Il Museo nazionale di Capodimonte

Sylvain Bellenger ci spiega come si fa ad avere un Louvre anche in Italia

Francesco Maselli

Il direttore di Capodimonte e la nuova politica culturale

Napoli. E’ uno dei musei più ricchi del mondo, una delle regge più antiche e curate, costruita dai Borbone nel 1738 e poi utilizzata dai sovrani che hanno governato Napoli: i Bonaparte, i Murat e i Savoia. Dal 1957 la reggia di Capodimonte è un museo, diventata una delle strutture di importanza nazionale affidate ai direttori – anche internazionali – scelti tramite concorso in base alla riforma del ministro Franceschini. Il direttore di Capodimonte è Sylvain Bellenger, francese, laureato in Filosofia e poi specializzato in Storia dell’arte; prima di arrivare a Napoli era stato direttore dell’Art Institute di Chicago e curatore capo all’Institut National d’Histoire de l’Art, in Francia.

  

Dopo due anni, Bellenger si dice molto contento: “Mai ho trovato una vicinanza simile da parte degli abitanti del quartiere dove sorge il museo che dirigo. E’ una delle cose che fa quasi dimenticare i tanti problemi da affrontare”, dice al Foglio. Le cattive abitudini, nel museo e nell’ambiente circostante, sono molto radicate: “La manutenzione non esiste, ed è un limite enorme del sistema italiano. Qui si fa il restauro e poi si abbandona, come se fosse sufficiente. Vale per Capodimonte, ma non soltanto. Una città come Napoli è l’esempio vivente di questo problema: il degrado chiama degrado, e il risultato è una continua caduta verso il basso. Il cambiamento culturale non richiede sforzi sovrumani: basta occuparsi di quanto possediamo”. Ci assicura che non intende fare polemica, ma quando gli chiediamo se il comune di Napoli e il suo sindaco collaborano alla politica culturale della città, risponde: “Il museo è statale, quindi non è di competenza del comune. Che in ogni caso ha molto altro a cui pensare”.

 

Secondo Bellenger, quando i cittadini percepiscono che i luoghi di cultura sono curati e non abbandonati a se stessi cambiano radicalmente il loro comportamento: “La reggia possiede un bosco molto ampio, che fino al mio arrivo era abbandonato. Lo abbiamo messo in ordine, ora si percepisce un controllo, e i cittadini non buttano più a terra le sigarette e le carte, comprendono che quel luogo è anche di loro proprietà”. Sembrano parole banali, scontate, ma è ciò che ha permesso al museo di guadagnare visitatori (+33 per cento nel 2016). La creatività del suo direttore ha aiutato. Dal 12 dicembre Capodimonte ospita “Carta Bianca”, una mostra particolare e unica al mondo. La direzione del museo ha affidato a dieci personalità, definite “visitatori ideali”, tra i quali Vittorio Sgarbi, Riccardo Muti e Francesco Vezzoli, il compito di scegliere liberamente da un minimo di una a un massimo di dieci opere tra le oltre 47 mila disponibili nel patrimonio del museo, per allestire una sala.

 

Il risultato è un percorso inedito in cui convive la storia dell’arte e lo sguardo dei dieci curatori, che avevano l’unico obbligo di argomentare la propria scelta: “Hanno avuto carta bianca perché penso che il museo sia un luogo di polifonia, l’arte non ha soltanto una lettura, ne ha diverse” ci spiega Bellenger, che ha voluto fortemente provare l’esperimento, e si sofferma a lungo sulla necessità di svecchiare il modo in cui concepiamo la vita di un museo. Il direttore ha affidato le opere di Capodimonte a “laici” per trasmettere un’idea nuova: “Le sale allestite dalle persone che hanno accettato la sfida sono meravigliose, vive. Colgono collegamenti nelle opere come uno storico dell’arte non saprebbe fare. E il pubblico non è fatto di storici dell’arte. ‘Carta bianca’ è un invito ai visitatori: devono prendere possesso del museo senza essere soltanto passivi; è una mostra radicale che cambia non soltanto il tempo della visita ma il concetto stesso del museo”.

 

La conversazione si sposta quindi sul modo in cui è possibile avvicinare gli italiani ai loro musei, uno dei motivi all’origine della nomina dei direttori con esperienza internazionale. Bellanger mostra di essere consapevole dei rischi di troppa commercializzazione: “L’Italia ha capito, forse un po’ tardi, che il patrimonio culturale è un patrimonio industriale che può portare ricchezza e benessere. Ma va gestito bene, con ambizione. Lo dico chiaramente: non c’è necessità di abbassare il livello culturale per fare entrare le masse, sarebbe un grandissimo sbaglio. I musei non sono dei parchi di attrazione, ma dei luoghi di cultura che devono rimanere all’altezza della tradizione dell’Italia”.

 

Ciononostante, in termini assoluti Capodimonte è ancora molto indietro. Nel 2016 ha di poco superato i 200 mila ingressi e non è nemmeno tra i primi trenta siti italiani. Musei periferici come il Louvre di Lens (450 mila ingressi) e il Pompidou di Metz (300 mila), in Francia, restano molto più visitati. Ci chiediamo come sia possibile: “In Francia il settore culturale raccoglie i frutti di un lavoro di quasi trent’anni: negli anni Ottanta il Louvre di Parigi non raggiungeva mezzo milione di ingressi, oggi supera i nove milioni. In Italia stiamo cominciando a lavorare in questa direzione, trovo molto bella e importante la domenica gratuita, che porta nei musei bambini e famiglie che altrimenti non li vedrebbero mai. Questi bambini nel futuro avranno il museo nella loro mente, farà parte delle cose da fare, avranno dimestichezza con l’arte. Una società ignorante è una società brutale e piena di opinioni false e sbagliate, mentre l’arte insegna a guardare l’altro da sé. I musei non sono luoghi morti e a Capodimonte lo stiamo dimostrando”.

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