Michael Gove e Boris Johnson in una foto ai tempi della campagna elettorale per il Leave (Foto LaPresse)

La seconda chance di Johnson

Paola Peduzzi

I due ex amici, Johnson e Gove, si ritrovano avversari per la leadership dei Tories. Ma stavolta il favorito è Boris (con una strategia inedita)

Tre anni fa in questa stagione tutti i giornalisti a Londra si ritrovarono una mattina al St. Ermin’s Hotel, dietro a Westminster. Era il 30 giugno, una settimana prima gli inglesi avevano votato per la Brexit, la capitale sputava stupore e rimpianto, gli esperti si negavano al telefono, i giornalisti stranieri rincorrevano dichiarazioni smozzicate, l’unica domanda plausibile era “ma cosa vi è venuto in mente?”, però sembrava poco cortese, in quello scompiglio, mettersi ad alzare il ditino. Quella mattina, nella corte soleggiata del St. Ermin, uno degli alberghi più celebri di Londra, quello in cui Churchill nel 1940 aveva radunato il suo gabinetto di guerra e organizzato forze speciali e intelligence, ognuno su un piano diverso (si dice che ancora oggi ci sia un tunnel che collega l’ingresso dell’hotel e Westminster), si aspettava Boris Johnson.

 

Il premier David Cameron si era dimesso, i conservatori al governo sotto choc dovevano sostituirlo e l’ex sindaco di Londra, che aveva fatto campagna per la Brexit, sembrava il successore naturale, lui che aspettava l’investitura da sempre e che finalmente, per una volta dalla parte dei vincenti (il più sorpreso era lui), poteva acchiapparla. Nella corte passavano deputati conservatori di corsa, guardavano i giornalisti lì appostati con aria implorante, vi prego non fermatemi cosa volete che vi dica, e intanto la conferenza stampa durante la quale Johnson avrebbe dovuto annunciare formalmente la sua candidatura tardava. Dieci minuti, venti, mezz’ora.

  

 

Nell’albergo simbolo della risolutezza e della strategia britannica, Johnson ritirò la sua candidatura, vittima di una trama di palazzo ordita dal suo (allora) sodale Michael Gove, che dopo aver fatto tutti i conteggi per capire la solidità di Johnson, decise di candidarsi lui. Di sgambetto in sgambetto, rotolarono via dalla corsa tutti, tranne naturalmente Theresa May, della quale allora non conoscevamo granché, di certo non la sua straordinaria resistenza. Ora ci risiamo: la May si è dimessa, i conservatori si stanno posizionando e contando, Boris Johnson è considerato il premier in pectore, e infatti c’è già una grandissima turbolenza sui mercati e in Europa, dove le priorità sono altre ma pochi hanno voglia di disfare un’altra volta la tela della Brexit. L’affidabilità di Johnson è poca, e intanto gli altri contendenti, da Michael Gove a Sajid Javid, fanno di tutto per mettersi in mostra, con effetti collaterali non del tutto virtuosi: se non fate altro che imbattervi in foto, commenti, test e ricordi giovanili che riguardano le droghe è perché la faccenda è un po’ sfuggita di mano.

 

Johnson, questa volta, ha scelto la strategia opposta per lui innaturale ma forse vincente: calma e compostezza. Dopo aver detto di tutto per tre anni, dopo aver fatto da distributore automatico di fantasie sulla gestione dell’uscita dall’Unione europea – la Unicorn Brexit, quella magica e inesistente, è biondissima come Boris – Johnson ha organizzato un team di consiglieri fidati, di cui uno, Lee Cain, è dedicato a tenere a bada il proprio capo (pare che abbia chiesto rinforzi). Tra gli altri, c’è chi si è preso la briga di leggere i libri di Robert Caro su Lyndon Johnson scoprendo che per essere leader bisogna avere un metodo: in questo caso, dovendo conquistare più parlamentari possibili come prima garanzia, il compito non è nemmeno così difficile. E Johnson si è messo a incontrare i compagni di partito, uno per uno, senza delegare ai suoi: i retroscena sono pieni di deputati che dicono “abbiamo avuto una conversazione!”, che significa che Johnson li ha persino ascoltati.

 

La posa potrebbe non bastare, i Tory hanno dato prova di brutalità inaudite e comunque di falchissimo sulla Brexit c’è già Nigel Farage, ma Johnson dice di voler giocarsi diversamente questa candidatura soprattutto per una questione di rispetto: rispetto per la seconda possibilità, che è una fortuna che non tocca a tutti, e spesso nemmeno ai più meritevoli. Una seconda possibilità non si spreca, è rara e preziosa, si cerca di raddrizzare tutto quel che è andato storto, col sorriso migliore di sempre. La seconda chance è un’arma affilata per chi ce l’ha, ci vorrebbe un vaccino anti finzione per gli altri: pentirsi è un attimo.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi