Le piazze vuote sono inquietanti, perché sono l’utopia realizzata di una generale aspirazione al controllo sociale totale, tutto il contrario della città ideale delle tre pale di Urbino: foto LaPresse

Architettura da pandemia

Manuel Orazi

Con strade e piazze ancora deserte, anche chi lavora sugli spazi e i luoghi della vita sociale deve pensare a una “ricostruzione”. Perché sarà un modo di vivere diverso

Nessun architetto si era mai spinto fino a immaginare una pandemia come quella che si fa strada ovunque. Quella di uno status quo distopico in cui i rapporti sociali sono annullati, inclusi quelli famigliari, secondo il coprifuoco però per tutto il giorno e non solo di notte come in tempo di guerra. L’architettura è sempre ipotesi di vita associata, massimamente urbana, dove non c’è vita ci sono infatti rovine, abbandono, deserto. Al massimo piazze metafisiche cioè vuote come gli inquietanti paesaggi urbani di Mario Sironi del primo Dopoguerra, carichi di una tensione latente così come le foto odierne delle città vuote. Ferve dunque il dibattito tra gli architetti italiani, con l’edilizia ferma, posti di fronte a una condizione del tutto inedita come nella canzone dei Rolling Stones appena uscita, Living in a Ghost Town, “I’m a ghost / Living in a ghost town / I’m going nowhere / Shut up all alone / So much time to lose / Just staring at my phone”.

 

Il presente

Carlo Ratti e Italo Rota realizzano grazie a Unicredit un sistema componibile di ospedali d’emergenza in forma di container assemblati; Massimiliano e Doriana Fuksas hanno scritto una lettera al presidente Mattarella con Marco Casamonti di Archea per inserire l’architettura nell’orizzonte della task force di Vittorio Colao; Stefano Boeri ha lanciato qui, in un’intervista a Michele Masneri e poi nelle dirette Instagram della Triennale, l’idea di un ministero della dispersione prevedendo un plausibile spostamento graduale della popolazione verso i piccoli borghi alpini e appenninici dove il distanziamento sociale è maggiore, territori interni già oggetto di studio del padiglione italiano alla Biennale del 2018 diretto da Mario Cucinella e in parte colpiti dai terremoti del 2016.

 

Boeri prevede uno spostamento graduale della popolazione verso i piccoli borghi di montagna, dove il distanziamento sociale è maggiore

Insieme con il Consiglio nazionale degli architetti, Cucinella sta ora lavorando a un documento collettivo col rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta e altri: “E’ quantomeno singolare che gli architetti non vengano coinvolti in una fase drammatica della vita del paese in cui si riflette sulla ricostruzione di un modo di vivere diverso, in cui la dimensione spaziale della nostra esistenza assume un ruolo prioritario, finanche di sopravvivenza. E’ inaccettabile che gli architetti non abbiamo un ruolo riconosciuto nella delineazione del disegno strategico di quel che è prioritario, giusto e utile fare per il nostro paese: perché la crisi, la pandemia, la paura si traducano in una possibilità e non rimangano nel nostro tessuto sociale solo come una ferita. Un trauma senza risposta”. Non solo nuove costruzioni, però: bisognerebbe infatti migliorare il patrimonio di edilizia residenziale pubblica (Erp) esistente, ora demandato alle regioni coi soliti disastri come denunciato puntualmente da Alessandro Almadori di Ater Umbria e animatore con altri di FedercasaLab: “Dopo la chiusura della Gescal nel 1994, l’Erp è stata inghiottita da uno stallo manageriale, senza investimenti, senza manutenzione, ovviamente si è deperita, lasciando circa un milione di famiglie che pagano un canone mensile fra i cento e i duecento euro mensili: come si può pensare di dare valore a un patrimonio del genere senza investimenti? Altro che architetti, senza dare valore all’Erp si rinuncia a un pilastro del welfare di cui ci sarà un assoluto bisogno nei prossimi anni e che nel nord Europa al contrario è in continuo sviluppo”.

