Mania dell'eterno

Gianfranco Lauretano

E’ la diagnosi che gli affibbiarono gli psichiatri dopo la guerra: diventò il senso dei suoi versi. Rebora, il poeta che volle farsi prete

Ferito da un’esplosione sul fronte della Prima guerra mondiale, Clemente Rebora aveva cominciato a dare segni di disturbi psichici. Dopo un lungo peregrinare per ambulatori e ospedali, era infine arrivato al nosocomio psichiatrico San Lazzaro, a Reggio Emilia. Dove ricevette la celebre e bislacca diagnosi di una strana patologia, che lui stesso avrebbe poi raccontato: “Lo psichiatra che me la diagnosticò, forse sentendomi parlare, la definì, con parola greca, mania dell’eterno”. Con questa diagnosi Rebora venne congedato. Per i sensi di colpa dovuti al fatto di essere lui in salvo mentre i compagni in trincea continuavano a morire, chiese più volte, inutilmente, di essere reintegrato al fronte.

 

Gli "Ossi di seppia" di Montale, zeppi di rimandi reboriani. I versi simili a quelli di Carducci, ma dagli esiti capovolti

Reggio Emilia ha ricordato nei giorni scorsi, con un convegno al Museo diocesano, il centenario di quel ricovero. Le relazioni di Gaddomaria Grassi sul ricovero di Clemente Rebora e di Gino Ruozzi su Rebora poeta e soldato, che hanno affiancato l’intervento del vescovo Massimo Camisasca, rappresentano un contributo di valore storico e letterario su questo periodo fondamentale per il poeta dei Frammenti lirici. Mons. Camisasca ha ricordato che “Rebora è stato un uomo e un poeta conosciutissimo nel primo quarto del secolo scorso”, mentre “oggi è quasi uno sconosciuto”. La sua vicenda poetica ebbe come punti di riferimento Carducci, D’Annunzio e Pascoli. La loro poesia riecheggia decisamente nella prima raccolta reboriana del 1913, i Frammenti lirici, raccolta che determinò a sua volta una profonda influenza, maggiore di quanto finora riconosciuto, sui poeti successivi: gli Ossi di seppia di Montale, di dodici anni più tardi, sono zeppi di rimandi reboriani, tanto per fare un esempio. Niente di strano, è sempre accaduto per i poeti autentici di ogni letteratura: essi si citano, si studiano, si completano. Rebora è dentro a questo flusso: vive la sua tradizione dall’interno e in modo originale. Proprio i Frammenti lirici non possono sfuggire soprattutto a D’Annunzio, il vate, l’esteta, il funambolico e geniale inventore di ritmi e di parole che sta come un macigno sulla strada di tutti i poeti nuovi dell’epoca. C’è D’Annunzio in Ungaretti, in Montale, in Gozzano e in Rebora, così come ci sono Pascoli, o Carducci.

 

Rebora però ha un modo tutto suo di farci i conti: si potrebbe definire un “grande rovesciatore”. Prende Carducci, ad esempio, lo imita e ne capovolge l’esito, il significato. Si veda il frammento O carro vuoto sul binario morto, una delle sue poesie che si trova con maggior frequenza sulle antologie scolastiche, imperniata sull’immagine del treno, come l’altro frammento, il LI. Sono calcati pari pari sulla celebre poesia carducciana Alla stazione in una mattina d’autunno persino nel ritmo, nella metrica: “Flebile, acuta, stridula fischia” (Carducci); “Sibila, scivola, livido il treno” (Rebora). Eppure il finale è, si può dire, opposto: il paesaggio di nebbia e caligine che il treno incontra nel suo cammino porta Carducci a concludere: “Io voglio io voglio adagiarmi / in un tedio che duri infinito”; mentre Rebora è attratto in positivo da ciò che è davanti al treno, nella lontananza: “Quel che da lungi m’invita / va sempre più in là” inventando quell’espressione, “più in là” usata più volte nella raccolta e che piacerà anche al Montale della poesia Maestrale: “Sotto l’azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / ‘più in là’!”. E’ solo un esempio per evidenziare il dialogo ininterrotto, fatto di parole, di ritmi, di immagini, che è la colonna vertebrale di ogni tradizione artistica nazionale. E per mostrare come l’idea di eterno, infinito, immenso nasconda per Rebora non una risposta nichilista bensì una continua apertura della ragione e della domanda.

