Mauro Corona si fa un selfie con Matteo Salvini in un bar di Aosta (foto LaPresse)

Corona ferreo

Marianna Rizzini

Era lo scrittore, lo scultore-alpinista. È diventato l’orco sovranista delle montagne, la voce delle caverne gialloverdi. E impazza in tv

Senza il corpo da scalatore- scrittore, rappresenta con voce e parole il pensiero della cosiddetta “pancia del paese”

Sono giorni sovranisti e le facce seguono, ma anche precedono, lo spirito del tempo. Perché non c’è soltanto il duo Matteo Salvini-Luigi Di Maio, anche fisiognomicamente giocato sulla contrapposizione “volto da compagno di classe perfettino-volto da compagno di taverna arrabbiato”. Appare infatti sempre più di frequente sui teleschermi il volto scapigliato in senso letterale di Mauro Corona, alpinista-scrittore-scultore-imbronciato nei tratti quanto nell’animo, neosovranista per autodefinizione. Accade infatti che Corona, intervistato a “La Zanzara”, su Radio 24, esprima con sbotto di veneta furia il suo punto di vista, per molti versi anticipato negli interventi a “Cartabianca”, su Rai3, al cospetto di Bianca Berlinguer, la donna con cui ha formato la coppia televisiva che il critico Aldo Grasso, sul Corriere della Sera, accosta ora a “Casa Vianello” ora a “La Bella e la Bestia”, collocando il format a due in una zona grigia tra la sitcom e la favola, con liti, rappacificazioni, regali, rimbrotti e slittamenti di senso e modo: “… Poi però in tv esiste anche la contaminazione ambientale e ben presto il teatrino si è trasformato, per slittamento di genere, nel falò di chiarimento di ‘Temptation Island’”, scrive Grasso quando allude a discussioni Berlinguer-Corona che somigliano a “scene da falò” in cui Mauro e Bianca se ne dicono di tutti i colori, per scoprire “che il loro non era amore ma solo un calesse”.

 

Invece in radio Corona non fa teatrini, esterna. Ed è appunto quando si materializza soltanto con la voce e non con lo sguardo da Caronte-occhi di bragia che si capisce cosa lo scrittore montanaro non è più (non solo): l’ospite eccentrico, ascrivibile alla categoria del “pazzo di talento” che dice le cose senza fronzoli con la bandana in testa e il giubbotto senza maniche. Corona, senza il corpo da scalatore-scrittore, rappresenta con voce e parole il pensiero della cosiddetta “pancia del paese” e diventa mainstream: “Hanno capito che l’Italia, tramite Salvini e quell’altro che beve prosecco, Di Maio, sta mettendo fuori la testa e non se la fa più calpestare”, dice. “Quindi hanno paura. Io ormai sono diventato sovranista. La Germania dovrebbe venire qui in ginocchio, invece ci trattano da servi della gleba. Juncker a me sta sulle palle” e “Salvini fa bene ad attaccare l’Europa”. Non è leghista, Corona – dice – ma se i leghisti fanno “qualcosa di buono” perché no.

  

Ruvido nell’eloquio e nell’orgoglio, è nato sessantotto anni fa a Baselga di Piné e vive a Erto, in provincia di Pordenone, portando con sé e fuori di sé il dramma del Vajont, vissuto in prima persona a tredici anni ma trasformato in pubblica invettiva (al limite del vilipendio): sempre a Radio 24, infatti, intervistato da Alessandro Milan, nel giorno dell’anniversario della tragedia, si scagliava contro l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, diceva Corona come fosse allo speaker’s corner, “dovrebbe vergognarsi per quel che gli resta da vivere” (motivo: “Essere andato a commemorare morti” e portare conforto ai superstiti di terremoti e stragi “schivando” il Vajont, il luogo dove “duemila persone sono entrate nel nulla”, “uccisi” da chi non ha “pagato” per quel “genocidio”, né allora né mai). E a “Cartabianca” ha rincarato: i tg non ne parlano, del Vajont, preferiscono l’argomento Ronaldo, e i libri di scuola distorcono.

