(Foto Imagoeconomica)

Miti della vecchia Europa

Stefano Cingolani

Il monaco che inventò il vino, le vedove che gli assicurarono il successo. Una regione in cui il paese preindustriale fa sentire ancora il suo respiro

Dal cielo, così grigio quando è grigio, colano sui tetti d’ardesia perline di vapore acqueo. Le case in pietra riposano silenziose. Non c’è nessuno in strada, nemmeno una luce fioca filtra dalle finestre. Les Riceys, “village de caractère”, come indica la mappa, sembra abbandonato. Per arrivare abbiamo percorso la via dei Templari fin da Troyes, con la sua conturbante cattedrale gotica che irradia l’arcobaleno attraverso i vetri dipinti e domina le case dalle facciate color pastello tra le travi di legno stagionato dai secoli.

 

Abbiamo varcato più volte un fiumiciattolo che, stando ai cartelli, era proprio la grande Senna ancora in fasce. Abbiamo attraversato pianure scabre di sabbie e di argille. E, in una giornata di primo ottobre come te l’aspetti da queste parti, siamo giunti tra le colline che dividono la Borgogna dalla Champagne. La luce è così bassa e opaca che ci si chiede come abbia fatto Renoir, dal suo atelier di Essoyes, pochi chilometri verso est, a trovare tutti quei colori. Cerchiamo un’insegna, una scritta, qualcosa che indichi la cantina da visitare, perché questo è il punto più a sud nel triangolo magico delle bollicine che fanno girar la testa al mondo intero.

 

Ci hanno detto che quaggiù si produce un vino particolare, il rosé des Riceys, “unico e prestigioso”, uno champagne diventato rosa sposando le bucce del pinot nero con il bianco succo dello chardonnay, con un metodo tutto particolare e un po’ segreto come ogni dettaglio che distingue uno spumante dall’altro. Dopo aver girato per le viuzze deserte scorgiamo infine la scritta. Nemmeno qui, però, appare anima viva. Suoniamo il campanello, finché troviamo l’ingresso di un ufficetto dal quale emerge una donna di mezz’età, il volto rubizzo, i capelli color stoppa e un sorriso aperto, spontaneo e campagnolo. Sembra un benvenuto incoraggiante dopo tanto silenzio. Spiega che siamo fuori stagione, i turisti vengono soprattutto d’estate dove è tutto un fiorire di fiere e degustazioni.

 

La luce è così bassa e opaca che ci si chiede come abbia fatto Renoir, dal suo atelier di Essoyes, a trovare tutti quei colori 

Poi ci introduce nella cantina, la mitica cave. Due inglesi nel frattempo hanno parcheggiato la loro 500X rosso fiammante dietro la nostra svedesissima Volvo e scendono anche loro tra botti e bottiglie. Entriamo, così, in un mondo magico e inebriante, nell’universo effervescente della bocca, del naso e del palato, ai quali s’arriva dopo aver disteso bassi vigneti su terre calcaree, fatte di gesso, silicio, marne, dopo aver potato e tagliato vitigni come fossero diamanti, tra grappoli prima accarezzati poi spremuti con cura, macerati e fecondati da lieviti e fermenti che digeriscono lo zucchero per espellere alcool e anidride carbonica. La cantina è un grande ventre o, se volete, un laboratorio chimico, prima di diventare l’antro dei piaceri.

 

Madame ci racconta in dettaglio tutto il complicato processo che dà vita al suo tesoro, ne parla come di un figlio da proteggere, educare, ma anche sfidare affinché trovi la sua via nel mondo; la bottiglia è un bozzolo dal quale esce una crisalide sempre nuova, sempre diversa. Il 2017 è stato freddo, troppe gelate tardive, si prevede che non verrà fuori nulla di veramente buono anche se durante la misteriosa metamorfosi potrebbe accadere sempre qualcosa, come si fa a saperlo, ci vogliono almeno due anni. E’ un rischio non calcolato perché incalcolabile, oltre un certo limite.

