Come i poeti sapevano trasformare fango e scarti in oro

Marina Valensise

Dai vagabondi del paesaggio urbano alla sublime trasfigurazione dell’arte Dai “Miserabili” e da Dickens e Zola fino ai “Fiori del male” di Baudelaire

Tutti questi mucchi di rifiuti che invadono le strade di Roma, abbandonati come viene viene. L’immondizia fuori controllo simbolo del governo di un’incapace… Chi vi dice che sia una disgrazia? Alt ai cinici della politica, però. Largo ai poeti, ai mistici, agli artisti. Vi immaginate quale manna sarebbe stata l’immondizia romana per il vecchio straccivendolo, che vaga come un ambulante per la città, in mano una lanterna e in spalla una cesta di vimini dove infilare l’insperato bottino. Armeggia col suo uncino a forma di sette nei sacchetti di plastica e dentro i cassonetti per scovare come un rabdomante il fango da trasformare in oro. Quale sorpresa, quale fortuna estrarre dal mucchio un anello prezioso precipitato per sbaglio nella spazzatura, o una forchetta d’argento scivolata dal piatto unto insieme ai resti del tacchino, o una saliera di Vermeil o un vaso di Baccarat lievemente sbeccato. Così il cenciaiolo diventa per un attimo il re della strada. Immaginate la potenza allegorica dello straccione alcolizzato, del barbone che vaga di notte abbandonato a se stesso e con un gesto vede il suo uncino trasformarsi in scettro e il suo berretto in una corona.

   

Parigi restituisce al pattume la sua storia e la sua mitologia culturale. Il professore del Collège de France parte da un libro italiano

Se il cenciaiolo è il re, il rovesciamento è completo: l’immondizia anziché essere il flagello di un’amministrazione inetta è la risorsa inestimabile messa a disposizione del povero in canna, che però è anche un filosofo, un peripatetico, un novello Diogene, spirito libero, ricco di iniziativa, in grado di estrarre un tesoro dal pattume, di valorizzare l’immondo, per restituire al nulla un’altra vita. Ribadisco però: alt ai cinici, ai difensori dell’insipienza di Virginia Raggi. E largo ai sognatori, agli eruditi, a quegli straccivendoli onorari che sono i poeti, gli scrittori, i cultori di letteratura e i professori del Collège de France anticonformisti come Antoine Compagnon. Studioso di Proust e di Montaigne, specialista di reazionari politicamente corretti ante litteram (Gli antimoderni, saggio tradotto ora da Neri Pozza, pp. 512, euro 28, di cui i lettori del Foglio ebbero un’anteprima nel 2005), Compagnon è fresco autore di un saggio per lettori intelligenti (Les Chiffonniers de Paris, pubblicato da Gallimard, pp. 496, euro 32, con tante di quelle illustrazioni, tutte magnifiche e introvabili da renderlo una pietra miliare). Così mentre Roma è immersa nei rifiuti pentastellati, Parigi restituisce all’immondizia la sua storia e la sua mitologia culturale. Solo in Francia, infatti, dove la cultura non è un optional per nuovi ricchi in cerca di gratificazioni, ma l’essenza stessa di una tradizione civile e nazionale, si possono dedicare anni a un tema simile, dirigendo un’inchiesta a tappeto, saltellando dall’igiene urbana all’amministrazione prefettizia, dall’industrializzazione alla sociologia dei mestieri più umili, sino a spiegare i segreti di fabbricazione della carta, fondata sul riuso di pezze e stoffe fino quando non si scoprirono a fine Ottocento i derivati dal legno e l’uso della cellulosa. Solo a Parigi, dunque, è possibile studiare a fondo una figura come quella dello straccivendolo, onnipresente nella vita urbana dell’Ottocento, tenendo corsi aperti al pubblico sul suo mito sociale, sulla sua dimensione allegorica e culturale, senza passare per disturbati mentali o peggio per parassiti profittatori del danaro pubblico.

