Immgine dalla locandina del film "Faust" di Friedrich Wilhelm Murnau (1926). La prima della "Damnation de Faust" di Berlioz è in programma al Teatro Costanzi il 12 dicembre

Con Faust Berlioz mise in scena l'avventura del suo io

Marina Valensise

La "Damnation" all'Opera di Roma. Le incomprensioni, i rifiuti giovanili e un sogno d’amore che diventa incubo 

Non aveva nemmeno trent’anni Hector Berlioz quando lesse per la prima volta il Faust di Goethe nella traduzione francese di Gérard de Nerval. Era il 1828 e ne rimase affascinato. Quel libro gli parve “meraviglioso”, come scriverà più tardi nei suoi Mémoires, altro monumento letterario del XIX secolo (da leggere nelle ristampe dell’edizione originale Calmann Levy 1878, o in quella italiana Ricordi, a cura di Olga Visentini). Nel dramma del medico disperato che, lusingato dal desiderio di leggerezza e libertà, vende l’anima al diavolo, ringiovanisce, seduce un’innocente, la mette incinta, ne provoca la morte, ma poi si salva per l’aspirazione all’infinito, Berlioz scopriva il romanzo della sua vita. Nell’eroe di Goethe ritrovava la sua stessa solitudine, l’angoscia giovanile, lo spleen, la forza lanciante della passione, la beffa di un destino oscuro e il sogno di redenzione nel sublime. Per lungo tempo, da quel libro non riuscì a staccarsi. Lo leggeva in continuazione: a tavola, a teatro, per le strade, nei giardini delle Tuileries. E oggi che il Teatro dell’Opera di Roma, in coproduzione col Regio di Torino e Palau de Les Arts Reina Sofia di Valencia, riporta in scena La damnation de Faust, con la direzione di Daniele Gatti e la regia di Damiano Michieletto (martedì 12 la prima e poi cinque repliche dal 14 al 23 dicembre), urge tornare sulle tracce di questo compositore romantico che in largo anticipo sui tempi scrisse partiture straordinariamente complesse, inventando un nuovo genere a sé stante, l’autobiografia musicale.

  

Occhi chiari e penetranti, lunghi capelli fulvi arruffati: a 25 anni aveva l'aria tormentata del genio ancora oscuro a se stesso

Lettore invasato di Goethe, a venticinque anni Berlioz aveva l’aria tormentata del genio ancora oscuro a se stesso, occhi chiari e penetranti, lunghi capelli fulvi arruffati intorno al viso imberbe, sul quale spiccava il naso aquilino. Era un artista in cerca del suo destino, un musicista pieno di sogni ma ricco solo della sua matta determinazione. Figlio di un medico di provincia, da sei anni viveva a Parigi, dove era approdato dalla Francia profonda (natìo borgo nell’Isère, tra Grenoble e Lione) per studiare medicina secondo i desideri del padre. Ma il giorno in cui per il corso di anatomia s’era ritrovato in mezzo al carnaio umano dell’anfiteatro della Pitié, fra cadaveri maleodoranti, crani spaccati, volti contratti, lembi di polmoni pronti alla dissezione, si era sentito svenire e aveva deciso di cambiare rotta. A costo di infliggere un dispiacere al padre medico, aveva scelto di darsi alla musica, unica sua passione assoluta, facendosene catturare la sera in cui assistette all’Opéra a una recita delle Danaidi di Salieri, ascoltando per la prima volta le arie melanconiche aggiunte dall’adorato Spontini.

   

Fu un’emozione irresistibile per lui. Se ne sentì trasportarlo come un marinaio in mare aperto. Da quel giorno, abbandonò le lezioni di Bichat e di Gay Lussac, per richiudersi nella biblioteca del Conservatorio e mettersi a studiare le partiture di Gluck. Dovette subito scontrarsi con le vessazioni del padre, subire anni di stenti e privazioni, ingoiare i molti rospi dei capricci e dei divieti inflitti dal tremendo Cherubini, altro musicista italiano in auge a Parigi come direttore del Conservatorio, ma a lui inviso e sempre ostile, che tornerà nelle memorie di Berlioz come una figura grottesca, affetta da ridicola balbuzie, incapace di pronunciare il francese senza l’accento italiano, e preda di un odio sordo e irrazionale nei confronti del giovane sconosciuto.

