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Sguardi in bilico su Venezia

Adriano Sofri

Disordini, squilibri, mancanze: un fascino speciale della città, delle gondole e dei palazzi affacciati sul Canal Grande sta nell’asimmetria. Il gran libro di Ettore Camuffo, veneziano e marinaro, sociologo e artista, e la natura dell’emergenza

Un fascino speciale di Venezia, delle gondole e dei palazzi affacciati sul Canal Grande e del resto, sta nell’asimmetria: in ciò che pericola (un’inclinazione), manca (un fianco) o che disordina (un salto di livello nei piani) o che squilibra (un’ala più larga e una più stretta) e così via. Una volta che ne siate avvertiti, la vostra prossima visita a Venezia sarà come una prima volta, più in bilico. Dovrete procurarvi un gran libro su “Venezia, città delle asimmetrie” (Marsilio, 341 pp., 28 euro). E’ uscito quasi con l’acqua alta e sembra fatto apposta a spiegare tutto ciò dietro cui la cronaca arranca, bellezza e dissipazione, e la schiacciante sproporzione fra passato e presente – il futuro, dipende… Ci ha lavorato per anni Ettore Camuffo, veneziano e marinaro, sociologo e compagno di artisti e artista lui stesso, senza di che non si spiegherebbe la tenace fedeltà alla piccola differenza. Ne rubo un po’ di spunti, tanto per invogliarvi.

  

La prima a venire in mente è l’asimmetria della gondola, che le deve l’eleganza suprema. (Nera: il nero è a Venezia il colore dell’eleganza, il lutto è per tradizione rosso amaranto o azzurro fondo). La gondola a un solo remo è diventata nel corso del tempo “l’unico esempio al mondo di imbarcazione asimmetrica a scafo singolo”. Diversa lunghezza delle fiancate (la destra più corta di 20,36 cm.) e torsione verticale fra prua e poppa le danno l’inclinazione, più vistosa nella gondola ferma e vuota, più ridotta in movimento, quando il peso del gondoliere riequilibra lo scafo. In gondola, nella volta dei canali stretti, dove la poppa andrebbe a urtare, anche il piede sinistro del gondoliere contro il muro diventa una specie di secondo remo. Forse anche per la sua materia (280 pezzi ricavati da otto tipi di legni stagionati: abete, ciliegio, larice, mogano, noce, olmo, rovere, tiglio; per un violino sono tra i 54 e i 116, o più) la gondola appare così musicale, e i feri chiavi di violino – cavallucci marini. L’inclinazione è voluta, di cantiere: non c’è errore qui, come spesso nei palazzi del Canale. Così l’asimmetria spesso involontaria dei palazzi (errori di progetto o di costruzione, limitazioni imposte dallo spazio e dalle rivalità fra vicini, sovrapposizioni di stili e ristrutturazioni nel tempo) rivaleggia con l’asimmetria calcolata della gondola: più simile la prima alla causa che inclinò la Torre di Pisa, felix error, affine la seconda alla Torre di Pisa nel simboleggiare la città e disseminare il pianeta di gondole pendenti di plastica e torri pendenti d’alabastro soprammobili. (Chi conosce Pisa sa che anche là pende quasi tutto. Nel 1953 Albert Einstein scrisse a un amico a Pisa: “La ringrazio molto per la bella acquaforte. La Torre di Pisa è un bel simbolo dell’impossibilità degli esseri umani di prevedere le implicazioni sociali delle loro opere. L’artista, naturalmente, non previde che la debolezza delle fondamenta avrebbe prodotto l’inclinazione della torre e che questo avrebbe attirato l’attenzione di tutta l’umanità. Ciò non è forse vero anche per creazioni più astratte dell’uomo nel senso che le loro effettive conseguenze sociali corrispondono solo in minima parte alle intenzioni del creatore?”).

 


La prima a venire in mente è l’asimmetria della gondola, che le deve l’eleganza suprema. (Nera: il nero è a Venezia il colore dell’eleganza, il lutto è per tradizione rosso amaranto o azzurro fondo). La gondola a un solo remo è diventata nel corso del tempo “l’unico esempio al mondo di imbarcazione asimmetrica a scafo singolo”


 

