(Foto di Ansa) 

LA VERSIONE DI DON MATTEO

Politica, lavoro, guerra. Il cardinale Zuppi e le domande sul futuro che ci aspetta

Non ancora presidente della Cei, l’8 aprile scorso Zuppi è intervenuto alla scuola di formazione per giovani della Fondazione Costruiamo il Futuro. Riportiamo di seguito l’introduzione, l’intervento del cardinale, le domande dei partecipanti e le sue risposte

Il titolo di questa edizione della scuola di formazione è “Pensare il futuro”. Un tema di fatto imposto dai due anni di emergenza generata dalla pandemia, e reso ancora più cogente dallo scoppio di una guerra in Europa che non riguarda solo i due belligeranti (l’aggressore e l’aggredito) ma inevitabilmente tutti noi.


La fase di convivenza con la pandemia ha alimentato e continua ad alimentare un sentimento d’incertezza che grava come una cortina fumogena sulla traiettoria dello sviluppo della società. La guerra viene a prolungare e ad aggravare questa incertezza, estendendola anche alla percezione dell’equilibrio dei rapporti internazionali a cui ci eravamo abituati, e forse nel quale ci eravamo cullati, negli ultimi settantacinque anni. Viviamo una circostanza storica che mette in dubbio, o comunque in gioco, le radici dei valori su cui basiamo la nostra convivenza, a livello familiare, sociale, economico e internazionale. Abbiamo bisogno di sapere da dove veniamo per scegliere in che direzione andare, non tanto per elaborare un nostro progetto di società futura (che sarebbe presuntuoso), quanto per prendere coscienza dei fattori che la determineranno. E’ chiaro ormai in qualunque campo che tentare di perpetuare lo status quo non ha prospettive né dà speranza. Occorre rischiare, abbandonando comode posizioni di rendita.


Tre anni fa, intervenendo alla nostra scuola di formazione, il senatore ceco Pavel Fischer (uno dei collaboratori di Václav Havel) disse che spesso abbiamo la sensazione di non avere alcuna influenza sulle cose del mondo d’oggi. Come se succedessero senza il nostro intervento, come se noi individui non contassimo nulla. E’ ciò che desidera il potere, bisogna invece agire in ogni situazione, nonostante la situazione. E per quanto possa apparire insignificante, il contributo di ciascuno è essenziale perché non esiste altra modalità per far crescere una comunità di uomini: lo sviluppo può avvenire solo attraverso una costruzione comune, perché tutti, e ognuno, custodiscono qualcosa che dà un significato alla fatica dello studio, del lavoro, dell’azione quotidiana. Non è ingenuità, è realismo.

 

Ma per pensare il domani servono luoghi per incontrarsi, tentare sentieri inesplorati e soprattutto confrontarsi con l’esperienza dei protagonisti della vita pubblica, nel mondo culturale, educativo, economico, scientifico, politico ed ecclesiale. La scuola di formazione si pone questo obiettivo, mettendo quest’anno al suo centro la questione del lavoro. Il lavoro non come sviluppo del capitale, il lavoro come sviluppo della persona. Il lavoro come contributo che ognuno dà alla costruzione del bene comune, al miglioramento della società, cioè della vita altrui, il lavoro come essenziale alla propria dignità e come strumento della propria utilità per il mondo. Il lavoro è il luogo di incontro degli uomini per la pace. L’Europa, da San Benedetto alla ricostruzione post-bellica, ha avuto il lavoro al suo centro.


Ed ecco la domanda al cardinale Zuppi: Come uomo di Chiesa, che ha una responsabilità anche civica, perché lei è uno degli “attori” della vita della sua città e in senso più lato del nostro paese, quali fattori sente di dover richiamare a chi si appresta ad assumersi responsabilità pubbliche e quindi anche (speriamo) di potere. Non chiediamo la formula per la soluzione dei problemi in cui ci dibattiamo, ma l’impostazione dell’atteggiamento con cui affrontarli. Quali preoccupazioni avere? E in quali occupazioni impegnarsi? 

