Sarebbe bello scrollarsi di dosso il vittimismo e parlare solo del film di Polanski

Nuove accuse al regista prima dell’uscita di “l’ufficiale e la spia”

Mariarosa Mancuso

Quando certe storielle colte si potevano ancora raccontare, ne circolava una così concepita. Una ragazza sogna un satiro che la insegue nel bosco. La ragazza scappa e il satiro continua a rincorrerla. La ragazza corre più veloce, anche il satiro accelera. Poi il satiro ci ripensa, si ferma, e sbotta: “Signorina, dopotutto è lei che mi sogna!”. Se non credete che si tratti di una barzelletta colta, una ripassatina a “Freud for Dummies” potrebbe giovare. Ripeschiamo la storiella con funzione di barriera d’entrata, bisognerà pure riservarsi uno spazio dove ragionare da adulti. Un luogo non contaminato dall’attrazione fatale per il vittimismo come professione e stile di vita. Un angolo protetto dove, per esempio, uno stupro denunciato dopo 44 anni – scriviamolo anche in lettere, come richiesto sui bollettini postali: quarantaquattro anni – pare fuori tempo massimo.

 

Infatti non viene denunciato in tribunale, ma al quotidiano Le Parisien. Con qualche giorno di anticipo sull’uscita di “L’ufficiale e la spia”, prevista in Francia il 14 novembre (in Italia uscirà il 21 novembre). Vale a dire, l’ultimo film dell’accusato Roman Polanski, Leone d’argento alla Mostra di Venezia perché la presidente della giuria Lucrecia Martel si era in via preventiva espressa contro gli applausi al regista. Polanski (di anni 86) e i suoi attori hanno cancellato le interviste. Nulla è peggio che girare un film magnifico sul caso Dreyfus – ebreo ingiustamente condannato per tradimento nella Parigi di fine Ottocento – e sentirsi rivolgere domande su argomenti diversi dalla splendida messa in scena. Mai un baffo che sembri appiccicato con il mastice, mai una parrucca che sembri una parrucca, mai una divisa militare o un abito o un cappello che puzzi di sartoria teatrale. Di questo vorremmo parlare, nell’angolino dove si capiscono le storielle e dove il vittimismo non è una virtù. Dove – l’aspettavamo da anni – abbiamo finalmente trovato un articolo contrario al “culto della donna triste in letteratura” (era sul New York Times, lo firma Leslie Jamison, spezzando la catena tristezza-intensità-profondità di cui lei stessa per un po’ si è nutrita).

 

“Lo stupro è una bomba a orologeria”, dice l’accusatrice (la nominiamo? Non la nominiamo? Nominiamola per pari opportunità, è stata lei a denunciare, si chiama Valentine Monnier, ha fatto la fotografa e l’attrice, “la prima francese ad accusare Polanski” scrivono i giornali, abituati a registrare la nazionalità delle vittime in caso di catastrofi naturali). D’accordo, ma dopo 44 anni il timer magari si rompe, si arrugginisce, insomma qualcosa succede. Se non altro il fatto che sono passati 44 anni, e che nella giustizia terrena esiste la prescrizione. Quanto alla giustizia divina, il demone della perversità – secondo Edgar Allan Poe, l’impulso che spinge a dire proprio quel che non dovremmo dire – suggerisce “peccato di pantalone, pronta assoluzione”.

 

Nell’angolo dove si capiscono le storielle e le battute, sarebbe bello chiacchierare di cinema e di letteratura senza che, a scadenze ravvicinate, venga fuori un’accusa, un sospetto, una vecchia storia di sesso. La mamma ci aveva avvertite, che il mondo dello spettacolo non somiglia a una sacrestia (per quanto anche le sacrestie, di questi tempi, non garantiscano totale affidamento). Dieci anni fa, Polanski fu arrestato in Svizzera. E dieci anni fa, lo scrittore svizzero Jacques Chessex morì durante un acceso dibattito pubblico, schierato a difesa del regista. Servono altri martiri?