Che una città di gondole si sia lasciata invadere dall’infamia delle cosiddette Grandi Navi (detestabile formula, assenti come sono navi e grandezza) è dei segni culminanti della nostra generazione, la generazione che dissipò la sua Venezia. Alzi la mano chi non abbia sentito violenta una nostalgia di dinamite al passaggio d’una grandenave, eclisse improvvisa e spaventosa, e il rimpianto di Luciano Bianciardi minatore di Maremma ai piedi del Pirellone. Fra quelli che non alzano la mano stanno i fautori del Mose, del resto. Non vorrete mica, nel 2016, dragare la laguna col secchiello, come si è fatto per secoli? E pensare che per dire di un’enormità pacchiana si dice un elefante in una cristalleria. E’ più facile che un elefante passi per un’asola di cristallo di Murano che una grandenave approdi al regno dei cieli. Il sindaco Brugnaro, appena fatto Commissario straordinario (prima di me il diluvio) ha faccia e tono sensato, nei telegiornali: nel 2015 attaccò una mostra di grandinavi (tutto attaccato va già meglio, c’è come un grandinare) fotografate da Gianni Berengo Gardin, gli rinfacciò anche di avere un doppio cognome. Scrisse il fotografo: “Non voglio mettermi sul suo stesso piano, ma un paio di cose vorrei le sapesse. La mia famiglia è veneziana da cinque generazioni. Ho vissuto trent’anni a Venezia. Mia moglie è veneziana e i miei figli sono nati a Venezia… A Venezia ho dedicato ben dieci libri, esaltandone in tutti i modi la bellezza”. Poi gli spiegò anche di non aver “usato i teleobiettivi”, come se ce ne fosse bisogno. Ora, chi di noi non ha fotografato una grandenave col suo telefonino, bestemmiando nella propria lingua, e chi di noi non se n’è sentito guardato e annientato dagli infimi dell’ultimo ponte come un infimo lillipuziano? Noi, chi se ne fregherebbe, piccoli siamo davvero. Ma proprio per non esserlo del tutto costruimmo il Palazzo Ducale e San Marco, un po’ alla volta, rubando e salvando e mescolando pietre e monumenti da ogni dove, quella era la grandezza. Altezza media dei palazzi veneziani, 15 metri sì e no, altezza della “Voyager of the Seas”, 63 metri (il “Titanic”, 20 metri) e 6.700 esseri umani a bordo. Ma noi, direte, costruimmo e ricostruimmo anche l’altissimo Campanile di San Marco: già, ma il Campanile sta fermo (perfino quando crolla, 1902, crolla su se stesso e travolge solo il povero gatto del custode), e il Voyager è lungo più di tre volte l’altezza del Campanile.

 

Tanti anni fa, quando l’autore mi scoperse per la prima volta il segreto dell’asimmetria veneziana, pensai con entusiasmo al claudicante George Byron (“amo la malinconica gaiezza delle gondole”) che vogava sulla gondola: storto lui, storta lei. Le gondole erano più di 10 mila nel 1580, sono 500 oggi. Una sola donna gondoliera laureata, figlia d’arte, Giorgia Boscolo, dal 2010. Una di fatto, tedesca d’origine, veneziana d’adozione, bocciata ostinatamente e costretta alla pratica privata, già Alexia, oggi Alex Hai: un record mancato malamente dalla città dei record e delle piccole differenze.

 

C’è una forma giovanile di megalomania che chiamerò napoleonica – non a caso diventò il paradigma della cosiddetta pazzia, poveretti che giravano in tondo tenendo la mano destra nel panciotto; si trascurò il fatto che il primo a prendersi per Napoleone era stato lui stesso. Una forma successiva, post-napoleonica diciamo, capace tuttavia di una peculiare esaltazione, consiste nell’ambizione di dire qualcosa di nuovo a proposito di ciò di cui è stato detto tutto. (Io ci sono appena passato, pretendendo, e lo pretendo tuttora, di correggere una sillaba di Franz Kafka). Con una tale esaltazione, peraltro platealmente dissimulata (“questa piccola raccolta di scritti…”), Camuffo, che ebbe i suoi trascorsi napoleonici, si è misurato con la sfida di dire qualcosa di nuovo su Venezia, che sta alla civiltà come Kafka alla letteratura. Il suo cimento è almeno duplice. Il primo con la tensione fra simmetria e asimmetria – l’ordine e il disordine, l’omogeneità e la sua rottura, l’armonia e la stonatura calcolata, la somiglianza e la piccola differenza – in cui risiede “la seduzione inebriante con cui Venezia s’insinua nell’animo dei suoi visitatori occupando una parte indelebile della loro memoria”. Il secondo cimento è più specifico e forse più temerario, riguarda una “carta da navegar”, un volumetto da viaggio famoso di Nicolò Zeno il Giovane, 1558, e l’ipotesi fra storia e leggenda di uno sbarco veneziano nel continente nordamericano che avrebbe anticipato di due secoli quello di Colombo per conto della regina di Spagna. Camuffo ha, non scoperto, perché stava in bella vista e bellamente studiata alla Biblioteca Nazionale parigina, ma originalmente riletto, una seconda carta, anch’essa veneziana, ritenuta copia della prima, e da lui – contro opinioni fortemente autorevoli – dimostrata anteriore di oltre dieci anni, dunque originale, sicché è la Carta di Zeno a diventare così la copia. La Carta di Zeno disegnava nuove isole e le coste di tutto il Nordatlantico e il Mare del Nord, pretesamente toccate dai suoi avi, Nicolò il Vecchio e suo fratello Antonio. La controversia sull’autenticità della Carta e del racconto avventuroso che la accompagnava è durata attraverso i secoli, complicata dall’intervento della ragion di Stato, in particolare dell’interesse inglese a mettere in discussione i privilegi spagnoli e portoghesi nel nuovo mondo. Si capisce quanto sia alta la posta: si tratta di giudicare della primazia nella scoperta del Nuovo Mondo.