  

Di avere un figlio artista e spiantato, il padre non ne voleva sapere. La madre, cattolica bigotta, lo privò persino del suo abbraccio

Berlioz però resistette. Era una testa calda, un impulsivo, un tipo tenace e alquanto ossessivo. Di avere un figlio artista, ergo spiantato, suo padre, per quanto volterriano, non ne voleva proprio sapere. Sin dall’inizio tentò dunque di fargli cambiare idea, usando tutto l’armamentario della persuasione coatta: minacce, scenate, musi lunghi, tagli di viveri, ricatti affettivi. La madre, cattolica bigotta, lo privò persino del suo abbraccio, e il giorno del commiato non si fece nemmeno trovare, tanto per lei era imperativo il richiamo della considerazione sociale. Berlioz cavalcò l’orgoglio e tenne duro. Tornò a Parigi, si iscrisse da privatista ai corsi del compositore Jean-François Leseur, cimentandosi subito con una Missa solemnis. E finì per sbattere la testa contro il muro delle difficoltà d’esecuzione, che superò soltanto grazie al prestito di un amico melomane, un ricco aristocratico che doveva finire malissimo, gettato sul lastrico dalla moglie attrice e fedifraga, costretto a vivacchiare come maestro di canto ma senza allievi, sommerso dai debiti e infine suicida, secondo lo schema della tragedia romantica che Berlioz farà suo.

   

Entrato al Conservatorio nella classe di contrappunto di Reich, già condiscepolo di Beethoven a Bonn, Berlioz continua la sua formazione da autodidatta odiatore dell’accademia e delle istituzioni, oltreché    dei musicisti alla moda come Rossini, che all’epoca spopolava “nel mondo fashionable di Parigi”, ma che egli sempre detestò, venendone a sua volta irriso con battute “arsenicali” (l’aggettivo è di Mario Bortolotto e compare nel “Genio ‘dimidiatus’”, capitolo delle sue Corrispondenze, Adelphi 2010, a proposito di una delle famose uscite del Cigno pesarese sul giovane collega francese “Quale fortuna che questo ragazzo non sappia la musica! Ne farebbe di ben brutta!”).

  

Stava sullo stomaco a Rossini, non aveva altri dèi che Gluck, Piccinni e Spontini. Era destinato a diventare un patito di Beethoven

In realtà, il giovanotto che stava sullo stomaco a Rossini e non aveva altri dèi che Gluck, Piccinni e Spontini era un artista romantico, anzi un romantico tedesco, prossimo a diventare un patito di Beethoven, un fanatico di Weber e della grande musica sinfonica tedesca, con le sue orchestre smisurate, le partiture monumentali, l’estrema libertà di stile e una sfrenata inventiva nelle tonalità. Daniele Gatti che le studia da anni giudica pre-mahleriane le composizioni di Berlioz e per dirigerle nel modo giusto sostiene che si debba riuscire a coglierne a fondo la sintassi musicale, perché Berlioz costruisce il percorso della sua frase in modo bizzarro, cambiando le battute, scomponendone i tempi, distribuendone i pesi in modo imprevedibile.

   

Genio romantico, Berlioz era dunque un genio in largo anticipo sui tempi. Da giovane, però, spinto dal desiderio di gloria e da un’ambizione struggente, visse anni perfettamente balzachiani di completa bohème. Dormiva in una camera ammobiliata all’Ile de la Cité, consumando pasti cenobitici a base di pane, datteri e uva secca sul Pont Neuf, ai piedi della statua di Enrico IV. Per mantenersi, dava lezioni di solfeggio, flauto e chitarra, non essendo un compositore “venuto dal pianoforte”, ragione per la quale l’orrendo Cherubini gli rifiuterà la cattedra di composizione. Per sopravvivere, dovette superare un’infinita serie di disdette, rifiuti, umiliazioni. Patì molto la fame, sempre a corto di soldi, sempre a caccia di occasioni e di concerti, sempre in cerca di amici e sempre pronto a ingraziarsi protettori influenti, anche se insolventi.

   

Da giovane, spinto dal desiderio di gloria e da un'ambizione struggente, visse anni balzachiani di completa bohème

Sin da giovane prese a scrivere per riviste e giornali, mestiere in cui col suo stile caustico e sornione sempre eccelse, ma che odiò profondamente per il terrore della pagina bianca, per la miseria delle opere di cui doveva trattare, per il rovello e i continui mal di testa. Una volta fu persino sul punto di farla finita, come lui stesso racconta nei Mémoires. E all’ultimo momento fu dissuaso dal gesto disperato solo dal figlioletto che inaspettatamente gli si parò davanti, chiedendogli di giocare con lui. Per sfuggire alla fame e alle angherie paterne, quando ancora era studente era riuscito a strappare un posto di corista in un teatro di second’ordine, ma per la vergogna tacque la cosa a parenti e amici. Poi, finalmente, fu ammesso al concorso dell’Institut, strada maestra per entrare nel mondo dell’arte, vincendo il secondo premio. Ciò avvenne lo stesso anno in cui scoprì il Faust e in cui conobbe Henriette Smithson, l’attrice irlandese che aveva portato Shakespeare a Parigi e recitava al Teatro dell’Odéon nei panni di Ofelia e di Giulietta.