 

Se Bianca Berlinguer ribatte, lui alza il tono al punto da incrinare l’intesa televisiva. La leggenda del Corona che fa una doccia al mese

E se Bianca Berlinguer ribatte, lui alza il tono al punto da incrinare l’intesa televisiva con la conduttrice a cui, in passato, ha regalato pubblicamente fiori e gufi intagliati di montagna, vestendosi anche in smoking in prima serata e contraddicendo per una sera l’autoalimentata leggenda del Corona che fa una doccia al mese e non si cambia biancheria per settimane. L’ha detto lui più volte alla “Zanzara”, descrivendosi allora come maschio rozzo anche se non ancora contagiato dal machismo politico sovranista che ora gli fa dire cose come: “Il debito (pubblico, ndr) ce l’hanno tutti” o “questi cavalcano questo spettro del debito per metterci il morso” o “vorrei che la mia patria non fosse una Cenerentola”. E se non è diventato leghista di nome sembra esserlo di fatto, anche se c’è stato un periodo, mesi fa, in cui Corona, nelle interviste, si diceva tentato dal non voto ma anche, in caso di non astensionismo, dal voto per i Cinque stelle, dopo le delusioni a sinistra che l’hanno portato a non dare più consenso a nessun partito dell’area, men che meno, così pare, al Pd (sempre dalla Berlinguer ha stroncato le candidature al futuro congresso al grido di “Richetti? Ma dove? Sono tutte mezze figure… Zingaretti? Almeno suo fratello, da Montalbano, risolve i casi”). E se non c’è più Matteo Renzi a farlo imbizzarrire, Corona riattacca con foga l’Europa che “ha preso paura” di fronte “a un governo che dà valore a quello che fa l’Italia”, senza dimenticare di attaccare Asia Argento sul caso Weinstein (“non è credibile, hanno rovinato un uomo che magari ha palpato ma non ha legato nessuna a un albero…”) e di difendere Vittorio Feltri se qualcuno in tv gli dà di ubriaco (“la gente è bigotta, tutti i grandi si sbronzavano… Il grande Pessoa parlava della stupefacente lucidità della sbornia. Sono cose che vengono fuori bene nella sbronza. Tutti i grandi scrittori da Kerouac a Bukowski, a Joseph Roth… Certo, Juncker è diverso… basta che non sia ubriaco nell’esercizio delle sue funzioni”).

  

“Le delusioni si spuntano contro il mio animo diventato corteccia. Quando le cose non vanno bene mi rifugio su qualche vetta”

Ma chi è Mauro Corona, il fenomeno mediatico che pareva incarnazione di una sorta di orco delle montagne, l’opposto del nonno di Heidi, uno nato su un carretto (spinto dai genitori, venditori ambulanti), cresciuto a suon di schiaffoni metaforici e no, e trasformatosi nella voce delle caverne gialloverdi? Sul suo sito, intanto, l’autodescrizione disegna un eremita tutto sommato mansueto: “Mauro Corona è uno scrittore e un artista Italiano. E’ un tipo schivo e non è facile scovarlo nella sua bottega-tana. Ammesso di farcela poi, potrebbe sempre fuggire, rendendosi invisibile agli occhi di tutti. Questo sito nasce per dargli fissa dimora, anche se solo virtuale. Qui, tutti voi, amici dell’uomo di legno, potete seguirlo senza che vi mandi al diavolo o che vi scappi sotto il naso ‘a uso camoscio’”.

 

Campeggia anche, sempre sul sito, la sua massima-guida: “Vivere è come scolpire, bisogna togliere per vedere dentro”. E per togliere, Corona ha dovuto ricordare (e raccontare, tra libri e tv). Prima di tutto gli anni in cui ha conosciuto, bambino, l’indigenza vera (andava a elemosinare con la nonna) e la violenza: suo padre picchiava. Picchiava sua madre, lui e i suoi fratelli. “Uno sconfitto”, lo definirà poi Corona, uno sconfitto abbandonato a un certo punto da una moglie che subiva le botte, ma che un giorno decide di andare in Germania, da cui tornerà quando il figlio, ormai tredicenne, si sente già indurito da una vita in cui non aveva potuto essere un bambino come gli altri (oggi lo scultore-alpinista scrive: “Le delusioni non mi forano più: si spuntano contro il mio animo diventato corteccia. Quando le cose non vanno bene mi rifugio su qualche vetta. E’ come fare visita a un’amica per avere consiglio, per riflettere prima di far sciocchezze, così da spegnere i fuochi dei gesti impulsivi. La natura, le montagne, sono una medicina, l’appiglio per non cadere. Dalle mie vette ho avuto protezione e affetto. La scalata estrema è venuta dopo, ma non c’entra nulla, o molto poco, con l’amore per la natura, con ciò che mi ha dato e continua a darmi. Ho speso i giorni in compagnia della roccia e del vuoto e mi sono trovato bene. Molto di più che con i miei simili. La montagna non è gelosa o invidiosa, non cerca potere né vendetta. Se la rispetti, non ti tradirà. Non è fedele ma è leale, sempre. Essa mi ha insegnato che dalla vetta non si va in nessun posto, si può solo scendere”).

