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Venezia 2023

Il primo film per cui fare il tifo a Venezia è “Dogman” di Luc Besson, il più americano dei registi francesi

Mariarosa Mancuso

Un bambino maltrattato dal padre violento, più di tre mesi di casting per i cani e l'insegnante di teatro come primo amore. Queste le premesse del film da sostenere

Un altro eroe tricolore. Ramo automobili, senza Pierfrancesco Favino (“Piertutto” in una vignetta dell’imperdibile Stefano Disegni, per i ruoli a ripetizione o forse la scarsa fantasia dei registi). Enzo Ferrari, italiano vero con due famiglie e la passione per le corse. A casa la moglie Penélope Cruz che gli spara mancandolo, in lutto per il figlio Dino morto a 24 anni. Fuori casa, l’amante Shailene Woodley con il figlio Piero, che porterà il cognome del padre solo più avanti. Dietro gli occhiali scuri di Enzo Ferrari, Adam Driver (per gli americani deve avere qualcosa di italiano, era già Maurizio Gucci in “House of Gucci” di Ridley Scott).

In un gran rombo di motori, Enzo Ferrari vuole vincere la Mille Miglia edizione 1957, per vendere più automobili e trovare un socio finanziatore (metà delle azioni sono nelle mani della consorte che lo odia). Era una gara folle, pensata negli anni 20: 1.600 km su strada, in mezzo alla gente accalcata per vedere i bolidi. Non erano le velocità di adesso, ma bastavano per fare morti e feriti.

Il primo film per cui fare il tifo – e per candidare l’attore Caleb Landry Jones all’Oscar, diamo per scontata la coppa Volpi a Venezia – è “Dogman” di Luc Besson. Scritto e diretto dal più americano dei registi francesi, racconta di un bambino chiuso dal padre violento nella gabbia dei cani. Saranno la sua unica compagnia – e quando perde l’uso delle gambe la sua unica risorsa per campare. Attaccano i gangster che chiedono il pizzo nel quartiere, entrano nelle case disabitate e escono con quel che luccica. 

Per il casting dei cani, una settantina, Besson ha impiegato più di tre mesi. C’era qualche star, con addestratore e la roulotte personale – un dobermann francese che ha richiesto un giorno di riprese tutto per lui. Gli altri facevano gruppo: sul set c’erano 25 ammaestratori, ognuno con la responsabilità di due attori a quattro zampe. E tutti urlavano, mentre Caleb Landry Jones (il nome tenetelo a mente, è uno che scompare nei ruoli che fa) leggeva Shakespeare. 

Il primo amore del ragazzino solitario era stata l’insegnante di teatro, più grande di lui. Da qui la parrucca bionda e l’abito rosa da Marilyn Monroe che indossa quando lo vediamo nella prima scena, ferito dopo un incidente. In conferenza stampa l’attore-camaleonte parlava con accento scozzese, esercitandosi per il prossimo ruolo. Dovessimo fare un paragone, a 30 anni ha la bravura colossale di Philip Seymour Hoffman.

Il cileno Pablo Larraín smette per un po’ di importunare le principesse tristi – un film dedicato a Jacqueline vedova Kennedy, un altro a Diana Spencer – e torna alla sua fissazione precedente. “El Conde” ritrae il dittatore Augusto Pinochet nelle vesti di un vampiro, con tanto di mantello svolazzante. Stufo di vivere, dopo centinaia d’anni – già cercava sangue fresco durate la rivoluzione francese – ridotto a una dieta di cuori congelati.

Ancora lo odiano, mentre vorrebbe essere riconosciuto come padre della patria cilena. La scenografia da maniero inglese fa il suo lavoro, ma dopo un po’ il film da divertente che era si avvita su se stesso, e sull’idea del fascismo eterno che si reincarna. Una bella e giovane suora, munita di croci e paletti, fa tornare al vampiro Pinochet la voglia di vivere. I figli erano già in cerca dei conti segreti per spartirsi l’eredità. 

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