 

Verso una legge sull’architettura

Se è ora di cambiare, forse è giunto il momento per una legge sull’architettura. In molti si aspettavano che sarebbe stato il senatore Renzo Piano a promuoverla in Parlamento, ma sono rimasti delusi. Margherita Guccione, direttrice del Maxxi architettura, negli ultimi due anni ha riunito giuristi (Giovanni Maria Flick), curatori e architetti (in particolare Maria Claudia Clemente, Alberto Iacovoni, Simone Capra, Luca Galofaro) in una serie di incontri confluiti in un documento, Verso una legge per l’architettura, appunto. Qui Guccione ricorda che in Francia c’è una legge dal 1977 che prevede, in estrema sintesi, che gli urbanisti decidono i volumi e gli architetti li realizzano sulla base di concorsi pubblici. Si tratta dunque di un punto di riferimento visto che quasi tutti i nostri maggiori architetti si sono affermati prima in Francia e poi da noi: Piano col Centre Pompidou, Gae Aulenti e Rota col Musée d’Orsay, Fuksas, Cucinella, oggi Alfonso Femia, Umberto Napolitano di Lan e altri. Leggi simili sono state promulgate anche in Olanda e Catalogna mentre nel Regno Unito c’è il Cabe – Commission for Architecture and the Built Environment. Guarda caso sono tutte le aree europee dove l’architettura prospera per innovazione, varietà e alto livello della programmazione. La discussione va strappata però in ogni modo ai soli addetti ai lavori: giustamente lo scrittore indiano-newyorchese Suketu Mehta in La vita segreta delle città (Einaudi), dice che “di questi tempi la conversazione sulla pianificazione urbana è come la messa in latino, appesantita da un gergo volto a rafforzare le barriere che circondano a corporazione professionale… Con gli urbanisti è diverso: i loro sogni possono diventare i nostri incubi. Il resto di noi dovrà entrare, dormire, vivere dentro i loro sogni. Per questo abbiamo bisogno di capire quale storia ci stanno vendendo”.

 

Dopo le epidemie: l’urbanistica tutta è nata su basi igieniste, per promuovere una salute fisica che straripava in salute morale

In Italia siamo messi meglio che altrove quanto a dibattito, basti pensare all’abbondare di riviste (Domus, Casabella, Interni, Abitare, Icon Design, Area, The Plan fra le altre) e alla capacità di interferire con la sfera pubblica di molti dei progettisti sopra elencati. Il problema ora è finalizzare tutto questo tiki taka di idee in un eurogol, cioè nella legge, da buttare finalmente dentro la rete del Parlamento. Altrimenti prevarrà la logica attuale della gara per massimo ribasso e dunque del massimo degrado progettuale, oppure l’appalto integrato dove i progetti sono delegati direttamente alle imprese – il sogno dei burocrati, che vedono nel progetto solo un intralcio. Come se i ritardi e le spese dipendano dal ruolo e dalla parcella dell’8 per cento dell’architetto: lo abbiamo visto nel caso della Nuvola “è colpa di Fuksas!” – che voleva ritirare la firma – e non dell’ente Eur o della politica che ha farcito di nomine gli enti preposti. Bisogna dirlo chiaro: no alla centrale unica di progettazione caldeggiata dai Cinque stelle, no all’appalto concorso in cui il coltello per il manico ce l’hanno le imprese che chiamano così un architetto di grido o meno per farsi fare “un progettino” che tanto poi realizzano loro prendendosi anche il 6-7 per cento del suo onorario e se dissente lo possono sempre cambiare con un altro. Chi andrebbe in un ristorante dove il menu lo fanno le ditte fornitrici buttando in pentola gli ingredienti che hanno secondo “una ricettina” di uno chef di grido letta su internet? Non stupiamoci poi se la ricostruzione dal terremoto o le nostre periferie sono perlopiù un mappazzone urbanistico. E infine, come si fa a pensare di migliorare in senso energetico, ecologico, antisismico l’architettura italiana affidandosi solo alle imprese? Filarete, e con lui Leon Battista Alberti, diceva che l’architettura ha bisogno di un padre, il committente, e di una madre, l’architetto; con l’impresa responsabile di tutto sarebbe solo figlia di Nn.