    

Il padre, l’uomo che dava “sprangate” alla moglie e olio di ricino ai figli. Il ricordo del Vajont che sempre ritorna

E se oggi Corona è l’ospite televisivo che ha venduto milioni di libri e che, con caratteristico intercalare da uomo dei boschi, può parlare di Roberto Saviano (“troppo ideologico. Ragiona come nel calcio”) come di donne (“la fedeltà è superata… da quando sono famoso rimedio di più”) come della necessità di instaurare un regime di “anarchia imprenditoriale” in Italia, ieri Corona per sua ammissione ha visto in qualche modo l’inferno. L’infanzia è stata “drammatica”, ha raccontato al Gazzettino, il giornale dove ha pubblicato i primi racconti: “Un’infanzia sviluppata in mezzo alla natura, le prime scalate con mio nonno che era un uomo alto quasi due metri e mi portò sul monte Cita, il Civetta. Mio fratello Felice era alto uguale, è morto che non aveva ancora 18 anni in Germania dove faceva lo sguattero, trovato annegato in una piscina. Lavorava dai gelatai, nessuno è venuto a dirci come era morto. Si chiamava Felice ma felice non è stato mai nella vita”. A Bianca Berlinguer invece ha parlato del padre, l’uomo che dava “sprangate” alla moglie e olio di ricino ai figli, anche legandoli per ore a un palo in caso di disobbedienza. E quando qualcuno gli chiede che cosa provasse allora, Corona risponde “umiliazione”, poi da grande superata con l’affetto per un genitore che però, di fronte ai suoi libri, urlava sempre “sei un fallito”, avendo da sempre preferito, per il figlio, una vita da impiegato Enel. Ma all’Enel Corona non voleva lavorare, dopo gli anni del collegio. Preferì un impiego da manovale specializzato in una cava di marmo: “A 13 anni, dopo il Vajont, stavo nel collegio Don Bosco di Pordenone che era una scuola per gente che aveva i soldi”, ha detto al Gazzettino, “avevano offerto un posto gratis a questo ragazzo folle, ma è stata una sofferenza che mi ha segnato la vita, perché ero al chiuso. Però mi hanno dato le basi, mi hanno fatto amare la letteratura e la lettura… Dopo le medie volevo andare alla Scuola d’arte, mi iscrissero ai Geometri che era la cosa più distante da me, così invece di studiare mi misi a leggere Tex. Avvertirono mio padre che venne a prendermi a fine gennaio in motoretta, con un gran freddo: Monta, che la cuccagna è finita”.

   

Del Vajont in sé Corona ricorda il rumore indescrivibile “come un miliardo di aerei a reazione che passano nello stesso istante”. A casa con la nonna, miracolato, il ragazzino Corona aveva visto la gente scendere a San Martino e tornare dicendo che il paese non c’era più: “Non vedevi più le case, ma sentivi le urla. Qualcuno si affacciò a Casso e disse che non vedeva più Longarone. Io dormii sotto un tavolo. L’indomani quando venne chiaro era tutto giallo, la montagna disossata dalla terra e messe a nudo le ossa gialle. Si vedevano i morti, una donna impigliata su un ramo che galleggiava”. A vent’anni Corona è già padre di una bambina chiamata Tina come l’ex partigiana, giornalista e scrittrice Merlin, che aveva definito “genocidio” il Vajont. A Erto ci si arrangiava, chiedendo aiuto a un postino che, oltre al dottore, era l’unico ad avere il telefono e la televisione, da cui Corona apprende dell’esistenza dello scultore Augusto Murer. Inizia a scolpire anche lui, poi il colpo di fortuna: un imprenditore gli compra tutte le statue e gli ordina una Via Crucis per il Duomo di Sacile, paese ricostruito dopo il terremoto. Da lì arrivano le prime mostre e una piccola notorietà, poi amplificata con la penna, all’uscita dei suoi racconti della domenica (lettori-cavia erano stati i figli di Corona). Seguono 27 libri. Quello del 2011, “La fine del mondo storto”, vince il premio Bancarella. E quando, nel 2014, vince il premio Rigoni Stern, il futuro “orco delle montagne” sovranista, dice che sì, davanti a quel premio intitolato a un autore che l’aveva così tanto “commosso”, poteva finalmente tornare a casa la sera a casa e dirsi “forse ce l’ho fatta a uscire dall’inferno”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.