 

I vigneron, i vignaioli di queste parti, erano solo gregari, fornitori di pinot noir per le grandi case più a nord, lungo le rive della Marna: Veuve Clicquot, Moët & Chandon, Krug, Mumm, Bollinger, Taittinger, Pommery, Dom Perignon, Piper-Heidsieck. Poi hanno cominciato a difendere il loro territorio, i loro vigneti, a produrre anche per conto proprio. E hanno tirato fuori perle locali che spesso hanno poco da invidiare a quelle più rinomate. E’ una produzione minore, ma non inferiore di qualità, è uno champagne diverso, più vino, più appartato, meno eclatante. Gli aggettivi si sprecano e ogni produttore fa a gara per applicarne di nuovi, nel tentativo di descrivere l’indescrivibile leggerezza della sua creazione.

La bottiglia è un bozzolo dal quale esce una crisalide sempre diversa. Il 2017 è stato freddo, forse non verrà fuori nulla di veramente buono

 

L’emancipazione dell’Aube, il dipartimento meridionale, è avvenuta anche grazie all’Unione europea. Perché i piccoli viticoltori della Côte des Bar mai sarebbero stati in grado di crescere senza incentivi. Kym Anderson della School of Economics dell’Università di Adelaide e Hans G. Jensen dell’Institute of Food and Resource Economics dell’Università di Copenaghen hanno stimato una media di aiuti europei pari a 700 euro per ettaro e 15 centesimi a litro di vino che coprono circa il 20 per cento dei costi. In tutto sono 2,340 miliardi l’anno e la Francia da sola riceve un circa un terzo del totale (830 milioni di euro), l’Italia poco più di un quinto e la Spagna un sesto, mentre tutti gli altri paesi sono sotto i cento milioni.

 

Eppure nel triangolo d’oro dello champagne ce l’hanno con Bruxelles. Non perché siano emarginati o poveri (i 15.800 vigneron producono qualcosa come 4,9 miliardi di euro l’anno, metà dei quali grazie all’export, innanzitutto Gran Bretagna e Stati Uniti). Ogni spiegazione economicistica si scontra con la realtà e con il buon senso, ogni nazionalismo fa a pugni con la storia di una regione che è un po’ celta, un po’ fiamminga e molto germanica. Quando nel 1429 Giovanna d’Arco fece irruzione a Reims portando con sé Carlo VII per essere incoronato nella cattedrale che leva al cielo i suoi pinnacoli, là dove tutti i re di Francia con rarissime eccezioni dal 987 in poi hanno ricevuto le insegne del potere e l’olio sacro del carisma, venne catturata dai borgognoni che oggi sono francesi a tutti gli effetti, anche se allora il ducato di Borgogna, tra Digione e Bruxelles, era alleato degli inglesi contro la Francia. I conti e i duchi di Champagne, eredi di Carlo Magno, del resto, erano anch’essi orgogliosi della loro autonomia. Quando le bollicine frizzavano solo a corte o sulle tavole dei gran borghesi per celebrare battesimi e matrimoni, lo champagne non era così diffuso né la Champagne così ricca come adesso che riceve i sostegni della Ue.

  

I vigneron, i vignaioli di queste parti, erano solo gregari, fornitori di pinot noir per le grandi case più a nord, lungo le rive della Marna 

Le preferenze politiche vanno per la stragrande maggioranza a destra. Alle elezioni presidenziali i voti hanno oscillato tra François Fillon e Marine Le Pen. Il gollismo è solidamente radicato, al di là delle fortune (o meglio sfortune) del partito che ne ha preso il testimone. Il generale de Gaulle è sepolto non molto lontano, nell’Alta Marna, in quella Colombey-les-Deux-Églises dove aveva acquistato una proprietà fin dal 1934, prima di trasformarla in residenza ed esilio dopo il 1946.

 

Il Front national ha guadagnato consensi, anche se di migranti se ne vedono pochi in questa Francia bianca e gallica. Uno dei più famosi figli di immigrati è Abert Uderzo, di origini italiane, ma ha fatto ammenda denigrando Giulio Cesare e inventandosi Asterix. Emmanuel Macron è in discesa forse meno che nella media nazionale, anche perché non era mai arrivato alle stesse altezze.

