Un monumento enorme. Un libro verde e rosa messo su un piedistallo nel nulla di una piazza di Ashgabat, la capitale del Turkmenistan. L'ha scritto il presidente Niyazov, morto nel 2006

La dittatura dei libri

Micol Flammini

Saggi per dettare la linea, romanzi (spesso pessimi) per vanità. Quanto amano scrivere i tiranni

Nel progetto iniziale, il libro gigante nella piazza di Ashgabat avrebbe dovuto aprirsi e ogni notte mostrare una pagina diversa

Lenin era noioso, Stalin ridondante, Hitler sgrammaticato. Mussolini, in fin dei conti, non era poi così male. Ma ci sono anche Enver Hoxha, Khomeini, Fidel Castro, Francisco Franco, Mao, Saddam Hussein, Gheddafi, dittatori del Ventesimo e del Ventunesimo secolo, tutti ossessionati dalla letteratura. Non come fruitori, bensì come autori. Daniel Kalder ha scritto un libro che è nato da un’idea folle: leggere tutte le opere che i dittatori hanno scritto e pubblicato e scoprire che sono tantissime e tutte, o quasi, di pessima qualità. Kalder è uno scrittore scozzese appassionato di viaggi e in “Dictator Literature. A History of Despots through their Writing”, “La letteratura dei dittatori. Una storia dei despoti attraverso le loro opere” (Oneworld), racconta che un giorno, in Russia, intento a cambiare compulsivamente canale, in preda alla noia e all’astinenza da ispirazione, si è imbattuto nell’immagine gigante di un libro. Era un monumento enorme. Un libro verde e rosa messo su un piedistallo nel nulla di una piazza di Ashgabat, la capitale del Turkmenistan. Attorno qualche bandiera e una fontana. Essendo un libro, aveva un titolo, scritto con lettere dorate: “Ruhnama”, altrimenti conosciuto come “Il libro dell’anima”. Sopra il titolo un profilo, ugualmente dorato. Sopra il profilo, nome e cognome dell’autore: Saparmurat Niyazov, il presidente del Turkmenistan, che ha tentato di comporre un mito sulla nascita della nazione facendo risalire la sua fondazione a Noè. Il libro esiste davvero, e non soltanto come monumento, e tutti i turkmeni sono obbligati a leggerlo, se vogliono guidare la macchina. Potrebbe sembrare assurdo, eppure, la lettura de “Il libro dell’anima” è parte dell’esame per ottenere la patente. Kalder racconta di aver deciso di comprare l’opera ed è andato in Turkmenistan per constatare l’esistenza del monumento. L’enorme scultura esisteva, il libro anche, ma Kalder per terminarlo ci ha impiegato tre anni, tanto era faticosa e noiosa la lettura. Nel frattempo Niyazov era morto, ma il monumento, di una bruttezza quasi aliena, continua a stagliarsi nel mezzo del nulla. Il libro gigante, racconta Kadler, doveva emanare un potere soprannaturale, e nel progetto iniziale, avrebbe dovuto aprirsi e, ogni notte, mostrare una pagina diversa. Il meccanismo si è rotto quasi subito e il libro rimane lì a mostrare fieramente il verde e il rosa della sua copertina.

       

Per scrivere “Dictator Literature”, Daniel Kalder ha letto le opere di quasi tutti i despoti del mondo, a cominciare da Lenin

La folle impresa dello scrittore scozzese nasce da questo aneddoto e si conclude con il libro “Dictator Literature”, la cui stesura è durata più di dieci anni, durante i quali Kalder ha letto tutte le opere di quasi tutti i dittatori del mondo, a cominciare da Lenin. Dice l’autore che nelle case dei suoi amici russi le librerie sono piene dei polverosi volumi scritti dal padre della Rivoluzione che, secondo lo scrittore, è anche il padre della letteratura dittatoriale, in inglese dic-lit. Lenin leggeva moltissimo e aveva con la letteratura uno strano rapporto: la sezionava. Non leggeva per leggere, leggeva per studiare anche se si trattava di romanzi. Così, dice Kalder, il rivoluzionario è finito per rimanere incastrato tra le pagine di un libro in particolare, “Che fare?” di Nikolai Chernyshevsky. Chernyshevsky nel 1863 aveva composto l’opera in carcere, era un rivoluzionario e Lenin, per le sue azioni, iniziò a prendere ispirazione proprio dai personaggi di “Che fare?”. Amava talmente quell’opera che, quando arrivò il momento della sua rivoluzione, riprese il titolo di Chernyshevsky e così chiamò il tomo in cui esponeva la sua strategia rivoluzionaria. Scrisse anche una grande quantità di opere teoriche, alcune sulla gestione dell’economia russa, teorie agrarie, altri scritti filosofici, lettere al partito, in tutto cinquantacinque titoli.

