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dopo il 7 ottobre

Inventario dei nuovi pogrom

Pierluigi Battista

Gli studenti ebrei di Harvard minacciati, l’aeroporto in Daghestan, le stelle di David a Parigi. Non è sostegno alla causa palestinese, è antisemitismo. La vergognosa indulgenza dei progressisti e le poche voci coraggiose

Ho visto il trailer di un b-movie distopico. Tipo quelli che andavano di moda nei primi anni Novanta, con le schegge impazzite di una qualche repubblichetta dai nomi impossibili disintegrata nel disfacimento dell’ex Unione sovietica. Fa vedere una folla invasata che sfonda tutte le porte di un aeroporto del Daghestan, gridando Allah Akbar e brandendo vessilli palestinesi, per dare la caccia agli ebrei scesi da un volo proveniente da Tel Aviv: trash purissimo. No, contrordine, mi dicono che non è affatto un trailer, che invece è storia vera, di questi giorni, nell’afasia ipocrita del mondo democratico, di tutti noi che ci prepariamo a versare qualche lacrima il prossimo 27 gennaio: è la caccia all’ebreo, letteralmente, come negli anni Trenta. Però – deve essere una coincidenza – mi sento invaso da notizie false di criminalità anti-ebraica: e quindi sarà certamente un falso quella foto scattata in una manifestazione italiana dove si vede il cartello di Anna Frank con la kefiah commentato da cose indicibili su Israele. Ma come? Il 7 ottobre i tagliagole di Hamas hanno snidato casa per casa i bambini ebrei per sgozzarli insieme alle loro famiglie, e non solo nessuno vede una somiglianza con quella ragazzina ebrea nascosta in una soffitta ad Amsterdam per sfuggire agli aguzzini nazisti, ma anzi si accetta silenti che si faccia di quella ragazzina ebrea una bandiera sventolata dagli antisemiti? Fake news, per forza. Tra l’altro i baldi manifestanti nemmeno sapranno che il Diario di Anna Frank è vietato a Gaza perché diffonderebbe “l’infezione sionista”. Deve essere la parodia splatter di un giornale che prende in giro le fake news che si chiama “Lercio”. E poi, tranquilli, qualche sincero democratico “Free Palestine” avrebbe pur denunciato questo rigurgito antisemita nel cuore della capitale italiana. Ma non è “Lercio”. E’ tutto vero, compresa l’omertà complice e imbarazzata del democratico “Free Palestine”. Piuttosto: è tutto un lungo, interminabile incubo, diventato vero dall’alba del 7 ottobre 2023, un mese fa. Oramai.

 


Un mese. E’ da un mese che vivo in una condizione di spaesamento, di solitudine, di angoscia, di stupore, di sgomento. Per i bambini ebrei trucidati o rapiti, per le ragazze ebree violentate, per gli anziani ebrei angariati, per tutti gli ebrei presi in ostaggio a Gaza e tenuti inermi nelle grotte di Hamas. Per gli incolpevoli bambini di Gaza usati come scudi umani, certo. Ma soprattutto sono sotto choc perché non riconosco più le persone che credevo simili a me, con cui condividevo sensibilità, letture, film e che delirano di questione palestinese e del peggior governo della storia di Israele (purtroppo vero) mentre ignorano chi siano quei tre gentiluomini che hanno fatto un vertice a Beirut per decidere come distruggere meglio lo stato di Israele e “annegare nel loro sangue” gli ebrei che ci vivono e gli ebrei sparsi nel mondo: sono il leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah, il vice capo di Hamas Saleh Aruri, e il capo della Jihad islamica Ziad Nakhale. Sponsorizzati dagli ayatollah di Teheran, non sanno che farsene dello stato palestinese, deridono l’ipotesi stessa di “due stati, due popoli” e hanno solo un’ossessione: ripulire la terra santa dalla presenza dei “maiali ebrei”. Ma come fanno a non capire? Come fanno a essere indulgenti dopo il rituale “condanniamo Hamas però, ma, tuttavia” con chi ha gli ebrei nel mirino? Ma non eravamo uniti dal “mai più”? E possibile che non si accorgano che siamo in un’atmosfera da “ancora una volta”? Sto forse esagerando?