 

Matteo Zuppi. La mia generazione è figlia di una generazione che era stata travolta dalla pandemia della guerra e ha scelto di non guardare indietro, di non lamentarsi, di non maledire questo nostro tempo, di “non invidiare chi nascerà domani e potrà vivere in un mondo felice senza sporcarsi l’anima e le mani” (come recitava una canzone dei Gufi) ma di guardare al futuro. Per vent’anni non si son voltati indietro, non si sono preoccupati per sé, per il proprio benessere ma per “l’uomo che verrà” (come l’omonimo e bellissimo film sull’eccidio di Marzabotto). Non si sono interpretati, lamentati, guardati allo specchio. Hanno costruito, guardato in avanti e così realizzato dal 1945 al 1965 quello che si chiama il miracolo italiano, che è economico, certamente, ma anche antropologico, umano, di valori. L’hanno fatto perché? Per noi, per l’uomo che verrà. Forse è un parlare un po’ da vecchio, ma avevano l’idea del sacrificio. Anche perché il futuro non è un tasto che schiacci, una furbata che ottieni perché fai subito e pensi di non avere problemi, ma è un sacrificio, come la vita vera e non quella caricatura per cui stiamo bene quando ci conserviamo, quando non facciamo fatica. La chiave è: per chi lo fai? Quella generazione l’ha fatto per noi. Noi abbiamo consumato tanto futuro di altri, lo abbiamo portato via agli uomini che non verranno e non lasciamo futuro per noi. Lo dico anche come autocritica di una generazione che pensava di avere sempre tempo e “anche il lusso di sprecarlo”, come cantava un poeta, e ne abbiamo sprecato tanto, abbiamo sprecato tante opportunità. Oggi, travolti dalle pandemie del Covid e della guerra, si tratta di mettersi seriamente a costruire il futuro e con molta responsabilità lasciare in eredità la stessa determinazione di cui abbiamo goduto tanto.


Si parla oggi di futuro “sostenibile”. E’ una ovvietà. Non ho mai visto un futuro che non sia sostenibile. Il fatto che lo diciamo vuol dire che pensiamo che il futuro non sia sostenibile. Un futuro non sostenibile non è futuro, è la continuazione nella logica di consumare il presente: il presente lo consumiamo per noi, il futuro lo pensiamo per altri.
Il futuro mette paura. La nostra generazione veniva fuori da una distruzione terribile. E’ una realtà che oggi capiamo attraverso quello che sta succedendo in Ucraina. Noi eravamo così: bombardamenti, distruzione, gente uccisa per strada, il disprezzo dell’altro, la violenza gratuita, lo scomparire nel nulla, la vita che non valeva più niente, la pietà che era morta. Noi avevamo un’enorme speranza del futuro, pieno di illusione, di entusiasmo. Sarebbe stato bellissimo e con un certo senso di definitività. Saremmo stati molto meglio di come stavamo. Lo abbiamo consumato così tanto che sembrava arrivasse da un momento all’altro. E’ stata l’utopia della rivoluzione, del cambiamento, di un mondo nuovo che una generazione nuova, altra, avrebbe portato quasi naturalmente con sé, solo perché giovani, non più segnati dal mondo vecchio. C’era un millenarismo che convinceva e affascinava: con poco sarebbe cambiato tutto. E come ogni millenarismo il male, le contraddizioni, non si vedevano, in una passione fortissima, spirituale secondo i più attenti interpreti, che ha scosso una realtà nelle sue radici. La fragilità, le debolezze, le ideologie e la rinuncia, la felicità individuale che sembrava sufficiente per arrivare a quella collettiva e che poi ha significato solo un benessere senza il prossimo, lo scontro con il male del mondo, il veleno della disillusione, l’eccesso di privato e la scomparsa del pubblico. Certo, da quel millenarismo sono nate anche tante cose importanti, insieme a non poche confusioni e presunzioni. In genere sono quelle che non hanno smesso di volere rendere migliore il mondo, che sono rimaste insieme, che sentono lo scandalo dell’ingiustizia, che stanno vicino ai poveri, che guardano al mondo come casa propria. Oggi il futuro mette paura, avvolto da molti punti interrogativi, e ci accontentiamo che sia almeno sostenibile. Usciremo migliori o peggiori dalla pandemia? Non è affatto scontato che ne usciamo migliori. Facilmente ne usciamo peggiori, più induriti, incattiviti, arrabbiati, arroccandoci nel diritto di pensare a noi stessi perché defraudati di quello che appariva acquisito e meritato, spinti al “salva te stesso” perché c’è una pandemia, anche se sappiamo che ne usciamo solamente insieme.