 

La poesia come ancella di un compito di conoscenza più grande. Non esitò a servirsene per scopi che farebbero ridere gli altri poeti

Ma anche nella personale biografia Rebora è stato un grande rovesciatore. Il suo percorso di vita è stato speculare rispetto a quello che accadeva all’Italia dei suoi tempi, e dei nostri. Nato nel 1885 da una famiglia laica di ideali mazziniani, è educato lontano dalla fede in una Milano fortemente sostanziata dal suo spirito cattolico e liberale; dopo la crisi angosciosa e psichiatrica dell’epoca della guerra, si avvicinerà da solo, con un percorso personale, al cattolicesimo, fino a diventare sacerdote nell’ordine dei rosminiani. Si tratta di un tragitto rovesciato, appunto, rispetto a ciò che accadeva alla società italiana, passata da un’originaria e millenaria tradizione cristiana, ancor viva all’inizio del secolo scorso, alla crescente secolarizzazione che l’ha portata, cent’anni dopo, all’abiura effettiva, anche se talvolta non formale, della maggioranza di oggi. A ben vedere, la vicenda biografica di Rebora assomiglia a quella di Dostoevskij: anch’egli da giovane non era privo di ideali definibili, come si direbbe oggi, laici, “per la ristrutturazione del mondo sulla base di principi buoni e giusti”, come diceva lo stesso scrittore russo. Ideali per cui subisce l’arresto e la condanna a morte, commutata all’ultimo momento nei lavori forzati in Siberia. E come la guerra mondiale per Rebora, il campo di concentramento per Dostoevskij rappresenta il grande trauma e il punto di svolta per la riscoperta della fede del popolo e della tradizione, narrata negli Scritti da una casa morta. Vicenda in cui molti studiosi e lettori russi vedono ancora oggi la profezia di ciò che accade al loro paese dove, dopo il trauma del totalitarismo sovietico, si stanno riscoprendo le radici della storia nazionale: “Capire Dostoevsij è lo stesso che capire la Russia; capire la Russia è identico a riviverla attraverso la speculazione creativa di Dostoevskij”, ha scritto A. Z. Štejnberg.

 

Dostoevskij è uno scrittore fondamentale per Rebora, così come in genere la letteratura russa che, sempre a partire dagli anni cruciali della guerra, tradusse a più riprese: Gogol’, Tolstoj, Andreev. Ma si può considerare la sua esperienza parallela e quella di Dostoevskij? Può accadere questo in Italia? La vicenda di Rebora sembra suggerire di no: “E’ quasi uno sconosciuto”. Poco importa se Rebora non fu il solo: con diversi accenti e circostanze, una riappropriazione di identità, se così possiamo chiamarla, coinvolse altri autori contemporanei, come Papini o Ungaretti. La stessa “mania dell’eterno”, ben lungi dall’essere una malattia psichica, è stata per secoli il fulcro della nostra linea poetica principale. Di cos’altro parla la poesia italiana più letta e commentata, L’infinito di Leopardi? Ma a un certo punto, e sempre più, ciò a cui Rebora rispondeva, senza soluzione di continuità tra il prima e il dopo la conversione, è passato di moda, è uscito dalle nostre categorie. La poesia spesso minimalista e nichilista di oggi, come l’insegnamento della letteratura e scuola e la discussione, quasi assente, sulla poesia a tutti i livelli, è frutto di un percorso inverso compiuto dalla nostra società e dalla nostra letteratura rispetto a quello di Rebora. A peggiorare le cose, si aggiunga che l’ultima stagione della poesia reboriana, dando un nome storicamente preciso alla sua mania, nomina esplicitamente ciò che è oggetto, a tutt’oggi, di un’autentica damnatio memoriae: Gesù, Maria, i Santi… Quando Rebora entrò in seminario, provocò lo scompiglio tra gli amici e gli scrittori. Sibilla Aleramo, con la quale ebbe una storia che sembrò all’inizio d’amore e diventò poi d’amicizia (cosa in cui la Aleramo era specialista…) è esemplare di questo atteggiamento, come racconta Umberto Muratore: “La storia dell’amicizia Rebora-Aleramo è la storia di due anime destinate a incontrarsi e cercarsi per le affinità di fondo, ma anche a non capirsi pienamente per la diversa coerenza e velocità con cui obbediscono agli impulsi interiori. Quando il primo andrà in convento, Aleramo (come del resto tanti altri) non capirà questa scelta, e continuerà a crederla irrazionale, quasi un fallimento, e comunque una deviazione”. Ciononostante la stima dei grandi poeti del Novecento nei confronti di Rebora non venne mai meno: Pasolini ammirava la sua poesia e Montale andò a trovarlo a Stresa quando era infermo a letto; Caproni, Betocchi, Luzi, Valeri e tanti protagonisti della poesia italiana del secolo continuarono a seguirlo e a scriverne. In ogni epoca l’intelligenza, pur essendo minoritaria, ha sempre prevalso sul pregiudizio.