Penso alla disperazione di Etgar Keret, scrittore israeliano orgogliosamente di sinistra, detestato dall’establishment israeliano di destra, che nel 2014 gridava dal palco i nomi dei bambini palestinesi uccisi a Gaza e che oggi, scrive il Corriere della Sera, “gira il paese per incontrare i sopravvissuti dei villaggi e dei kibbutz assaltati”. E dice Keret, stordito, incredulo: “la sinistra europea deve capire che Hamas non sostiene la Palestina, anzi”. E’ un’organizzazione “fondamentalista, omofoba, misogina. Non persegue la visione di uno stato palestinese ma di un impero islamista”. “Deve capire”, ma non capisce. E io non capisco come faccia a non capire che se nei cortei ci sono disegni con i deltaplani trionfanti come omaggio ai deltaplani con cui hanno sparato a raffica sui giovani che ballavano in Israele, allora devi prendere le distanze con forza, devi dire che con certa gente in piazza non ci vai, che con l’antisemitismo non si scende a patti. Deve, deve, deve: ma non lo fa, povero Keret. E David Grossman, un faro della letteratura israeliana progressista, un grande scrittore che ha perso un figlio in guerra e ha scritto un libro, “Caduto fuori dal tempo”, che è un inno alla pace, al dialogo? Dopo il 7 ottobre Grossman ha scritto, insieme ad altri intellettuali israeliani, una supplica. Una vera supplica in cui si chiede con le lacrime agli occhi come faccia la sua sinistra a non capire: “Noi, impegnati per la pace, l’uguaglianza, la giustizia e i diritti umani siamo profondamente rattristati e scioccati. Gli eventi traumatici di quel sabato di ottobre lasceranno un segno indelebile nei nostri cuori e nei nostri occhi. Siamo preoccupati per la risposta inappropriata di alcuni progressisti americani ed europei riguardo agli attacchi contro i civili israeliani da parte di Hamas, una risposta che riflette una tendenza preoccupante nella cultura politica della sinistra globale”. C’è qualcuno che si senta chiamato in causa, che abbia un soprassalto di ansia per gli ebrei massacrati perché ebrei? Non volete ascoltare nemmeno gli appelli di Keret e di Grossman? E neppure quello di un militante israeliano che scrive una lettera a un amico palestinese pubblicata da Le Monde: “La collera che evochi di fronte alla situazione del tuo popolo è legittima. Ma il tuo silenzio di fronte al dolore del mio è insopportabile”? Nel manifesto di convocazione di una manifestazione romana pro Hamas (ribadisco: pro Hamas) si legge: “Il 7 ottobre il popolo palestinese ha ricordato al mondo di esistere, ha dimostrato che sono ancora i popoli a scrivere la storia”. Mi dicono che i massimi esponenti della “sinistra globale” e italiana hanno diramato un durissimo comunicato che “mai e poi mai potremmo mischiarci a questa feccia antisemita”: anche il loro silenzio sarebbe stato “davvero insopportabile”. Ma no, è una fake news, non è vero. La “sinistra globale” è silente, timorosa, reticente, Grossman e Keret possono continuare a disperarsi. Sto esagerando?

 


Stupore, sgomento, disperazione. Il silenzio è dettato dall’impossibilità di comprendere il senso di quello che sta succedendo, il suo significato, il perché del salto verso l’abisso e dell’incubo che ci trasciniamo dietro dal 7 ottobre del 2023. E il senso è che si è lacerata l’ultima membrana che teneva ancora precariamente separati l’antisemitismo e l’antisionismo. Si è frantumata la barriera, si è spezzato il muro divisorio, sottilissimo ma che ancora poteva avere una sua qualche giustificazione. Il massacro del 7 ottobre ha gettato nella spazzatura il residuo refrain dell’indipendentismo moderato palestinese e ha dichiarato al mondo che l’unico obiettivo per cui valga la pena morire da martire è l’annientamento dell’“entità sionista”. E’ jihad allo stato puro, non battaglia nazionalista. E’ una guerra di sterminio, non la rivendicazione di un diritto. E’ un ultimatum apocalittico di morte e distruzione, non la forza armata di un progetto politico. Nelle piazze arabe e islamiche si inneggia alla guerra santa (tranne in quella di Teheran, dove la gente non scende in piazza e vuole la libertà, dunque non è anti-israeliana) per cancellare ogni traccia di impurità ebraica. E’ questa integrale trasfusione dell’antisionismo nell’antisemitismo e nella giudeofobia che riesce arduo accettare nella sinistra progressista e invita piuttosto ad accomodarsi negli schemi consueti, a consolarsi in una fraseologia frusta, a rifugiarsi nelle vecchie abitudini di un mondo che non esiste più. Non si è più capaci di elaborare il trauma, si minimizza, si ridimensiona, si sottovaluta. Ostinatamente. Ciecamente. In modo stolto. Le teste sono come intorpidite, esibiscono un accenno di risveglio solo a nominare la parola “Netanyahu” (che se ne vada presto, lui che si è dimostrato incapace di difendere la vita degli ebrei di Israele). Non si capisce più il senso del sadismo dei massacratori, dell’eccesso di atrocità compiute, della crudeltà rituale che con la guerra in senso tradizionale non c’entra più niente e riguarda piuttosto un appello al mondo: uccideteli tutti. Uccidete tutti gli ebrei.