   

Ma non buttiamoci giù. Anche noi abbiamo un motivo di orgoglio. Compagnon, che peraltro è un ingegnere diplomato al Politecnico convertitosi sul tardi alla letteratura grazie all’amicizia di Roland Barthes, è partito proprio dall’Italia per darsi alla perlustrazione dell’orrido mondo fangoso dei cenciaioli parigini. In particolare, ha preso le mosse da un libro, Gli oggetti desueti nell’immaginazione letteraria, opera del compianto francesista Federico Orlando, maestro di varie generazioni di studiosi, oltreché allievo a suo tempo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che a lui e a Gioacchino Lanza riservò per anni le sue lezioni private di letteratura (le trovate tutte nel Meridiano Mondadori). Compagnon giudica il saggio di Orlando “ magistrale”. Lo definisce “un’immensa inchiesta sull’insieme della letteratura occidentale”, centrata sulle Fleurs du Mal di Baudelaire. Quando gli oggetti perdono la loro funzione originaria – questa la tesi di Orlando – si trasformano in reliquie in grado di suscitare nostalgia, come succede nello “Spleen” di Baudelaire dove, per prima volta nella storia della poesia, i così detti oggetti desueti compongono un microcosmo dalla fortissima portata simbolica. (“Un gros meuble à tiroirs encombré de bilans, / De vers, de billets doux, de procès, de romances,/ Avec de lourds cheveux roulés dans des quittances, / Cache moins de secrets que mon triste cerveau.). Insomma, tutto il rimosso del mondo moderno rientra a pieno titolo nella letteratura, che ha il compito di mantenere viva la memoria di oggetti altrimenti condannati all’obsolescenza dall’impetuosa corsa del progresso.

   

Un'inchiesta a tappeto, dalla igiene urbana all'amministrazione prefettizia, dall'industrializzazione alla sociologia dei mestieri più umili

Tesi poetica e alquanto suggestiva che però viene confutata da Compagnon. L’obsolescenza degli oggetti, osserva infatti il francese, è un’esclusiva dell’epoca nostra. Appartiene all’industria e all’economia contemporanee, che si nutrono della distruzione creatrice come ha spiegato Schumpeter, ma non fa parte dell’epoca di Baudelaire. Allora, infatti, ogni cosa – oggetti, utensili, scarti, rifiuti – non finiva mai di fare il suo tempo, perché c’era l’abitudine di non gettare via mai niente, e tutto veniva considerato riciclabile, prestandosi di fatto a un recupero infinito.

   

Orlando, dunque, secondo Compagnon ha ragione di insistere sulla malinconia nella poesia di Baudelaire, la famosa “poetica della malinconia”, marchio di fabbrica del grande Giovanni Macchia. Ha ragione di mettere l’opera di Baudelaire in relazione con gli oggetti abbandonati, ma questo aspetto in realtà non permette di spiegare il riuso delle cose che avviene nelle Fleurs du Mal e all’epoca dello “Spleen de Paris”. Il fatto è che il termine “desueto” non esiste all’epoca di Baudelaire (1821-1867). Preso in prestito dal latino desuetus, participio passato di desuescere, disabituarsi, apparve solo alla fine dell’Ottocento, trent’anni dopo la morte del poeta. Durante la Monarchia di Luglio e il Secondo Impero, e cioè tra il 1830 e il 1870, certo esisteva la desuetudine di leggi, culti, istituzioni, ma non l’aggettivo riferito a un oggetto. E se Baudelaire avesse voluto disfarsi di quei versi, dei bilanci, dei biglietti d’amore, dei processi, delle romanze trovati in uno dei cassetti della sua mansarda, avrebbe potuto facilmente deporli sotto casa all’angolo del paracarro, dove di solito veniva ammucchiata l’immondizia. E le sue scartoffie sarebbero state subito prelevate da un avido straccivendolo, pronto a rivendersele immediatamente a un rigattiere che le avrebbe a sua volta riciclate come carta o cartone, seguendo il ciclo di produzione industriale del tempo, mentre le pesanti ciocche di capelli sarebbero finite in mano a un fabbricante di parrucche, e il flacone scheggiato in quelle di un vetraio. Ogni cosa all’epoca era destinata a una seconda vita e doveva assolvere a nuova funzione, persino i cadaveri, dalle cui ossa si estraeva il fosforo con cui fabbricare la punta dei fiammiferi, e le carogne di animali, la cui pelle finiva nelle stole e nei manicotti che le dame del bel mondo indossavano per ripararsi dal freddo.

