Parasite

La recensione del film di Bong Joon-ho, con Song Kang-ho, Lee Sun-kyun, Cho Yeo-jeong, Jang Hyae-iin, Park So-dam

Mariarosa Mancuso

Dev’essere l’ombra minacciosa di Netflix, che non viene ammesso nel salotto buono di Cannes ma comunque esiste. Oppure sono le giurie a migliorare, composte da attori e registi che non colgono l’occasione per vendicarsi dei film applauditi e amati dal pubblico. Da qualche anno le Palme d’oro sono notevolmente migliorate, rispetto a quando premiavano a ripetizione Micheal Haneke e i fratelli Dardenne. “Parasite” è un film strepitoso, come lo era “Snowpiercer”, dal fumetto di Jean-Marc Rochette e Benjamin Legrand: il primo film post apocalittico che incolpa gli ambientalisti, vogliono abbassare di qualche grado la temperatura della terra e ne fanno un ghiacciaio. Il treno dei superstiti ha i poveri nelle ultime carrozze e i ricchi nell’elegante locomotiva, vietata ogni risalita. “Lotta di classe”, leggiamo in tutte le recensioni, anche a proposito di “Parasite”. Perdonateli, è un riflesso involontario, a pari merito con “la violenza sulle donne” o “il degrado delle periferie”. Meglio, cento volte meglio: il regista coreano ha girato un film sui servi e sui padroni. Su una famiglia molto povera e una famiglia molto ricca che fortunosamente entrano in contatto, con risultati difficili da immaginare (e non avremo uno sciopero, come la lotta di classe esige, ma doppi giochi, violenze e tenerezze: uccidete chiunque soltanto osi accennare alla trama).

 

I miserabili vivono in un seminterrato, giusto nell’angolo dove gli ubriachi pisciano, e per campare piegano cartoni da pizza. I ricchi vivono in una luminosa magione disegnata dall’architetto, tenuta in ordine da una governante fedele. Si incontrano quando il figlio dei poveri viene assunto come insegnante di inglese per la figlia dei ricchi (ha falsificato il diploma, giura che prima o poi lo otterrà). Riesce a intrufolarsi anche la figlia, spacciandosi per psicologa: il moccioso ricco fa disegni horror, la mamma si preoccupa, le magiche parole “art therapy” danno speranza. Da qui in avanti, solo divertimento e colpi di scena, Bong Joon-ho sa raccontare una bella storia – anche il soggetto è suo – e salta con disinvoltura da un genere all’altro: dramma, melodramma, grottesco, satira.

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