Passo il tempo a rivedere le immagini spaventose di quel giorno. Passo il tempo a leggere cose a cui pensavo di non poter assistere, perché sono nato dopo gli anni Trenta e dunque mi è impossibile vedere le case degli ebrei polacchi che furono messe a fuoco dai nazisti alla vigilia della Shoah, esattamente come le case degli ebrei in Israele messe a fuoco dai nazisti di Gaza. Temo sempre di esagerare con questa storia degli anni Trenta che mi tormenta dal 7 ottobre. E del resto vivo in Italia, dove si grida al ritorno agli oscuri anni Trenta se viene spostato l’orario di un talk della Rai e se quattro rimbambiti fanno il saluto romano a Predappio (i fascisti che hanno assaltato la Cgil, quelli invece meglio non citarli: anche loro, chissà come mai, ora stanno nei cortei gridando “Free Palestine”). Però ecco quello che vedo e leggo. Leggo che un professore mascalzone a Stanford ha imposto agli studenti ebrei di mettersi in un angolo faccia al muro per capire “ciò che sentono ogni giorno i palestinesi”. Leggo che ad Harvard gli studenti ebrei vanno in gruppo, per fronteggiare meglio agguati e pestaggi. Leggo che hanno colpito la sinagoga di Berlino e sempre a Berlino sono arrivati a minacciare il Memoriale della Shoah. Colpita e vandalizzata una sinagoga in Turchia con aggressori muniti di stendardi “Free Palestine”. In Tunisia hanno tentato di incendiare una sinagoga, ma solo dopo aver strappato alcune pagine della Torah. A Roma un corteo grida “fuori i sionisti da Roma”, a 80 anni di distanza dal rastrellamento del Ghetto: chi saranno mai i sionisti che bisogna cacciare da Roma? Sforziamoci e proviamo a indovinare. A Barcellona hanno assaltato un albergo che aveva un difetto: era di proprietà di un ebreo. A Bologna un cartello dice agli ebrei: “Rivedrete Hitler all’inferno”. A Sidney si grida “Gas the Jews”, non so se il messaggio sia arrivato. Nella metropolitana di New York c’è scritto “Kill the Jews”, a Milano si grida in arabo “Apriteci i confini così possiamo uccidere gli ebrei”. A Seul durante una manifestazione pro Hamas si inneggia, letteralmente, alla “soluzione finale”. A Londra e in Germania viene vivamente consigliato agli ebrei di non indossare la kippah per non eccitare il fervore omicida degli antisemiti. In Francia si contano in più di duecento gli attentati contro luoghi e simboli ebraici e a Lione si colpisce la sinagoga in segno di solidarietà con “i nostri fratelli a Gaza”. E poi le svastiche vicino al cimitero ebraico di Vienna, le stelle gialle a segnare le abitazioni degli ebrei a Parigi. E poi, e poi… potrei continuare ancora perché sto facendo l’inventario completo di questo orrendo pogrom ubiquitario. Provo ad accennarlo ai miei amici, alle persone con cui pensavo di condividere una sensibilità comune e l’orrore assoluto per l’antisemitismo sterminazionista. Ma mi rispondono come Guterres, nel senso dell’Onu: “Eh, ma 56 anni di occupazione”. Per fortuna non dicono ancora 85 anni, ma ci siamo quasi: la data della nascita dello Stato di Israele, che accolse la risoluzione delle Nazioni Unite dove si sanciva il diritto di due stati per due popoli: proprio quello che si vuole ora. Ma gli arabi e i palestinesi dissero di no.


E vedo e sento qualche flebile ma coraggiosa e ammirevole voce di sinistra che cerca di dire alla sinistra che così non va, non va proprio, che la caccia all’ebreo è un’infamia senza confini. Voci straziate, perché la sorte dei civili a Gaza provoca solo strazio e tutti vorremmo una tregua, tutti. La voce di Furio Colombo, un veterano nella battaglia per la difesa di Israele. Quella di Corrado Augias. Quella di Gianfranco Pasquino. Quella di Paolo Flores d’Arcais. Quella di Michele Serra. Quella di Anna Paola Concia. Quella di Paolo Repetti. Quella di Donatella Di Cesare. Quella di qualche anima solitaria e tormentata nel Pd. E poi il sottile ma temerario argine di Elly Schlein, un gesto di civiltà che speriamo non debba franare mai sotto le spinte di un automatismo mentale deleterio ben descritto da David Grossman. Spero che, citandoli, non abbia reso loro un pessimo servizio, visto il clima. Però mi conforta. Mentre nel mondo si salda feroce il fronte dei tiranni seriali: dall’Iran degli ayatollah che uccide le donne senza il velo obbligatorio in testa alla Cina che deporta e massacra gli uiguri (musulmani senza che nessuno li difenda), dalla Russia che bombarda gli ospedali pediatrici a Mariupol e fa strage di civili sulle vie di Bucha nel silenzio dei nostri putiniani che si stanno riciclando nella galassia pro Hamas all’Arabia Saudita che fa a pezzi il corpo del dissidente Kashoggi, dalla Turchia di Erdogan carnefice dei curdi alla Siria di Assad carnefice del suo stesso popolo. Cos’altro ci vuole ancora per comprendere i contorni di un incubo mostruoso cominciato il 7 ottobre del 2023 che, attraverso la strage degli ebrei, incombe su tutto il mondo? E questa, davvero, non è una fake news. Sto esagerando?

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