   

“Tu m’as donné ta boue et j’en ai fait de l’or” scriverà il poeta. E l’aspetto interessante è il nesso che accomuna lo straccivendolo, questo moderno re Mida in grado di trasformare il letame in concime, al poeta che lavorando anche lui sugli scarti, le miserie umane, le passioni più bieche, riesce a trasfigurarle in un’opera d’arte. Il merito di aver sottolineato questo nesso, nel caso in Baudelaire, spetta al tedesco Walter Benjamin, saggista molto baudelairiano e pieno di umanità, il quale però secondo Compagnon ebbe anche il torto di insistere su un aspetto sbagliato. E così arriviamo al secondo grimaldello di cui il professore del Collège de France si serve per riformulare un’ interpretazione della poesia di Baudelaire.

  

Benjamin insiste nell’identificazione tra il poeta e lo straccivendolo, sino a fare di quest’ultimo un alter ego di Baudelaire, anzi addirittura la sua proiezione politica, che in nome della fratellanza rivoluzionaria, dovrebbe sottrarre il poeta all’apparente suo disimpegno politico, riscattandolo dalla sua professione di fede reazionaria per dimostrare invece la sua fedeltà agli ideali socialisti dopo il 1851, anno del colpo di stato autoritario di Luigi Napoleone Bonaparte che mise fine alla Seconda Repubblica. E’ vero che nelle pagine autobiografiche di Mon coeur mis à nu, Baudelaire confessava “De Maistre et Edgar Poe m’ont appris à raisonner”, accreditando in pieno la posa dello scritture antimoderno patito di controrivoluzione. Ma la tesi di Benjamin non convince Compagnon per altri due motivi. Intanto perché non corrisponde alla realtà della storia. E poi perché Benjamin, per quanto ossessionato da Baudelaire progressista, non entra affatto, come avrebbe invece dovuto, nell’analisi dettagliata dell’opera di Baudelaire per quanto attiene lo chiffonnage.

   

Ecco allora che Compagnon, mettendosi anche lui ad armeggiare come uno straccivendolo dentro i materiali di scarto dei saggi di Orlando e di Benjamin, riesce a estrarne alcune perle che gli consentono di accumulare un piccolo tesoro. In questo modo, facendo quasi finta di niente, finisce per rifondare l’ermeneutica delle Fleurs du Mal attraverso una strepitosa rilettura di poesie criptiche e famose come “Le vin des chiffonniers” o “Le Soleil”. E in più offre finalmente l’unica interpretazione plausibile di poemi altrimenti inafferrabili come “Le Cygne”, “Les Sept Veillards” e “Les Petites Vieilles”. Tant’è che il lettore, arrivato a questo punto, è tentato di ricominciare a rileggere tutto il libro da capo a cominciare dal capitolo X.

  

Nello "Spleen" di Baudelaire per la prima volta gli oggetti "desueti" compongono un microcosmo di fortissima portata simbolica