   

Da ipersensibile con tendenza alla nevrastenia, Berlioz ne rimase folgorato, se ne innamorò a prima vista, perdendo non solo la testa ma pure il sonno. E per recuperare l’una e l’altro prese la decisione più azzardata della sua vita: “Cette femme, je l’épouserai. Et sur ce drame j’écrirai ma plus vaste symphonie”, ricorderà anni dopo, tornando su quella che divenne un’idea fissa perseguita con tenacia, a dispetto dell’opposizione di entrambe le famiglie, a dispetto delle difficoltà materiali, e soprattutto a dispetto dell’iniziale freddezza di lei.

    

Sarà lui stesso a raccontare con dovizia di particolari e tutti gli abbellimenti del caso il primo incontro con l’attrice inglese, all’epoca osannata da pubblico e critica, e l’iniziale rifiuto. Quel giovane spasimante insistente la signora, crudele, non lo degnava di uno sguardo. Non solo non rispondeva alle sue lettere, ma non lo voleva nemmeno a teatro. Il dramma del musicista sconosciuto, respinto dall’attrice famosa sarebbe diventato un leit motiv, sino a fornire la trama a varie opere, come la Symphonie fantastique nel 1829 e il Lélio ou le retour à la vie, monodramma con cui tre anni dopo Berlioz sarebbe finalmente riuscito a espugnare il freddo cuore dell’inglese.

  

Il dramma del musicista sconosciuto respinto dall'attrice famosa doveva fornire la trama alla "Symphonie fantastique"

Altra dimostrazione di quanto sia utile rileggerne l’autobiografia per cogliere la corrispondenza tra il mito del Faust e il suo io di un tempo, e tra il Faust che ricreerà nella légende dramatique della Damnation e il giovanotto pieno di sogni che soffre l’angoscia della solitudine, vive nel vuoto di un mondo senza senso, abitato da mille torture che gli raggelano il sangue, e per sfuggire a se stesso e alla disperazione medita di togliersi la vita. “Disgusto di vivere e impossibilità di morirne”, scrive Berlioz ripensando al tormento giovanile. Nemmeno Shakespeare era riuscito a darne un’idea: nell’Amleto, infatti, si era limitato a annoverare questo dolore fra i mali più crudeli. Ecco allora che il genio romantico, il pessimista senza illusioni che sogna però la redenzione in nome dell’amore, riesce ad arrivare là dove Shakespeare non s’era inoltrato. Raccoglie i frammenti in versi dalla traduzione del Faust pubblicata da Nerval e compone le Huit scènes de Faust. Prima ancora di farla eseguire, stampa la partitura a sue spese e da Berlino riceve l’incoraggiamento dal famoso critico musicale Adolf Bernhard Marx. Quando scopre però che l’opera è piena di difetti, abbandona ogni velleità di esecuzione e ne distrugge ogni traccia.

   

Passeranno altri sedici anni prima che Berlioz torni sui propri passi. La decisione di riprendere in mano il Faust matura durante il viaggio musicale in Germania, che per lui è un modo di sottrarsi alle angustie materiali dell’esistenza, alla miseria in cui versa a Parigi, e soprattutto rappresenta la via di fuga dalla prigionia coniugale con l’attrice inglese, che ormai è un’attrice fallita, una donna spenta, grassa, schiava dell’alcol e vittima di abulia. Nel 1846, dunque Berlioz non è più il giovane inquieto alle prime armi. A quarantatré anni è un musicista affermato, anche se non completamente accreditato. E’ famoso per l’amicizia che lo lega a Franz Liszt suo grande sostenitore, per i concerti spettacolari, per la Symphonie fantastique, la Symphonie funèbre, l’Harold en Italie, composto inizialmente per Niccolò Paganini, il quale, nel 1838, due anni prima di morire, ormai del tutto afono e al colmo dello scandalo per un presunto tentativo di corrompere una giovanetta, assiste al fiasco della prima del Benvenuto Cellini e decide di lasciargli 20.000 franchi in omaggio “per aver fatto rivivere Beethoven”, dono che Berlioz userà per pagare i debiti e lavorare sette mesi a una nuova partitura, la sinfonia del Roméo et Juliette.

