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Non è l'acqua che spaventa Venezia, ma l'eterna ridiscussione

Ottavio Di Brizzi

Con la retorica della fragilità o peggio della conservazione museale si salveranno solo gli alibi. Ora basta con questo brubru demagogico

Al direttore - Le ondate di indignazione e grida di raccapriccio che ogni giornale spara a volume altissimo su primepagine e siti e feed, stridono così tanto con il silenzio dolente di chi in città vive, studia o lavora (o resiste, come la retorica della città morta prevede: non parla un veneziano, ma uno che ha scelto di diventarlo per provare semplicemente a lavorare qui, sull’acqua e senza radici da rivendicare, senza alcuna brama eroica, pensando sia una piattaforma mobile e fabbrica formidabile da cui guardare al mondo). Ma lutto e chiacchiera non vanno allo stesso ritmo. L’altra sera regnava un silenzio operoso e quasi stoico, per nulla rassegnato o fatalista, che aveva come unico basso continuo il lamento delle sirene, del vento, dell’acqua degli scarichi fognari. Sotto casa mia c’è un giovane fruttivendolo, che vende ortaggi e frutta dell’isola di Sant’Erasmo e non solo, normalmente aperto fino a tarda sera, ogni giorno, accanto a un grande, magnifico antico teatro ora supermarket chic di cui non si è mai lamentato per concorrenza sleale. L’altra sera lo ammiravo mentre in silenzio e senza pause portava in salvo la frutta, perdendo qualche zucchina che galleggiava veloce verso la fondamenta, metteva in salvo in alto le altre provviste, svuotava l’acqua e la merda che invadevano la sua piccola bottega. Confesso di essere sceso ad aiutarlo, in silenzio, senza dire nulla, a spalare acqua e merda, e senza dir nulla ci siamo salutati quando la marea è calata. E’ gente di mare, è abituata a strappare e difendere la terra dall’acqua, che ha imparato e gestire, usare, da cui ha imparato a difendersi. Non chiede di essere assistita o protetta come una specie in estinzione, anzi, ma solo di poter lavorare e dare vita a una città che non è affatto parco tematico o quinta teatrale di uno spettacolo spettrale. Se il vento contrario è forte puoi rifugiarti sotto un muro per un po’, ma se continua a lungo è meglio costruire un mulino a vento. Non è conveniente vivere o lavorare a Venezia, non lo è mai stato nell’epoca moderna, si tratta di una vera città signorile di massa, in cui quasi tutti vivono da microrentier affittando la stanza della nonna, ed è comunque una sconvenienza che non può essere sovvenzionata. Ma è viva, si lavora con gran fatica, e si potrebbe molto di più e meglio.

  

Prevale una certa retorica della resistenza, e va bene, ma non basta. Tra le immagini di questi giorni quella del vecchio chiosco delle Zattere, sradicato dal vento e dall’acqua, che verrà presto ripristinato grazie a una sottoscrizione popolare immediata e spontanea: un piccolo bel segnale, in una città in cui non si sono ridotte come in altre ma sono letteralmente sparite le edicole, come la classe media che le teneva in vita. Da sempre l’arsenale (la fabbrica più grande e moderna d’Europa in un tempo lontanissimo) è stata estensione del dominio del giardino: ma ora l’arsenale è fabbrica solo per una delle poche istituzioni che producono e funzionano a Venezia, la Biennale. La marea ea cala e in sie ore ea cresse, come il brubru demagogico sulla città, da sempre, tra mille alibi ideologici, tra Mose e climate change, non si sfugge alla grandinata di prevedibili invettive e solite geremiadi, teorie di chi la contempla a distanza di sicurezza e che stilizza forme assolute, ispirate a un rigore che è solo rigor mortis, con massimalismi molto metereopatici, argomenti a volte poveri, altre solo miserabili.

 

Con la retorica della fragilità o peggio della conservazione museale si salveranno solo gli alibi. I servizi di porcellana li puoi tenere in una vetrinetta o usarli quotidianamente; certo, con molte cautele e attenzioni, senza usarli per le feste dei dodicenni, ma si possono e debbono usare, se ne può fare manutenzione, se ne può aver cura. Si può fare. Ma evidentemente il motivo del compianto è più seducente di quello della fucina di Vulcano. A Venezia e in laguna si respira in ogni luogo l’idea stessa della ri-formabilità della natura e delle cose, del governo della natura (che non è né benevola né matrigna, non vuole da noi nulla, almeno che noi si sappia), di un costante compromesso in nome di una visione (umana, e artificiale) in qualche modo sconveniente e irrazionale. Non so, come molti non sanno, se il Mose sia l’impresa ingegneristica più grandiosa del secolo o la più straordinaria truffa del millennio. Probabilmente è entrambe le cose. Ma anche solo solo per uscire dallo stallo tra Grandi Opere ed Emergenza (in Italia non casualmente spesso intrecciate) l’ultimo miglio andrebbe chiuso in fretta. Per poi occuparsi della manutenzione? Sì, probabilmente sì: un gesto riformista deludente forse, ma meglio del radicalismo benaltrista o della conservazione del moriremo eleganti. Non è l’acqua che spaventa o la retorica che uccide la città, ma la burocrazia, la eterna ridiscussione o insensatezza kafkiana di molte regole di ingaggio incomprensibili, la mancanza di ogni forma di incentivazione a lavorare a Venezia, alimentare un tessuto connettivo fatto di attività produttive e non solo di rendite di posizione, farne una manutenzione ordinaria da organismo vivente e in costante mutamento, non protetto o assistito. Ma, a proposito di lacci e lacciuoli, evidentemente è più facile somministrare flebo e palliativi che cambiare regime alimentare a un corpo forse indebolito, ma vivo e reattivo.

 

Finanziare, incentivare (forse sgravare) le attività produttive in città renderebbe più forte la gente che ci vive, sovrana nel senso migliore del termine, immune alle maree di racconti e piagnistei che la affliggono da decenni. Spalando merda l’altra notte, in silenzio e con l’unico lamento concesso alle sirene, si pensava a quanto si potrebbe fare per non ritrovarsi in ginocchio alla prossima, passata la festa e annegato il santo.

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