Il fatto è che politicamente parlando i circa 6.000 straccivendoli operanti a Parigi tra il 1820 e il 1870, lungi dal rappresentare un Lumpenproletariat urbano, una massa di sfruttati derelitti reduci dalle barricate del 1848 e pronti alla rivoluzione in nome del socialismo, come pensava Benjamin, erano molto spesso dei reduci, dei soldati della vecchia guardia, o dei collaboratori di giustizia, che costituivano un vivaio di informatori per la polizia parigina. Inoltre, da un punto di vista sociale, gli chiffonniers parigini costituivano una compagine variegata che comprendeva sia la semplice manovalanza di addetti alla pulizia urbana, in anni in cui quest’ultima si reggeva su un sistema in larga parte spontaneo, sia un certo numero di microimprenditori allo stato embrionale che coordinavano la pesca tra i rifiuti, e di piccoli commercianti protocapitalisti che dalla rivendita degli scarti per uso industriale traevano cospicui profitti. E poi a dar torto a Benjamin c’è la cronologia. Il critico tedesco insisteva sull’importanza di un poema come “Le vin des chiffonniers”, ma ignorava l’esistenza di una versione del 1843 di questo stesso poema, ritrovata nelle carte del disegnatore Daumier, e di ben 14 anni anteriore all’edizione originale delle Fleurs du Mal uscita nel 1857. Impossibile, quindi, suffragare la fedeltà socialista di Baudelaire dopo il 1851, sulla base di un poema come questo che mette in scena un cenciaiolo sullo sfondo di certi oscuri quartieri tortuosi, il quartiere di Saint-Marcel alla fine della rue Mouffetard, mentre torna a casa di notte vagando sotto una tormenta di vento, incespicando coi piedi nel selciato e sbattendo contro i muri come se fosse ubriaco:

  

Au fond de ces quartiers sombres et tortueux,

Où vivent par milliers des ménages frileux,

Parfois, à la clarté sombre des réverbères,

Que le vent de la nuit tourmente dans leurs verres,

On voi un chiffonnier qui revient de travers,

Se cognant, se heurtant comme un faiseur de Vers,

Et libre, sans souci des patrouilles funèbres,

Seul épanche son âme au milieu des tènèbres.

   

E poi c’è “Le Soleil”, un’altra poesia della stessa raccolta delle Fleurs du Mal, dove stavolta Baudelaire al posto dello chiffonnier mette direttamente in scena il poeta, facendolo passeggiare nel vecchio quartiere ma non di notte, o fra il chiarore oscuro dei riverberi, bensì in pieno giorno, sotto i raggi del sole crudele. E come lo straccivendolo che urta e sbatte nel suo vagare notturno, il poeta si cimenta con la sua “fantasque escrime”, la fantastica scherma, inseguendo in ogni dove gli azzardi della rima, inciampando sulle parole come se fossero le pietre del selciato, e urtando a volte i versi sognati da tempo, proprio come succede al cenciaiolo che va a caccia di rifiuti col suo ferro uncinato:

  

Le long du vieux faubourg, où pendent aux masures

Les persiennes, abri des secrètes luxures,

Quand le soleil cruel frappe à traits redoublés

Sur la ville et le champs, sur les toits et les blés,

Je vais m’exercer seul à ma fantasque escrime,

Flairant dans tous les coins les hasards de la rime,

Trébuchant sur les mots comme sur les pavés,

Heurtant parfois des vers depuis long-temps rêvés.

   

Non solo versi, però. Oltre la poesia, Compagnon in effetti restituisce, mappe alla mano, l’intera cartografia di Parigi con le famose bornes du coin, i paracarri agli angoli delle strade, dove venivano ammassati i rifiuti; riesuma le esalazioni soffocanti di letame, il fango solido e insolubile detto in gergo la bourbe, il selciato convesso per far defluire pioggia, fango e escrementi gettati direttamente dalle finestre, come si vede dalle molte signorine affacciate con i pitali in mano che compaiono nelle illustrazioni dell’epoca. E non dimentichiamo poi l’asse con le ruote, per evitare ai parigini chic di inzaccherarsi calze e scarpine nell’attraversare le strade. Carte alla mano, l’ingegner Compagnon fornisce in dettaglio i prezzi di vendita al chilo dei vari materiali di scarto, ferro, faenza, vetro, ottone, carta, stracci, canapa, cotone. Sulla scorta delle ordinanze di polizia, ricostruisce l’evoluzione della voirie, l’insieme delle strade pubbliche e della loro amministrazione, informandoci anche su orari e divieti coi turni quotidiani della raccolta e i nuovi dispositivi entrati in vigore dopo l’epidemia di colera del 1832, che scatenò la rivolta corporativa degli chiffonniers mal in arnese. Sulla scorta dei rapporti dell’amministrazione municipale, Compagnon ci fa entrare nei mattatoi parigini, come quello di Montfaucon, cloaca massima ai piedi della Butte Chaumont, coi suoi effluvi pestilenziali, le scene dantesche, la minuta umanità di squartatori, macellatori, riciclatori. Poi, seguendo passo passo la topografia della miseria nella Parigi ottocentesca, ci accompagna dentro le taverne di periferia, il teatro della desolazione messo in scena da Baudelaire in “Le vin des chiffoniers”, dove i cenciaioli approdano la sera a far bisbocce, e passano la notte a ubriacarsi in attesa di ricominciare, all’alba, la loro pesca quotidiana.