   

Nel 1846 è un musicista affermato. E' famoso per l'amicizia che lo lega a Liszt, suo sostenitore, e per i concerti spettacolari 

Insomma quando riprende in mano il Faust, è un uomo fatto, che ha viaggiato, ha sofferto, ha vissuto. Nel 1830, dopo quattro tentativi, Berlioz ha ricevuto finalmente il primo premio al concorso all’Istituto, che gli assicura una pensione di 3.000 franchi l’anno per cinque anni, da passare in parte in Italia, come borsista all’Accademia di Francia, e in parte in Germania. Dunque conosce Roma, che ha intensamente detestato, soffrendo per un anno e mezzo la solitudine nella caserma di Villa Medici, l’esilio dal mondo musicale parigino, l’indifferenza della città eterna dove “la musica è ridotta al ruolo di una schiava degradata, inebetita dalla miseria, che canta, con voce logora, stupidi poemi per i quali il popolo le lancia un tozzo di pane”. Ha patito la compagnia di briganti, aristocratici, scrittori fanatici, come il console di Civitavecchia, alias Henri Beyle, in arte Stendhal. Ha sofferto le borie della folla nei giorni del Carnevale, col condannato al patibolo messo all’ingrasso, le corse di cavalli lungo il Corso, le abluzioni a Piazza Navona inondata d’acqua e ridotta a uno stagno. Ha conosciuto terribili pene d’amore, quando la fidanzata Camille Moke gli ha preferito il figlio di Pleyel, fabbricante di pianoforti. E ha persino concepito la vendetta, con la fuga in incognito, l’improvvisa comparsa vestito da donna in casa della coppia per coglierli di sorpresa e prenderli a pistolettate. Poi però ha cambiato idea e ha trovato ristoro nella natura, tuffandosi nelle acque del Mediterraneo, flirtando con una sconosciuta su una spiaggia della Costa Azzurra, e riprendendo a vagare senza meta tra i paesini sperduti dell’Abruzzo, in mezzo a pifferai, pastori erranti impegnati a danzare il saltarello, viaggiando a piedi da Napoli a Roma con due svedesi, componendo stupende romanze, come La Captive... 

  

Rientrato a Parigi il caso l’ha risospinto verso l’antica passione. L’attrice famosa che pochi anni prima nemmeno lo vedeva, adesso è un’artista in bancarotta, dopo il fallimento del suo teatro inglese, disertato dal pubblico parigino, troppo volubile per restare fedele alla moda di Shakespeare. Piena di debiti, senza risorse, afflitta da una sorella rapace, la signora cede alla corte di quel compositore impetuoso di tre anni più giovane di lei, che da anni non ha smesso di sognarla. Inizia così il loro romanzo d’appendice, con rapida inversione dei ruoli, dove lui da salvatore finisce per diventare un perseguitato, e dove lei da vittima di un cinico destino si trasforma in una menade minacciosa e fuori controllo. Il sogno d’amore eterno, conquistato a duro prezzo, sventolando l’arma del suicidio per vincere l’opposizione paterna, è diventato un incubo. La donna ideale, l’idea fissa, l’artista sfortunata da soccorrere e portare in salvo, dopo breve tempo si trasforma in una moglie gelosa, risentita, ossessiva. Incapace di parlare il francese, persino col marito che non conosce l’inglese, tanto che i due tra loro parlano una lingia incomprensibile , non può tornare sulle scene e langue in casa, dove inizia a bere e a ingrassare oltremisura. Il figlioletto viene spedito in collegio. E il marito esasperato, un bel giorno decide di partire in tournée, prepara il viaggio e scompare senza preavviso, lasciando solo una lettera sul tavolo. Fra i bagagli si porta dietro la nuova amante, Marie Recio, una giovane soprano petulante e priva di talento, nuova condanna sua sentimentale.