Quanto al discorso del lavoro farei una grande distinzione: la differenza fra imprenditori e speculatori. Lo speculatore non ha il problema del futuro, gioca tutto sul presente, usando tutte le qualità che bisogna riconoscergli: la rapidità, la furbizia, la capacità di arrivare per primo, di capire dove va il mercato, di assecondarlo. Insomma, lo speculatore è uno che ci sa fare, ma non ha il problema di costruire, ha il problema di prendere, di ottenere per sé.


La tentazione dello speculare affossa il Pnrr, che è un piano che riguarda il futuro. Credo che in questi mesi si decida parecchio: questo treno passa adesso, non è che ne ripassa un altro tra due anni, condizionerà i prossimi decenni e vi riguarda. Lo speculare persuade tutto con la corruzione, che diventa un modo di vivere, quasi irriflesso: il diritto diventa piacere, la furbizia prevale sul merito, l’interesse privato su quello comune. Come opposto a questo, abbiamo creato un sistema che ricorda i maniaci dell’antivirus per il computer: ne abbiamo installati talmente tanti che alla fine non funziona più niente e non siamo stati affatto protetti dalla corruzione.


Parliamo di noi e parliamo dell’Europa. Non è stato un accenno occasionale quello fatto nell’introduzione sull’Europa: l’Italia e l’Europa. L’Europa è il testamento di milioni di morti – nella Seconda ma anche nella Prima guerra mondiale – da cui è nata. Non c’è futuro senza scommettere seriamente sull’Europa. C’è una questione locale e ce n’è una universale che passano per l’Europa.


Papa Francesco ammonisce spesso: non fatevi rubare il futuro. Chi ce lo porta via? La logica dello speculatore, del vivere per se stesso, del consumo che ci fa rubare le risorse e il futuro al prossimo. Qualche volta ce lo portano via e neanche ce ne accorgiamo. Lo accettiamo con rassegnazione, come il precariato, che ruba il futuro e non lo fa mai realizzare o cercare e che è un’offesa al lavoro, una condizione inaccettabile che purtroppo accompagna la vita di tanti. Non ci può essere futuro se un uomo resta precario. Il precariato è una convenienza per chi specula, ma è alla fine un peccato perché de facto è sfruttamento. La logica dello speculatore è la logica del consumismo. Quando nel 2018 Papa Francesco venne a Bologna disse: resistete alle sirene del consumismo. Lo disse all’Università, ma lo disse per tutti, e aveva ragione perché il consumismo non ha futuro e non lo vuole, non ci pensa perché è solo un’estensione del presente, perché tutto è giocato sul presente. Il consumismo ha sirene molto convincenti, anche se in realtà non le afferri mai, ti fanno sempre mancare qualche cosa. Al consumismo si può resistere in due modi, entrambi necessari: quello di Ulisse che si legò all’albero della nave, il sacrificio, che ha senso se lo fai per qualcuno, altrimenti perché? Ad esempio per chi non c’è ancora, i vostri futuri figli, qualcuno per cui valga la pena vivere. Io sono il quinto di sei e penso all’insicurezza che c’era, al gusto di dare e trasmettere vita, di non mettere limiti. Non ho dubbi nel consigliarvelo. Tra l’altro, il tema della denatalità non è secondario: non c’è molto futuro se non c’è il “per chi”. Comunque, c’è Ulisse, e poi c’è Orfeo. Orfeo compose una melodia più bella di quella delle sirene, più bella di quella del consumismo. E questo è il mio augurio per voi, che la melodia del bene comune (e che non siano parole enfatiche con cui ci si riempie la bocca, altrimenti è meglio non parlarne) sia più bella di quella del consumismo, una cosa per cui valga la pena perché è più attraente delle sirene. 