  

La cosa straordinaria è che tutta questa messe di informazioni, nel libro di Compagnon, diventa la materia viva di una narrazione avvincente, la trama di un epos quotidiano e senza fine, dove ogni dettaglio, ogni particolare, quand’anche triviale, osceno, schifoso corrisponde a una sua funzione d’insieme. E l’insieme è un affresco completo di quelle che furono le autentiche risorse, ormai senza più segreti, della grande letteratura dell’Ottocento. Leggendo e rileggendo Victor Hugo, che nei Miserabili descrive il vagabondare degli chiffonniers, ma anche il nuovo sistema fognario di Parigi, leggendo Dickens, stupito di veder deambulare a Parigi tanti straccivendoli cenciosi, leggendo i versi di Rimbaud, le novelle di Théophile Gautier, i feuilleton di Eugène Sue e di Emile Zola, riesumando drammi dimenticati come quello di Alphonse Signol, o melodrammi famosi come quello di Félix Pyat, che nel 1847 sconvolse a Londra la regina Vittoria, oppure gli scritti di un amico di Baudelaire come Privat d’Anglemont, e soprattutto leggendo e rileggendo e decifrando i versi delle Fleurs du Mal, Compagnon offre un’ultima dimostrazione della sublime forza di trasfigurazione dell’arte, in grado di convertire il fango in oro. Come lo straccivendolo, anche il poeta, lo scrittore, il romanziere, il giornalista si nutrono di fango, di letame, di escrementi umani, di miserie, di abiezioni e di scarti. Ma solo l’artista riesce a convertirlo in qualcos’altro, in qualcosa di sublime e originale. Tutt’è saperlo, esserne consapevole, come lo era Anna Achmatova di cui Compagnon cita in exergo due versi bellissimi (“Se voi sapeste di quali scarti si nutre / e cresce la poesia, senza la minima vergogna”) e come lo fu Baudelaire, che attinse a piene mani al repertorio più immondo del suo tempo, fatto di pantomime, illustrazioni, caricature oscene, per ricreare la poetica della malinconia, trasfigurando nell’arte la miseria umana. Anche lui, certo, era uno chiffonnier: anche lui, il poeta dei tempi moderni, aveva visto cadere la sua aureola dentro una pozzanghera. Ed è per questo che in una delle sue poesie più misteriose s’inchina come un ultimo allievo devoto di fronte allo straccivendolo e al mito suo ineffabile della “fanstasque escrime”, incalzando come un tiratore di scherma le parole così come l’altro infilza col suo uncino a forma di sette il mucchio di rifiuti, facendo incetta anche di cose vecchie e di tesori buttati via, e divertendosi a confondere i suoi lettori giocando sul doppio senso del rebus e del rebuts, dell’indovinello e del rifiuto. Perché anche lui, Baudelaire, come lo straccivendolo cencioso, sa di poter regnare almeno un giorno come un re di Carnevale, pieno però di umanità e di compassione, sulle miserie della modernità.

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