Tomáš e Sabina (Daniel Day-Lewis e Lena Olin) in una scena dell'Insostenibile leggerezza dell'essere (1988), film di Philip Kaufman tratto dall'omonimo romanzo

L'intervista

La cancel culture? È la banale deriva del Kitsch

Francesco Gottardi

Kundera raccontava “questo regno dove ogni male è bandito” già nel 1984. “E il pol. corr. di oggi non fa che appiattire idee e valori”, è l’appello del suo ultimo traduttore: “Accettare la storia per riattivare le diversità”

È precipitata solo l’asticella dell’inaccettabile. La rimozione della merda, “in senso tanto letterale quanto figurato”, quella c’è sempre stata. Altro che cancel culture. Parola dell’anno 2019, cecchino bipartisan nel 2021 – Lincoln e il generale Lee sotto lo stesso tiro –, ostracismo sotto mentite spoglie. Quelle del Kitsch, ben oltre il convenzionale pessimo gusto, raccontato da Milan Kundera nell’Insostenibile leggerezza dell’essere. Quasi quarant’anni fa: “Lui si è sempre opposto al falso progressismo, al politically correct. All’eliminazione della continuità storica: la rapidità e la forza invasiva dei nuovi contenuti sociali sta facendo il resto”, a suon di neologismi – e allora cancel culture sia.

 

Chi parla è Massimo Rizzante. Ieri allievo italiano di Kundera a Parigi, oggi professore di Letteratura contemporanea all’Università di Trento. E traduttore – dal 2005: “Solo quando mi disse che ero pronto” – dei libri del maestro per Adelphi. “L’esule Kundera, arrivato in Francia da Praga nel 1975, se ne accorse subito: là un regime politico, in Occidente un sistema fondato sull’informazione uniformata. E infatti non rilascia più interviste dal 1984, dopo aver visto le sue stesse parole filtrate dallo schema del Kitsch”. Che esattamente, cosa rappresenta per Kundera? Scrive nell’Insostenibile: “Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile”. Spiega Rizzante al Foglio: “Premessa. Lui non è un filosofo ma un romanziere: quindi il portavoce dei suoi personaggi”, nella fattispecie Sabina, pittrice charmant e libertina insofferente alle artificiosità sceniche del comunismo reale – parata del primo maggio in testa. “È indubbio però che il Kitsch sia un grande filo conduttore nelle sue opere, in linea con la nozione di Hermann Broch”, scrittore di spicco nell’Austria degli anni Trenta. “Secondo Broch il Kitsch presenta due componenti: la volontà dell’uomo di rendere ideale ciò che invece è reale e il compiacersi di questo abbellimento, come davanti a uno specchio. La versione kunderiana si traduce nell’accordo categorico con l’essere: coloro che si trovano in piena armonia col mondo costruiscono un ideale politico, culturale, estetico, anch’esso in accordo con l’essere. E non accettano chi o cosa non lo è. Questo è il Kitsch: abbracciare il tutto, però dopo avervi tolto ogni residuo scorretto. Broch lo chiamava il male. Kundera la merda”.

 

Poco importa se ha la forma di una statua da abbattere o di un libro da censurare. “Oggi si dice cancel culture”, sorride il professore, “ma Kundera ne trattò le dinamiche già allora con grande accuratezza. In un altro suo romanzo”, Il libro del riso e dell’oblio, “giocò a correggere fatti realmente avvenuti: una manipolazione che abbiamo costantemente sotto gli occhi. Perché la storia è una selezione di eventi. Chi la riporta può rappresentarne anche gli aspetti malvagi, escrementizi – nell’ottica dell’ideale dominante. Quindi, sempre più spesso, anziché studiarli si preferisce cancellarli”. Gli òstraka fecero fuori Temistocle, la damnatio memoriae Marco Antonio, la cancel culture ci riprova con Omero, Churchill e Peter Pan. Dribblando spazio, tempo e fantasia: “A partire dallo sprint tecnologico degli anni Ottanta, la posizione dell’intellettuale indipendente è cambiata”, dice Rizzante, anche saggista e poeta. “Ormai conta solo diventare una vedette: come arrivare al lettore. Ma chi scrive dovrebbe anche esprimere un mondo. Altrimenti addio contenuti: appiattiti dal mercato, o dal regime”. Kundera, costretto a lasciare la Cecoslovacchia dopo la Primavera di Praga, ne fu un esempio. Eppure un mitra puntato addosso può aiutare a non inaridirsi: “In quei totalitarismi c’era la censura, ma anche i circuiti alternativi clandestini per trasmettere le opere. I famosi samizdat, per esempio. Oggi invece, chi rinuncerebbe alla politica delle case editrici per creare altri canali distributivi? Viviamo in un regime latente. Che offusca il desiderio di nuovi sbocchi. E ci àncora ai valori mainstream già emersi”.

 

Così l’unica vita altrove rischia di ridursi al complottismo criminale. QAnon. Possibile? Un punto di partenza lo offre Kundera stesso: nel regno del Kitsch tutto è offendibile, dunque non scherzabile. Che grande occasione allora, l’ironia. “O meglio il riso romanzesco”, specifica il suo allievo d’un tempo. “Non si tratta di banale satira o sarcasmo. È un riso che mette alla berlina ma allo stesso tempo comprende la vulnerabilità dell’uomo: in un mondo non solo di prodotti Kitsch, ma in cui non si desiderano altro che prodotti Kitsch” – di nuovo dall’Insostenibile: “Com’è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato!”, o delle bambine che piangono per il futuro del pianeta – “forse uno dei rari luoghi di protezione è il romanzo. Lì si sviluppa la critica a questa realtà: ci dice di non abbellirla troppo, indagandone la fragilità e i limiti. Proprio mentre ci perdiamo nel Kitsch. Allora, pur disorientati, vi possiamo opporre un’esistenziale risata”. E continuare a sprofondare nella nostra stessa *****. (Anzi no: quella è stata già lavata via tutta).