da una visione del mondo “che non è aperta, che non pensa che coinvolgere le differenze sia una gran cosa o che gli studenti dovrebbero essere esposti a punti di vista contrastanti”.


Ma questo tipo di sistema di pensiero non è nuovo in America. Nel XIX secolo, il romanzo di Nathaniel Hawthorne sosteneva la sostituzione di questo tipo di rigidità con una visione del mondo che valorizzasse l’ambiguità, le sfumature, la tolleranza delle differenze – una visione del mondo liberal – e che potesse perdonare a Hester Prynne i suoi errori. Il filosofo liberale John Stuart Mill, che scriveva all’incirca nello stesso periodo di Hawthorne, fece un ragionamento simile. Gran parte del suo libro più famoso, On Liberty, è dedicato non alle limitazioni governative alla libertà umana, ma alla minaccia posta dal conformismo sociale, dalla “richiesta che tutte le altre persone assomiglino a noi stessi”. Anche Alexis de Tocqueville ha scritto a proposito di questo problema. Era una sfida seria nell’America del XIX secolo, e lo è ancora nel XXI secolo.

Studenti e professori, assistenti editoriali e caporedattori, sono tutti consapevoli del tipo di società in cui vivono. Ecco perché si censurano, perché si tengono alla larga da certi argomenti, perché evitano di discutere di qualcosa di troppo sensibile per paura di essere assaliti, ostracizzati o licenziati senza un giusto processo. Ma questo tipo di pensiero ci porta scomodamente vicino a Istanbul, dove la storia e la politica possono essere discusse solo con grande attenzione.

Molte persone mi hanno detto che vogliono cambiare questa situazione, ma non sanno come. Alcuni sperano di superarla, aspettando che questo panico morale passi, o che una generazione ancora più giovane si ribelli ad essa. Alcuni si preoccupano dei costi dell’impegno. Una persona che è stata al centro di una campagna negativa sui social media mi ha detto che non vuole che questa serie di problemi domini la sua vita e la sua carriera; ha citato altre persone che sono diventate così ossessionate dal combattere la “wokeness” o la “cancel culture” che ora non fanno altro.

Altri hanno deciso di farsi sentire. Stephen Elliott ha lottato a lungo se descrivere o meno come ci si sente a essere ingiustamente accusati di stupro – ha scritto qualcosa e l’ha abbandonato perché “ho deciso che non sarei stato in grado di gestire il ritorno di fiamma” – prima di descrivere finalmente le sue esperienze in un saggio dato alle stampe. Amy Chua ha ignorato il consiglio di rimanere in silenzio e invece ha parlato il più possibile. Robert George ha creato l’Academic Freedom Alliance, un gruppo che intende offrire supporto morale e legale ai professori che sono sotto tiro, e persino pagare i loro team legali se necessario. George è stato ispirato, mi ha detto, da un programma sulla natura che mostrava come i branchi di elefanti difendano ogni membro del branco contro un leone predatore, mentre le zebre scappano e lasciano che il più debole venga ucciso. “Il problema di noi accademici è che siamo un branco di zebre”, ha detto. “Dobbiamo diventare elefanti”. John McWhorter, un professore di linguistica della Columbia (e collaboratore dell’Atlantic) che ha opinioni forti e non sempre popolari sulla razza, mi ha detto che se si è accusati di qualcosa ingiustamente, si dovrebbe sempre rispondere, fermamente ma educatamente: “Basta dire: ‘No, non sono razzista. E non sono d’accordo con te’”. Se più leader – rettori universitari, editori di riviste e giornali, amministratori delegati di fondazioni e aziende, direttori di società musicali – assumessero questa posizione, forse sarebbe più facile per un maggior numero di loro pari tenere testa ai loro studenti, ai loro colleghi o a una folla online.

L’alternativa, per le nostre istituzioni culturali e per il discorso democratico, è triste. Le fondazioni faranno controlli segreti sui loro potenziali beneficiari, per assicurarsi che non abbiano commesso crimini che non sono crimini e che potrebbero essere imbarazzanti in futuro. Rapporti anonimi e folle su Twitter, non i giudizi ragionati dei pari, plasmeranno il destino degli individui. Scrittori e giornalisti temeranno la pubblicazione. Le università non saranno più dedicate alla creazione e alla diffusione della conoscenza, ma alla promozione del comfort degli studenti e alla prevenzione degli attacchi sui social media.

Peggio ancora, se allontaniamo tutte le persone difficili, esigenti ed eccentriche dalle professioni creative in cui prosperavano, diventeremo una società più piatta, noiosa e meno interessante, un luogo in cui i manoscritti rimangono nei cassetti per paura di giudizi arbitrari. Le arti, le scienze umane e i media diventeranno rigidi, prevedibili e mediocri. I princìpi democratici come lo stato di diritto, il diritto all’autodifesa, il diritto a un giusto processo – persino il diritto a essere perdonati – appassiranno. Non ci sarà altro da fare che sedersi e aspettare che gli Hawthorne del futuro ci smascherino.

Anne Applebaum

Traduzione di Priscilla Ruggiero

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