 

Nella settimana del nostro viaggio, è esploso il caso Collomb. La tv inondava di notizie sulle dimissioni del ministro degli Interni, già eminente socialista e sindaco di Lione che era stato un vero e proprio mentore per il presidente. Un colpo duro a Macron la cui popolarità scende al 30 per cento, una fonte di tensioni nel governo dove il primo ministro Édouard Charles Philippe, ex sindaco di Le Havre e gollista moderato, alza la testa e vuole imporsi come il prossimo uomo forte. Proprio le rivalità interne hanno spinto Gérard Collomb, il vecchio elefante del Ps, a mollare la nave nella tempesta per tornare nella sua città e magari sostenere le ambizioni della figlia Caroline anche se, scrive Libération, è assolutamente “detestata”. Intrighi che in Italia alimenterebbero pagine e pagine di giornali mentre quassù si consumano in qualche battuta davanti a un bicchiere di vino. La tv parla anche della travagliata cugina d’oltralpe, con toni sinceramente preoccupati.

I piccoli viticoltori della Côte des Bar mai sarebbero stati in grado di crescere senza incentivi. Una media di aiuti pari a 700 euro per ettaro

 

Nessuna rivalsa o condanna come scrivono spesso i giornaloni italiani. Les Echos, il principale quotidiano economico che appartiene alla Lvmh di Bernard Arnault, ha sparato l’allarme in prima pagina e l’autore dell’articolo, Etienne Lefebvre, durante un dibattito televisivo si chiede con autentica sorpresa come mai l’Italia sia il solo paese a non aver recuperato il prodotto lordo distrutto dalla lunga recessione. “E’ un mistero, un vero mistero”, conclude. Anche questo, mentre le Borse ballano a Parigi, a Milano, a Francoforte, è attutito come tutto qui, ammorbidito dal tempo, dal silenzio della campagna e… dalle bollicine.

 

Le botti di vino nella cantina CA 'VIT


Non si capisce la Francia se non si viene da queste parti. Nelle colline di Bordeaux è diverso, l’Aquitania o l’Occitania hanno il sapore romano e i lunghi tramonti sul mare, sotto queste nubi ci sono i galli sénoni (una grande mostra a Troyes si chiude il 29 di questo mese) e i franchi di Clovis. La Francia non è Parigi né i castelli del re Sole, non è la Bastiglia né Napoleone. Non solo. E’ il medioevo, è la religiosità, è la “fille aînée de l'Église”, come la battezzò Papa Gregorio Magno, è l’attaccamento al terroir. Le cattedrali sono le icone magnifiche di questo mondo cantato da Chrétien de Troyes il quale, alla corte di Maria di Champagne (figlia di Eleonora d’Aquitania, regina prima di Francia e poi d’Inghilterra, oltre che sorellastra di Riccardo Cuor di Leone) nella seconda metà del XII secolo cristianizza fino in fondo la leggenda celtico-britannica di Artù, la innalza con il sacro Graal mentre codifica con Lancillotto il paradigma cavalleresco che dominerà per mezzo millennio, finché non cadrà l’aristocrazia e s’affermerà il modello borghese.

 

Il castello di Étoges, dove trascorriamo gli ultimi tre giorni, condensa le fasi alterne e contrastate della storia di Francia. Negli anni Novanta la erede dell’ultima famiglia di proprietari, industriali della zona, lo ha trasformato in un hotel de charme, un albergo con ristorante gastronomico e una spa in mezzo a uno splendido parco. Ancora si racconta di come Luigi XIV abbia apprezzato la cena che gli era stata offerta dal conte Marc Antoine Saladin d’Anglure discendente di quel François d’Anglure che combatté come luogotenente di Francesco I contro l’imperatore Carlo V.