 

Lenin è il creatore della dic-lit, ma l’autore sottolinea come la sua laboriosità letteraria non nascesse dalle stesse velleità che animavano Stalin o il turkmeno Niyazov: Lenin non intendeva con i suoi libri creare un mito monolitico della sua persona, ma attraverso la scrittura puntava a consolidare il potere. Le sue opere che ancora riempiono le librerie dei russi, tra il cimelio e il ricordo, sono noiose, verbose e ridondanti. Ma la dic-lit russa trova forse un peggior esempio in Stalin, che contribuì a cristallizzare la nozione di regime dittatoriale in canone letterario. Prima ancora di scrivere opere teoriche sulla Russia e la Rivoluzione, e di diventare il segretario del Partito comunista, in georgiano, la sua lingua, aveva composto delle poesie che, a parere di Kalder, non erano male. Stalin, rispetto al suo predecessore, compie però un passo avanti nel genere letterario: lui è la Russia e le sue opere devono essere concepite come espressione di quel paese. Mentre Lenin scriveva per fomentare lo spirito sovietico, per dare una base culturale alla rivoluzione, in un certo senso per nobilitarla, l’intento di Stalin è diverso, dietro non c’è più la volontà di mitizzare la nazione, ma se stesso. E’ Benito Mussolini l’unico al quale Kalder riconosce dei meriti letterari. In fin dei conti era un giornalista e i suoi scritti sono grammaticalmente validi e piacevolmente scorrevoli. Anche il romanzo che Mussolini scrisse nel 1908 “L’amante del cardinale. Claudia Particella”, un feuilleton intriso di macabre pulsioni sessuali, per Kalder non è un’opera da biasimare. Ma per quanto riguarda il dittatore italiano, l’autore sostiene che più che un tiranno era un prepotente, almeno fino alle leggi razziali. Kalder seguendo questa definizione non sa quanto sia giusto inserire Mussolini nella dic-lit.

     

Prima di scrivere opere teoriche sulla Russia e la Rivoluzione, Stalin aveva composto delle poesie che, a parere di Kalder, non erano male

Il peggiore, comunque, è senza dubbio Adolf Hitler, già noto come pessimo pittore. Il suo unico libro, “Mein Kampf”, oltre al contenuto e ai temi, è sciatto, pieno di errori grammaticali, sintattici, lessicali, addirittura ortografici: “Chiaramente ci si rende conto di essere di fronte alle pagine di un autodidatta che sembra non avere nessuna difficoltà a credere anche nella follia più assurda“, scrive Kalder. Il cinese Mao Tse-tung ha prodotto quarantatré libri. Anche lui è stato un poeta, anche se meno valido di Ho Chi Minh, ma è il “Libretto rosso” l’opera più conosciuta, anche per le storie che raccontano la foga con cui veniva stampata. Pare che le tipografie fossero messe a dura prova e intere foreste di conifere siano state immolate. Tutti dovevano possedere il volume, il testo sacro cinese. Il “Libretto rosso” è un’opera poco ispirata, didascalica, tediosa, ma insieme alla Bibbia e al Corano è tra i testi più venduti al mondo. Il dato è importante perché Mao, rispetto ai dittatori citati finora ha dato alla sua opera un valore sacrale, l’ha resa un testo religioso e identitario. In ogni tiranno si annida un terribile scrittore, lascia intendere l’autore. Viene da chiedersi se in ogni terribile scrittore si nasconda un potenziale dittatore: probabilmente sì, suggerisce la lettura di questo libro.

 

Francisco Franco decise di dedicarsi al genere del melodramma. Compose un romanzo dal titolo “Raza”, la storia di una famiglia aristocratica ai tempi della Guerra civile. La trama è semplice, troppo, persino ingenua, a tratti scontata. Due fratelli combattono negli schieramenti opposti e si scatena una lotta fratricida. Non sono stati solamente Mussolini a Franco a concedere le loro penne a opere letterarie, oltre che teoriche. Anche Saddam Hussein si dedicò negli ultimi anni della sua vita alla composizione di favole allegoriche. La più nota si intitola “Zabiba e il re”, e la protagonista è ispirata dalla sua quarta moglie, molto più giovane di lui. L’ultima favola, “Begone, Demone!”, era stata consegnata alle tipografie mentre gli americani arrivavano a Baghdad.