 

Il passato

L’architettura ha reagito nei secoli in vario modo alle epidemie. In una lezione incentrata sul passaggio tra Medioevo e Rinascimento, Giancarlo De Carlo in La città e il territorio spiega come “una delle prime regole che viene stabilita è che le strade debbano essere più larghe, per consentire la ventilazione trasversale, e pavimentate, perché la mota facilita il trasmettersi delle malattie, in particolare la peste, il flagello che aveva profondamente coinvolto e scosso tutti gli esseri umani. […] In primo luogo vengono distinti gli spazi destinati agli uomini da quelli utilizzati per gli animali; nella città medievale vivevano tutti insieme, negli stessi luoghi, e non è detto che fosse un male dal punto di vista della comunicazione tra uomini e animali, che forse allora aveva una grande ricchezza che ora è andata completamente perduta, ma dal punto di vista igienico era molto dannoso, anche per gli animali, immagino”.

 

Non solo nuove costruzioni: “Senza dare valore all’edilizia residenziale pubblica, si rinuncia a un pilastro del welfare” (Almadori)

Per le epidemie sono stati costruiti cimiteri come quello delle Fontanelle a Napoli, tempi votivi come la chiesa di San Carlo di Pellegrino Tibaldi a Milano o della Salute a Venezia, ma anche approntate tipologie apposite di ospedali temporanei vale a dire i lazzaretti dove scontare la quarantena. In particolare sull’Adriatico, l’antico terminale dei virus e dei commerci con l’Oriente, furono costruiti a Ragusa/Dubrovnik (1377), Venezia (1423), Spalato (1592) e Ancona (1733-1743), dove Luigi Vanvitelli realizzò forse il più bello di tutti su un’isola artificiale a forma pentagonale con al centro il tempietto di San Rocco, protettore dalla peste. In età moderna arrivano i sanatori, quello austriaco di Purkersdorf (1903-1905) costruito in cemento armato da Josef Hoffmann e quello finlandese di Paimo (1929-1933) opera di Aimo e Alvar Aalto: per la tubercolosi infatti si moriva fino a tutta la metà del ‘900: fra le sue vittime illustri ci sono Amedeo Modigliani, Franz Kafka, il pittore Scipione e George Orwell, fra moltissimi altri.

 

Igiene è sinonimo di modernità: Già nell’800 il tema dei parchi urbani era stato agitato dai riformatori radicali come una rivendicazione di “igiene sociale” a scala metropolitana, per realizzare Central Park a New York ci sono manifestazioni con morti e feriti che hanno portato al progetto finale di Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux del 1857. L’urbanistica tutta è nata su basi igieniste, per promuovere una salute fisica che fatalmente straripava in salute morale: come ha scritto Guido Zucconi in La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885-1942) (Jaca Book 1989), con l’ingegnere igienista il destino della città inizia a essere concepito come questione di quantità assolute cioè gli standard urbanistici. Il caso italiano più eclatante fu quello di Napoli, dove in seguito all’epidemia di colera del 1884 venne promulgata la Legge per il Risanamento dal governo di Agostino Depretis. Nasce così il termine “sventramento”, usato dallo stesso primo ministro, forse in reazione a Il ventre di Napoli (1884) di Matilde Serao, che a sua volta riprendeva quello di Émile Zola, Il ventre di Parigi (1873). Questi ricordava le ben più radicali trasformazioni urbane dell’ambizioso piano del Barone Haussmann, che nasceva per risanare anche il male sociale della Comune parigina. In mancanza di migliori conoscenze virologiche, per curare i quartieri più promiscui e popolari delle città, si demolivano gli edifici invece di fornire condizioni di vita migliori. Esattamente lo stesso di quanto è avvenuto lo scorso 20 febbraio con la demolizione di un’altra delle Vele di Franz Di Salvo a Scampia, assurte a simbolo camorristico per eccellenza dopo Gomorra di Roberto Saviano e ai film e alle serie tv omonime; un grande striscione appeso recava la scritta “Questo è solo l’inizio. Scampia vuole tutto”.

