Downton Abbey

Recensione del film di Michael Engler, con Matthew Goode, Tuppence Middleton, Maggie Smith, Michelle Dockery

Mariarosa Mancuso

Prima erano i romanzi a fornire le trame per i film. Con le serie, la fornitura è più accurata: i personaggi sono già vestiti e alloggiati, assieme agli attori di riferimento – utile mossa per evitare le lamentele dei lettori: “Me l’ero figurato diverso”. Intanto premono, per ritagliarsi uno spazio, i reportage: “Hustlers - Le ragazze di Wall Street” di Lorene Scafaria (anteprima alla Festa di Roma, esce a novembre) viene da un articolo del New York Magazine (con il rischio che la verità allenti la tensione narrativa). Le vicende di “Downton Abbey” erano cominciate nel 1912, con il disastro del Titanic. Muore James Crawley, destinato a ereditare il patrimonio e la tenuta (con il figlio Patrick, a sua volta erede). Subentra Matthew, un giovanotto che fa l’avvocato – per dire, la contessa madre Maggie Smith non conosce l’obbrobrio chiamato “week end”? – e sa vestirsi senza l’aiuto del valletto. Sconcerto tra la servitù: maggiordomo, cameriere personale, cuoca, sguattere. Il genere (che sembrava scomparso) si chiama upstairs/downstairs, la sigla l’inquadra una sfilata di campanelli. “Downton Abbey” film comincia nel 1927, gli abiti si accorciano in stile charleston. Una lettera da Buckingham Palace annuncia che Giorgio V, in viaggio nello Yorkshire, trascorrerà una notte a Downton Abbey. Grande eccitazione (controllata) al piano di sopra (“Saremo all’altezza, noi e la nostra umile dimora, tacendo il dettaglio che non abbiamo i soldi per la manutenzione?”). Frenesia al piano di sotto, contraria solo una servetta dagli slanci rivoluzionari (gli altri pensano ai racconti ai figli, ai nipoti, ai pronipoti, e lucidano per bene bicchieri e argenteria). Doccia gelata: i reali si portano dietro la loro servitù e la loro macchietta di cuoco francese. La regina ha una dama di compagnia quasi di famiglia, ma pecora nerissima: imparentata con i Grantham, ha deciso di testa sua per l’eredità (Imelda Staunton, l’unica che riesce a zittire Maggie Smith). Le pedine sono a posto – e anche i riferimenti all’oggi – nella sala da ballo per soli maschi. Purtroppo manca il ritmo, come se al cinema gli spettatori fossero più lenti e distratti che in tv.

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