Quando le bollicine frizzavano solo a corte o sulle tavole dei gran borghesi, la Champagne così ricca come adesso che riceve i sostegni Ue

 

Ne prese nota anche il Mercure Galant sperticandosi in elogi delle stanze e della galleria dipinta da Jean Hélart prossimo del poeta Jean de La Fontaine originario di Chateau-Thierry pochi chilometri a occidente. Il castello era più o meno come lo si può vedere ora, ma era sorto ai tempi di Maria di Champagne come fortezza a guardia della stazione di posta sulla strada che portava a Strasburgo. Il parco invece è una creazione post-napoleonica: lo edificò in stile inglese Charles Louis Guéhéneuc, aiutante di campo dell’imperatore, che si rifugiò qui dopo la caduta di Bonaparte per gettarsi poi in politica e finire pari di Francia sotto Luigi Filippo d’Orléans, prima di morire nel 1840. Cambiare casacca a quei tempi era una necessità, ma anche una virtù.

 

Grande storia, dunque, radicata nella grande campagna di un paese che doveva la sua potenza all’esercito, alla finanza, ma soprattutto alle enormi ricchezze della proprietà terriera, quella Francia preindustriale e precapitalistica che qui fa sentire ancora il suo respiro. Un po’ più a nord est, nella pianura attraversata dalla Marna che formava vaste paludi, il rumore del tempo si confonde con quello dei cannoni. Di lì passavano le trincee francesi e quelle tedesche, lì scorreva il sangue che dal 1914 al 1918 ha irrorato le sabbie e le argille. Ce n’è memoria ovunque, nei villaggi come nelle città. E il ricordo si fa indelebile a Reims.

 

La città dei Remi chiamata dai romani Durocortorum, la capitale della Gallia Belgica, il luogo sacro dove nel 489 il re franco Clodoveo venne battezzato da san Remigio, è stata rasa al suolo dalle ogive guglielmine. Distrutte molte delle sue magnifiche chiese e profondamente danneggiata anche la cattedrale innalzata a gloria di Dio a partire dal XIII secolo, vero capolavoro dell’arte e della cultura gotica. Le foto dello scempio sono esposte lungo le navate, sotto le vetrate colorate, per lo più rifatte e affidate anche ad artisti moderni. Meravigliosa quella di Marc Chagall, con una crocifissione intensa e ispirata come sapeva fare il grande pittore ebreo della Russia Bianca. La ricostruzione ha segnato buona parte del secolo scorso, interrotta dal secondo conflitto mondiale e dalle bombe, questa volta degli alleati anglo-americani.

Il Bello gallico scoppiato per colpa del vino: il Senato mandò Cesare a mettere ordine nei traffici illeciti tra mercanti romani e tribù locali

 

E Reims, il simbolo della regale potenza francese, è diventata testimone della riconciliazione. Qui si sono incontrati l’8 luglio 1962 Charles de Gaulle e Konrad Adenauer mentre l’arcivescovo Marty celebrava la messa per la pace. Erano i tempi del trattato che getterà le fondamenta dell’alleanza che, con alti e molti bassi, dura ancor oggi; era il momento di celebrare con elevata retorica la battaglia dei campi Catalaunici, nei pressi dell’attuale Châlons-en-Champagne che nel 451 fermò Attila grazie alla coalizione “europea” tra franchi, visigoti, burgundi, guidata dal generale romano Ezio. Comunque la si prenda, dal lato della religione come della storia, della economia o del tempo libero, non c’è dubbio che la Champagne sia un luogo mitico della vecchia Europa.

 

Étoges, con appena 260 anime, è a 25 chilometri da Epernay, cittadina di 25 mila abitanti poco a sud di Reims. Siamo sul secondo lato del triangolo dello champagne, la Côte des Blancs dove domina lo chardonnay che genera il blanc des blancs, qui troviamo le grandi case come Moët & Chandon che fa capo al colosso del lusso, la Lvmh del famelico Arnault, che alla Borsa di Parigi vale 156 miliardi di euro, più di Danone, Renault, Peugeot e Michelin messi insieme. Nella regal città hanno il loro quartier generale le multinazionali delle bollicine che mescolano i tre cru tradizionali (pinot noir, pinot meunier e chardonnay), aggiungendo i loro segreti, più protetti della formula magica della Coca-Cola. C’è Ruinart, la più antica maison, fondata nel 1729 da Nicolas, commerciante in drapperie; c’è Veuve Clicquot, che risale a Philippe Cliquot, banchiere che nel 1772 apre un négoce de vin dove vende il nettare dei suoi vigneti.