 

“Solo nelle due Americhe le varie Venice, Venecia, Venezia, Venetia, sono 97 e l’Asia si sta accodando a gran velocità, con Cina e India ai primi posti”. Ora questa emulazione universale si va ritorcendo su se stessa, via via che la vera Venezia sembra imitare le finte e le loro popolazioni di passaggio.

 

Finché dura, la vera Venezia ha due luoghi cruciali: San Marco e il Canal Grande. Poi ha gli altri posti, così che ognuno possa avere il suo – io due: il giardino del campo davanti alla basilica di San Pietro, in ricordo di un matrimonio quasi mio, e il campo dei Santi Giovanni e Paolo, per il bar pasticceria Rosa Salva. Il Canal Grande, “4 km, largo da 30 a 70 m per 5 m di profondità”, ha sulle rive circa 300 costruzioni, poche religiose, la quasi totalità edifici civili. Dei 300 fabbricati, quasi il 40 per cento ha una facciata segnata da parti aritmiche e irregolari, rispetto al 60 per cento di architettura simmetrica a regolare. A volte dunque le irregolarità sono originarie, pensate nel progetto, più spesso sono modifiche intervenute nelle quattro epoche successive che ne hanno improntato la forma: bizantina, gotica, rinascimentale e sei-settecentesca. La diversità dei volumi e dei dettagli è spesso cercata dalle famiglie committenti, desiderose di distinzione, ma anche, più significativamente, dalla capacità tenace delle famiglie “minori” che hanno resistito ai tentativi di espropriarle forzosamente o a suon di denari. Accanto ai palazzi più sontuosi e pretenziosi – come quelli le cui sommità si fregiano dei pinnacoli riservati agli Ammiragli – porzioni notevoli sono costituite dagli edifici minori, che assicurano al canale “un aspetto di ‘vissuto’ che è parte integrante del suo fascino”. Lo avrete certo avvertito, ma d’ora in poi lo riconoscerete, resi turisti nuovi, attenti a non farvi sfuggire i palazzi “poveri” invece di saltarli per passare da una Ca’ d’oro a un Palazzo Giustinian e così via.

 

Direi che ce ne sia una controprova in un’altra città che ha la sua gran piazza di palazzi d’acqua o quasi , benché non di laguna ma di mare: piazza Unità a Trieste. In cui i palazzi, che del resto vanno appena dalla fine del ’700 all’inizio del XX secolo, sono tutti rigorosamente simmetrici, e se ne vantano.

 


Dei 300 fabbricati che si affacciano sul Canal Grande, quasi il 40 per cento ha una facciata segnata da parti aritmiche e irregolari. A volte le irregolarità sono originarie, pensate nel progetto, più spesso sono modifiche intervenute nelle quattro epoche successive che ne hanno improntato la forma


 

La palificazione su cui Venezia poggia è illustrata nitidamente dal libro: è la meraviglia delle meraviglie. Il cui complemento sono i pali emersi: le sole bricole sono una foresta di novemila unità, ciascuna da rimpiazzare ogni 10-15 anni. Un’altra storia è dunque quella del rapporto di Venezia con la montagna. Arrivavano, alla fine del Settecento, 300-350 mila tronchi all’anno. Si facevano potature “mirate” per dare già a tronchi e rami le forme appropriate agli scafi. Da Venezia risalivano alla montagna le galee protagoniste delle guerre navali sul lago di Garda contro i Visconti.

 

Una volta superata la suggestione della Venezia della Morte a Venezia, si prova una vera rabbia contro la Venezia dell’emergenza: perché l’emergenza è davvero (perfino letteralmente, emersione e sommersione) la natura propria della città. I veneziani dicono “Vado in terraferma”, la loro non lo è. “Restano isolani, esprimono un senso di precarietà e d’incertezza che molti hanno voluto confondere con l’aleggiare di uno spirito di morte e di tristezza che è invece coscienza del provvisorio e dell’incertezza delle vite e delle cose, soprattutto quelle legate alla natura e al suo divenire… l’eredità delle possibilità umane di creare grandezza e bellezza sapendole accompagnare con il sentimento profondo, e umanissimo, della precarietà e dell’incertezza di ciascuno di fronte al proprio futuro”.

 

I contemporanei, per i quali l’emergenza è da qualche decennio la parola d’ordine, pretendono di addebitare a Venezia un’emergenza dell’emergenza, e se ne lamentano come di un destino altrui.

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