      

C’è un legame narrativo che collega tutti i leader comunisti, sono loro a dominare il canone della dic-lit in quanto a copiosità dell’opera. Tutti, da Lenin a Mao, scrivono per dare insegnamenti, instaurano un rapporto paternalistico con i lettori-compagni-sudditi, i loro libri fanno parte del corredo del buon proletario e la ridondanza è la cifra stilistica. Anche Daniel Kalder nel trattare le opere dei dittatori di destra sembra essere meno preparato, o forse meno ispirato. I tiranni di destra sono più frammentari. Da Hitler, incompetente e ignorante con la sua opera composta prima dell’instaurazione del regime nazista, si passa a Mussolini, colto e abile letterato, fino ad arrivare a Franco con il suo melodramma dall’epilogo poco sorprendente e la prosa quasi elementare. Anche Augusto Pinochet, il dittatore cileno, ha scritto un paio di libri che però Kalder non prende in considerazione, rimane infatti esclusa la maggior parte della letteratura dittatoriale sudamericana, mentre è trattata meglio quella mediorientale: lo scozzese è molto colpito, ad esempio, dalla chiarezza degli argomenti teologici dall’iraniano Khomeini.

     

 

Il “Mein Kampf”: oltre al contenuto, sciatto, pieno di errori sintattici e ortografici. Il “Libretto rosso” didascalico e tedioso

Tra i dittatori c’è chi scriveva per imprimere e stabilire la linea del pensiero dominante, chi invece lo faceva per consegnarsi all’eternità e chi per vanità, serbando davvero delle velleità letterarie alle quali nessuno poteva opporsi. Kalder ammette di aver iniziato la ricerca a titolo personale, senza pensare a un libro dal contenuto pericolosamente metaletterario. Ma durante la lunga stesura, l’autore si è accorto che tutto stava cambiando, il mondo e soprattutto l’Europa stavano entrando in una nuova epoca propensa alla rinascita degli spiriti dittatoriali. I nuovi tiranni in potenza, considera Kalder, non ambiscono a scrivere libri per diffondere le loro idee. Hanno però a loro disposizione strumenti ben più potenti e meno macchinosi da azionare, un Mao di oggi non avrebbe né bisogno di disboscare le foreste di conifere né di mandare in crisi le tipografie della Cina, il suo pensiero potrebbe essere trasmesso con una manciata di caratteri su Twitter, potrebbe arrivare a più persone e sarebbe accessibile alle masse contemporanee che l’autore descrive come avverse alle lettura e facili all’eccitazione, alla rabbia e all’incanto. Questo sistema, il sistema dell’immediatezza, è un bene per la letteratura, la salva dall’arrivo di nuove opere di scarsa qualità, ma più rischioso per la diffusione delle idee.

     

Nel racconto “Nella colonia penaleFranz Kafka descrive una macchina dell’orrore che punisce i trasgressori incidendo sulla loro pelle i loro crimini. L’immagine torna anche nel libro di Kalder che, partendo dalla descrizione della pena kafkiana, cerca di spiegare l’orrore della letteratura dittatoriale. I libri dei dittatori altro non sono che la rappresentazione di un orrore storico, di un tormento. Secondo l’autore non possono essere definiti letteratura in senso stretto. Il monumento del libro di Niyazov è stato inconsapevolmente eretto a sostegno di questa tesi, per dimostrare che l’opera del tiranno non è mai letteratura, è dovere, è dominio, è il tentativo del dittatore di imprimere il proprio pensiero nel tessuto storico del pensiero della nazione. Infine, conclude Kalder, è giusto pensare che ogni scrittore abbia in sé un’inclinazione dittatoriale, solo così può governare i suoi regni di carta. Ma la buona scrittura nasce dall’accettazione della natura del mondo, dallo studio delle sue forze e delle sue tensioni o delle sue fantasie. La letteratura dittatoriale è il contrario. Si basa sulla necessità psicotica di far rispettare la realtà così come il tiranno-scrittore la concepisce. Di piegare il mondo alla propria idea attraverso la scrittura. Ogni bravo scrittore non può che essere un potenziale dittatore, ma ogni dittatore è un pessimo scrittore.

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