 

Dopo la crisi angosciosa e psichiatrica dell'epoca della guerra, si avvicinò da solo, con un percorso personale, al cattolicesimo

A questo occorre aggiungere un certo disordine nel percorso editoriale di Rebora che, pur abbracciando più di quarant’anni di attività, conta solo quattro raccolte: Frammenti lirici (1913), Canti anonimi ((1922), Curriculum vitae (1955), Canti dell’infermità (1956). Come si vede, tra la prima e la seconda stagione passano più di trent’anni, il cosiddetto grande silenzio di Rebora, durante il quale si converte, prende i voti, fa il sacerdote. Sono in realtà anni di silenzio editoriale, perché Rebora scrisse invece con continuità, e non solo poesia. Tanto che le quattro raccolte contengono solo circa la metà delle sue poesie. Le altre sono sparse su riviste, su fascicoli, persino su bollettini, come quelli dei rosminiani. Appartengono a questa collezione anche alcuni testi splendidi e terribili sulla guerra, o quelli d’amore per Lydia Natus, la musicista russa con cui convisse negli anni intorno alla guerra in una soffitta in Via Tadino a Milano: piccole poesie d’amore e ammirazione per la propria donna e per tutte, secondo il suo alto senso dell’universo femminile, che riteneva una delle declinazioni dell’eterno. Per molti anni la raccolta pressoché completa delle poesie di Rebora è stata il volume Poesie a cura di Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller per la Garzanti. Ma dal 2015 abbiamo il Meridiano Mondadori che reca anche le prose, alcune stupende, e le traduzioni, in maggioranza dal russo come abbiamo detto. Questo recente lavoro, a cura di Adele Dei, sistema in modo più ordinato e coerente l’ampia sezione delle poesie non rientrate in raccolta, dandoci modo di vedere più chiaramente le fasi e lo sviluppo del suo lavoro nella sua interezza.

 

I motivi della durata di un’opera letteraria sono sempre di difficile individuazione. Che cosa fa diventare un poeta un classico? Cosa assicura alla sua opera una durata? Rebora è un poeta di sicuro valore. Fin da subito ha una capacità di scrittura, di figurazione, di ritmo della parola e del verso che rivelano un grande talento. Il suo lavoro, come già accennato, è pienamente inserito in quello dell’epoca. La sua poesia è una vena carsica e profonda che alimenta le radici di tutto il Novecento. Eppure è da sempre un minore. Magari grande, ma minore. A nulla vale la stima dei colleghi e anche una certa diffusione popolare che ebbe ben oltre il primo quarto di secolo e le comunità parrocchiali o di un certo associazionismo, non solo rosminiano, dove è pure letto e messo in comune non solo come poeta; ancora numerosi circoli culturali in Italia gli sono intitolati. Ma questo non basta a farne un autore largamente studiato: la scuola quasi non lo propone e un suo eventuale testo da commentare alla maturità farebbe cadere quasi tutti dalle nuvole, come è accaduto quest’anno con quello di Caproni. Una caratteristica peculiare di Rebora lo pone ai margini della considerazione dei poeti stessi, quelli d’oggi soprattutto. Il poeta Rebora, tantomeno nella seconda fase della vita, non viveva per la poesia.

 

La stima dei grandi poeti del '900. Il lungo silenzio editoriale, durante il quale si converte, prende i voti, fa il sacerdote

Da vecchio, ricordando i suoi esordi, che ebbero una prima fase da musicista, disse: «Strano il successo delle mie poesie! Io le facevo così, come realizzazione di qualcosa, stati d’animo. Ma volevo fare il compositore, e dirigere l’orchestra!». Il Novecento, non solo in Italia, ha imposto una varietà di ideologie. Per i poeti il tema principale è diventato, pur secondo diverse vie, la parola stessa. Che fosse la parola come strumento “tecnico” e struttura delle avanguardie e delle neoavanguardie o quella segreta e un po’ esoterica dei simbolisti o degli ermetici, la parola della poesia è il vero tema, il vero fulcro ideale della poesia del Novecento. Ad esso poi si appoggiavano le altre ideologie, quelle politiche. Ma che fossero di tipo nazionalista, durante la prima avanguardia del secolo, il futurismo, o comuniste con la neoavanguardia degli anni Sessanta, tutto ruota intorno allo stesso motivo principale: il poeta vive per la poesia e per la parola, quasi sempre il compimento della sua esistenza coincide con l’affermazione come autore. Per Rebora non fu così. Egli trattò la poesia come ancella di un compito di conoscenza più grande. E non esitò a servirsene per scopi che farebbero ridere gli altri poeti. Scrisse poesie per l’inaugurazione di una fontanella del suo monastero, o per le ricorrenze dei santi ad uso interno dell’ordine, o per ricordare la mamma… Un verso tratto da una poesia posta a corredo di quel libro straordinario che è l’autobiografia in versi Curriculum vitae che può essere considerato la sua segreta dichiarazione di poetica: “Ma santità soltanto compie il canto”. Esiste cioè un principio, una ragione estrinseca alla poesia, al “canto”, che lo completa e lo compie. Rebora la chiama “santità”, ma ogni autore potrebbe trovare il proprio nome. La poesia non ha valore in sé, non è una religione. E’ tanto più interessante questa posizione perché viene da un grande poeta che fu un religioso. Ciò che conta è il fattore esterno e ulteriore, rispetto alla poesia, che dà senso e compimento ad essa. Anche questa è la difficile e inattuale lezione di Rebora, dura da capire in un’epoca in cui, perduta la mania dell’eterno, molti contemporanei tendono ad assumere il particolare come significato e compimento del proprio operare ed esistere.

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