Il Front national di Marine Le Pen ha guadagnato consensi, anche se di migranti se ne vedono pochi in questa regione bianca e gallica

 

Sarà la giovane vedova Barbe Nicole Ponsardin a prendere le redini per buttarsi nel gran mare del mercato europeo e innovare introducendo il primo spumante millesimato. Un’altra vedova è artefice del successo della casa Pommery che nasce nel 1858 da Alexandre, un commerciante di lana e decolla nel vino grazie alla moglie Louise. Sono les Grandes Dames dello champagne, un vino più degli altri segnato dal tocco femminile. E’ un segno distintivo, secondo Isabelle Richardot che insieme a Cécile e a Jean Paul ha trasformato una piccola azienda fornitrice di Loches-sur-Ource in un marchio che occupa una posizione di prestigio tra gli champagne della Côte de Bar. “Eleganza, raffinatezza, femminilità” sono le tre caratteristiche del suo vino che tra i vari premi e riconoscimenti ha ricevuto quello assegnato da una giuria tutta femminile chiamato Féminalise de Beaune. E’ lo spirito del tempo, il soffio che spira al termine di un lungo percorso.

 

Gilbert Garrier nella sua “Storia sociale e culturale del vino” sostiene che il Bello gallico sia scoppiato per colpa del vino: il Senato mandò Giulio Cesare al di là delle Alpi per mettere ordine nei traffici illeciti tra mercanti romani e tribù locali (e mal gliene incolse). Una volta crollato l’impero romano, viti e botti vengono protette da monaci, abati e vescovi con la stessa cura dedicata ai manoscritti dei classici, per sottrarle alle razzie di vichinghi e barbari di ogni genere. La rinascita dell’anno Mille apre le cantine e il divin nettare scorre copioso dagli altari alle corti nobiliari. Il Medioevo vede l’egemonia del bourgogne, “il miglior vino di tutta la cristianità”, ma con i Plantageneti duchi di Aquitania e re di Francia, emerge Bordeaux, nella quale risiedeva Riccardo Cuor di Leone. Da allora fino ai tempi moderni gli inglesi si sentiranno sempre i veri signori di quel bordolese chiamato claret (molto diverso dal rosso che conosciamo oggi).

A Reims, simbolo della regale potenza francese, hanno il loro quartier generale le multinazionali dello champagne

 

Lo champagne arriva più tardi, quasi per caso, quando la piccola glaciazione che dalla fine del XV dura fino al XX secolo, fa gelare d’inverno il vino che poi fermenta una seconda volta a primavera. Nel 1668 un monaco di 29 anni nelle cantine dell’abbazia di Hautvilliers trova il modo di domare la maturazione, ridurre le bollicine, intrappolarle in un vetro robusto e regolarne la fermentazione. E Dom Perignon inventa quel che beviamo ancor oggi. O quasi. Perché ci vorranno lo zucchero, la rotazione delle bottiglie, tecniche più sofisticate che intrappolano le molecole; ci vorrà la scienza moderna per produrre un vero champagne in quella Francia che sarebbe piaciuta a Virgilio, con il suo cordone che la lega al passato senza farle perdere il presente, la regione con le strade tranquille e i tempi lunghi.

 

Ci lasciamo alle spalle questa immagine che presto s’infrange nel brulichio dell’Île-de-France: la frenesia delle autostrade che s’intrecciano a mano a mano che ci si avvicina a Parigi, i sorpassi azzardati, i limiti violati, l’aggressività piccolo borghese e sottoproletaria; 12 mila chilometri quadrati e 12 milioni di abitanti, oltre un terzo immigrati di prima o seconda generazione che sale quasi alla metà nella fascia d’età inferiore ai 18 anni. Quale delle due è la Francia? Chi lo sa, ma forse tra la Francia “proibita” e quella “perduta” c’è un percorso che noi non conosciamo e che sa resistere al tempo.

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