L'uomo del labirinto

La recensione del film di Donato Carrisi, con Toni Servillo, Valentina Bellè, Vinicio Marchioni, Dustin Hoffman

Mariarosa Mancuso

Frank dovrebbe fare causa. E’ l’amico immaginario che salva Donnie Darko da morte sicura, quando il motore di un aereo precipita sulla sua cameretta. O per lui dovrebbe fare causa il regista Richard Kelly, una carriera tutta in discesa: dopo Frank con le orecchie da coniglio non è riuscito più a inventare niente di interessante. Tuffato nella candeggina, candido con i suoi occhietti rossi, il coniglio misterioso riappare nel secondo film di Donato Carrisi, passato in un balzo dai bestseller alla regia (il primo era intitolato “la ragazza nella nebbia”, uscito nel 2017). Come se fossero lo stesso mestiere. Ma un conto è descrivere un profiler americano che gioca con la palla di gomma antistress, mentre interroga una ragazza tenuta prigioniera per 15 anni dal conigliesco maniaco. Un conto è mostrarla sullo schermo, con Dustin Hoffmann che si presta alla bisogna (mai visto un bravo attore tanto spaesato; Servillo invece fa da sé, fedelissimo ai suoi vezzi). Non abbiamo studiato teoria e tecniche del profiling. Abbiamo visto abbastanza film – e disponiamo di abbastanza buon senso – per capire che uno specialista vestito con una divisa raffazzonata, giocherellante nervosamente con una palletta rossa, è tutto quel che non ci vuole per rassicurare una ragazza sfuggita al mostro. Soprattutto quando soavemente sussurra: “E ora cara entrerò nella tua testa, questi sono i labirinti che mi interessano”. Nel frattempo, in un luogo rossastro e rovente (fa caldo, lo dicono di continuo) Toni Servillo dai capelli sudaticci si punta la pistola alla gola, poi ci ripensa, informa lo spettatore che due mesi prima gli avevano dato due mesi di vita – “infezione al cuore” – ma ciononostante si dedicherà al caso della ragazza rapita, onorando un contratto firmato anni prima. Morire, ma con gli affari in ordine: il coniglio torturatore va ricacciato in gabbia (si sospetta che pure lui abbia avuto un’infanzia difficile: il male è sempre una reazione, nei cattivi manuali di sceneggiatura). Molto Made in Italy, per la recitazione e il montaggio che non butta via niente. Parlato come se i dialoghi fossero tradotti dall’americano.