Il potere. Potere è un termine che può sembrare negativo, ma penso che nell’introduzione sia stato detto bene: noi abbiamo un potere, il problema è sempre per chi lo fai e come lo fai. Non dobbiamo scappare, non essere mediocri. Noi dobbiamo essere umili, nel senso di lavorare, nel senso delle cose piccole, ma nello stesso tempo non possiamo essere mediocri, dobbiamo pensare anche alle cose grandi. La mediocrità non ha niente a che vedere con l’umiltà. Il futuro richiede gente grande, che non si accontenta di poco: per questo i due termini, umili e grandi, vanno d’accordo. Il mediocre sarà contento del piccolo potere per fare qualcosa che serve per lui. Il problema è sempre il “per chi?”.
Non bisogna aver paura del potere. Un mio vecchio concittadino diceva che il potere logora chi non ce l’ha. Più passa il tempo e più penso che logora chi ce l’ha. Ci mette un niente a diventare arrogante, a credersi un padreterno, a credersi senza limiti o a non accorgersene più, a non sapere fare le cose semplici, a entrare nel labirinto della considerazione e del ruolo che fanno perdere se stessi ma spesso anche il motivo per cui fare le cose; a rubare sia nel senso stretto del termine sia in quello simbolico… Quindi è vero che il potere logora chi non ce l’ha, ma logora molto anche chi ce l’ha. Perché il problema è sempre per chi lo fai. Umili e grandi, dicevo prima, dobbiamo ricordare da dove veniamo e sapere dove vogliamo andare, perché la tentazione è sempre in agguato. Parlare di lavoro, futuro e potere, escludendo l’etica cioè il bene comune, è pericolosissimo. L’etica non è un freno a mano. C’è un’idea di mercato per cui l’etica è qualcosa di eccessivo. Il mercato va avanti comunque, certo, c’è qualche milione di persone che resta indietro, però qualcuno va avanti e poi forse arrivano pure loro. Peccato che non abbiamo mai chiesto il permesso a quelli che restavano indietro. In realtà, senza l’etica il mercato impazzisce, va contro se stesso. Parlare di bene comune e di persona al centro può sembrare astratto, qualcosa che serve l’etica stessa. Serve invece per non perdere tutto, per non far saltare il mercato stesso.
E veniamo all’amore politico. Nella “Fratelli tutti” c’è una grande visione per il futuro, per tutti, non solo per i credenti. L’amore e la politica tendenzialmente non dovrebbero andare d’accordo, quasi si escludono; in politica lascia perdere i sentimenti, mettiti molti guanti. Invece non puoi fare politica senza amore, senza passione, senza il “per chi” di cui parlavo prima. Il Papa fa un esempio, perché la politica non è soltanto una questione di tecnica amministrativa, qualunque scelta facciamo è per la polis: se ci sono degli anziani che devono attraversare un fiume altrimenti non ce la fanno a vivere, amore politico è costruirgli un ponte. Bisogna guardare in faccia – toccare, dice il Papa – chi ha un bisogno reale, le persone per cui pensare il loro e nostro futuro, nella convinzione che il mio dipende se lo hanno loro, perché soltanto insieme se ne esce. E soltanto insieme agli altri ne esco anche io! L’io trova la sua vera realizzazione non dentro di sé ma insieme agli altri. Noi siamo molto preoccupati del nostro io, ma ricordiamoci che senza il noi l’io non ha futuro e soltanto nello sforzo del bene comune trovo anche il mio bene.

 

Anche i cattolici sono divisi sulla risposta politica alla crisi ucraina. L’anelito alla pace prende due strade diverse: quella del Papa che propone con forza e coraggio il disarmo come via per raggiungere la condizione di una pace duratura, e quella, che sembra praticamente e immediatamente più efficace, di un sistema di difesa comune. Quello che propone il Papa è troppo? Sarebbe il massimo, ma non si può fare. E quindi come politico cattolico come devo operare?