 

In Italia tante idee per una legge sull’architettura. Ma bisogna dire no alla centrale unica di progettazione caldeggiata dai Cinque stelle

Dunque la morte civile nelle città italiane preoccupa perché porta all’estremo la repressione della socialità che era già in atto da tempo ed è invece così tradizionalmente radicata nel Mediterraneo in generale e in Italia in particolare. Negli ultimi vent’anni si sono moltiplicati infatti a livello esponenziale i divieti comunali: vietato fare schiamazzi, fare musica, fumare, bere alcolici in alcune ore, mangiare in certi luoghi pubblici, portare a spasso il cane, giocare a pallone; vietato persino fare e vendere le orecchiette artigianali a Bari Vecchia da parte delle signore anziane che da secoli passano le loro giornate sedute sulle sedie messe nel vicolo davanti alle proprie case. Sommati ai vecchi divieti di espletare bisogni fisiologici, di fare risse, di prostituzione o fare sesso all’aperto, siamo giunti al punto in cui quasi tutto ciò che l’umanità associata produce per la sua stessa natura è ormai vietato secondo una crescente intolleranza a modello nordcoreano. Per questo le piazze vuote sono inquietanti, perché sono l’utopia realizzata di una generale aspirazione al controllo sociale totale, tutto il contrario della città ideale delle tre pale di Urbino.

 

Il futuro

Se ci sono già i più sciagurati naif come i “design setter” che brindano alla fine della globalizzazione ringraziando il Covid-19 perché salva il pianeta dalle emissioni di CO2, non mancano quelli che vedono nel virus la scintilla per una rivoluzione anticapitalista, antispecista, antipatriarcale e vattelapesca. Insomma oltre ai Savonarola di sinistra che vorrebbero cambiare tutto, nonostante siano spiazzati dal fatto che il virus con ogni evidenza si sviluppa a prescindere dal riscaldamento globale e da ciò che mangiamo, ci sono poi i Gattopardi della destra anglosassone che vorrebbero tornare alla Belle Époque del businnes as usual e dunque “è colpa della Cina” – già le epidemie di colera di Napoli nell’800 o la peste a San Francisco del primo ‘900 venivano attribuite ai cinesi, prim’ancora invece si dava la colpa solitamente agli ebrei, Carlo M. Cipolla docet. “Nulla sarà come prima” contro “Tutto deve cambiare affinché tutto resti uguale”. Rem Koolhaas ha fatto in tempo a febbraio ad aprire una prospettiva onnicomprensiva non certo inedita, ma lanciata con un’enfasi unica al Guggenheim di New York: Countryside, the Future (Taschen) che già appare profetica vista la verosimile fuga dalle città: “Oggi il dibattito sulla campagna è polarizzato fra chi vuole mantenere tutto com’è e chi vuole cambiare tutto”, segue sequela di nuovi modi di vivere, coltivare, costruire, esplorare specie in Cina e Olanda. E poi c’è Emanuele Coccia, altro italiano affermatosi a Parigi che insegna nella scuola dove ha studiato Emanuel Macron, l’Ehess. Nel suo ultimo libro Métamorphoses (Rivages, 18 euro), spiega infatti sul finale (La ville multispecifique, L’architecture interspécifique) che il virus è il modo in cui il futuro esiste nel presente perché agente di cambiamento e trasformazione: “Il virus è il meccanismo chimico di sviluppo e di riproduzione dei viventi ma esistente al di fuori della struttura cellulare: il meccanismo di metamorfosi liberatosi da noi. Per questo hanno un ruolo di innovazione essenziale nell’evoluzione. Sono la prova che la nostra identità è un patchwork multi-specifico”.

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