   

Con lei nel 1840 inizia il primo viaggio in Germania, Bruxelles, Francoforte, Magonza. Nonostante l’improvvisazione dell’agenda, i concerti che saltano, le orchestre indisponibili, Berlioz si rigenera. E’ durante questo viaggio che nasce l’idea di ritornare al Faust. A Weimar, infatti, Berlioz visita la casa di Goethe trasformata in museo, e scopre il tugurio in cui visse Friedrich Schiller, con le due finestrine che guardano il cielo. Sei anni dopo, una nuova tournée lo porta in Austria a Vienna, a Pest in Ungheria, a Praga in Boemia. “Se volete conquistare gli ungheresi, scrivete un pezzo su uno dei loro temi nazionali” gli suggerisce un melomane viennese. E’ così che in una notte nasce il Rákóczi-induló, la marcia di Rákóczi su un tema ungherese, che finirà al termine della Prima parte della Damnation, con Faust che assiste al passaggio dell’esercito ungherese, mentre vaga fra le distese della Puszta magiara. La marcia ha riscosso un tale successo, è stata accolta da tale entusiasmo che Berlioz regalerà il manoscritto alla città di Pest, per riceverne una copia a Breslau il mese dopo.

    

E proprio a Breslau, capitale della Slesia, inizierà a scrivere La damnation de Faust, rimettendo mano alla leggenda che aveva in mente da anni. Prima di partire da Parigi, aveva già ripreso frammenti della traduzione di Nerval, messi in musica anni prima, per integrarli con altre due o tre scene scritte da uno sconosciuto librettista, tale Almire Gandonnière. Quei versi rappresentavano solo un sesto dell’opera a venire, che sarà formata da una serie di scene giustapposte e drammaturgicamente isolate: vita nei campi, vita religiosa, marce militari, goliardia, pantomima. Tante scene che Damiano Michieletto promette di collegare nella sua regia come altrettante tappe del racconto di un giovane che lotta, a fianco dell’innamorata, sino alla morte, sino alla cavalcata verso l’abisso, come una cavia nelle mani del suo diabolico doppio, Mefistofele.

    

La donna ideale, l'artista sfortunata da soccorrere e portare in salvo, dopo poco si trasforma in moglie gelosa, risentita, ossessiva

Traversando la Slesia in carrozza, lo stesso Berlioz, senza cercare di imitare i versi di Goethe, ma traendone solo l’ispirazione, inizia a scrivere il libretto della Damnation coi versi dell’invocazione di Faust alla natura, per cercare di estrarne l’essenza musicale. “Nature immense, impénetrable et fière / Toi seule donne trêve à mon ennui sans fin! / Sur ton sein tout-puissant je sens moins ma misère. / Je retrouve ma force et je crois vivre enfin!). Per lui era un modo di ritornare al suo vissuto, di riattivare l’esperienza del viaggio in Italia, il suo vagare come un giovane Faust in mezzo alla natura per rigenerarsi, il suo viaggiare fra le montagne d’Abruzzo e nei dintorni di Subiaco, per sfuggire alla noia romana e ritrovare se stesso. Lanciata l’impresa, i versi seguono naturalmente e Berlioz compone la nuova partitura con una facilità mai conosciuta. Scriveva di getto e scriveva ovunque, in carrozza, sul treno, sul battello a vapore, persino in città, se poteva. Non aveva bisogno di inseguire le idee, perché se le trovava davanti all’improvviso, come lo sbocco naturale della sua immaginazione. Così in una locanda di Passau scrisse l’introduzione e la danza dei Silfi che si abbandonano a un valzer. E perdendosi una sera per le strade di Pest, si mise a scrivere sotto la luce fioca di un lampione il ritornello della Ronda dei contadini. A Praga, invece, si alzò dal letto in piena notte per appuntarsi il coro degli angeli con l’apoteosi finale di Margherita.

    

Si sentiva libero di comporre e di ricreare il poema di Goethe a modo suo. Il suo Faust era la leggenda di Faust, l’ultima sua reincarnazione, la proiezione della sua vita, del suo passato, della sua erranza da giovane artista. Per questo, poteva fare viaggiare il suo eroe nelle steppe ungheresi senza minimamente preoccuparsi dell’originale tedesco. E per questo, diversamente da Goethe, finirà per condannare il suo Faust all’inferno, facendolo scomparire fra il coro esoterico di demoni e dannati, e scegliendo invece di salvare Margherita, col rischio di farne una figura incongrua e in fondo irrilevante, vista la fine di Faust.

   

Era finalmente diventato un uomo libero. E da genio libero, aveva deciso di fare di testa sua, incurante delle critiche dei letterati tedeschi: “Nessuno mi ha mai rimproverato per il libretto della sinfonia di Romeo et Juliette, che si discosta dall’immortale tragedia. Come mai?”, finge di domandarsi nei Mémoires. Ma lo fa solo per fornire una risposta al vetriolo. “Di sicuro perché Shakespeare non è tedesco. Patriottismo! Feticismo! Cretinismo!”

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