Penso che l’appello che fa il Papa sia moralmente ineccepibile, dovremmo preoccuparci del contrario, se dicesse: armatevi e datevele di santa ragione. Tra l’altro la guerra in Ucraina tra i tanti motivi per cui fa male è che è anche una guerra tra cristiani, segno di come tra cristiani c’è una debolezza della religione rispetto ai nazionalismi, un tarlo che riappare, e l’uso che può esserne fatto: una delle chiese più importanti in Ucraina dipende dal patriarcato di Mosca, e il suo metropolita ha preso le distanze dal patriarca Kirill. Quello che dice il Papa è irrealistico? Penso di no. Penso che c’è il diritto alla difesa, certo, ma la vera risoluzione della guerra non è la guerra ma la pace e non ci arrivi con la guerra, o se ci arrivi, a che prezzo! Noi abbiamo dissipato tanti strumenti e in questo senso è importante che l’Europa non corra dietro alla logica della guerra ma riaffermi una composizione pacifica dei conflitti. Nella nostra Costituzione si afferma il diritto alla difesa, e nella seconda parte dell’articolo 11 si dice che possiamo perdere sovranità se questo serve a garantire la pace. La sovranità che cediamo all’Europa penso che sia sovranità guadagnata. Alla pace dobbiamo dare tanti strumenti e difenderli. Poi è chiaro che quando c’è l’incendio si può fare molto meno, il problema è evitarlo, prevenirlo.

 

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una crescente presenza dello stato nelle nostre vite, l’abbiamo visto per la pandemia e ne portiamo ancora i segni, ma anche in economia, nel rapporto tra Stato e cittadini abbiamo visto un gran numero di bonus e di nuovo debito pubblico. Come ricostruire questo rapporto Stato-cittadini?

Una certa irrazionalità confonde un’azione – che è in fondo stata simile in tutti i paesi con l’invadenza nella vita delle persone, tipica dei regimi totalitari. C’è dell’esagerazione. Sono rimasto invece stupito che in fondo ha funzionato. Quanto alla logica dei bonus, è pericolosa perché facilmente può sconfinare nella speculazione, nell’approfittarne. Ripeto: l’imprenditore realizza se stesso, lo speculatore consuma per se stesso e anche se stesso, perché non costruisce, riduce tutto a sé.
Stato invasivo? Noi viviamo in un paese che, mi sembra, ha caso mai il problema di istituzioni troppo deboli, che funzionano poco, quasi un non sistema, a volte non comprensibile. Torre Angela, il quartiere alla periferia di Roma dove sono stato parroco, ha 70 mila abitanti e tutte le costruzioni erano abusive. Un’università tedesca mandò dieci studenti per capire come era possibile che in una capitale europea si fosse costruito abusivamente negli anni Sessanta e Settanta un quartiere di quelle dimensioni! 

 

Il potere è qualcosa di imprescindibile per costruire, se no si resta nella logica del piccolo è bello, che cosa l’ha aiutata a rimanere integro nella sua esperienza di potere?

Piccolo è bello? Anche no. A un certo punto ti accorgi che piccolo non è bello. Che se sei piccolo magari sei a libro paga di qualcuno e neanche te ne sei accorto. Che cosa ci lascia integri? Le motivazioni, il perché e il per chi, e anche il fatto di non essere da soli, di avere delle persone con cui tu cammini e che ti dicono: ma cosa stai facendo? Ma chi ti credi di essere? Ricordati dei poveri e ricordati di farlo gratuitamente, con intelligenza, passione, creatività, umiltà! Lì per lì qualcuno che ti sgonfia un po’ fa male, ma dopo ci fa ritrovare chi siamo. Aiuta. Qualcuno, usando una semantica importante, direbbe: una compagnia, perché l’uomo è comunione e trova e ritrova sé stesso solo insieme al prossimo.

 

A cura di Ubaldo Casotto

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