(foto Ap)

Fratelli di chi?

La partenza del Papa e i segni dell'immutabilità irachena

Daniele Raineri

Dopo l’incontro e la gioia rimane il senso di immutabilità che da decenni opprime l’Iraq

Erbil, dal nostro inviato. Sabato sera sono andato alla processione dei cristiani nella piana di Ninive nella città di Qaraqosh. Migliaia di persone da tutta la zona sono venute a cantare, ad abbracciarsi, a pregare ad alta voce, a ballare al ritmo di musica. Calava il buio, il cielo verso Mosul (verso il pericolo, perché i fanatici vengono da quella parte) è diventato rosso, i fedeli hanno acceso un falò e le strade erano così affollate che in qualsiasi direzione non si vedevano che teste e fiaccole e altra gente in arrivo. Qaraqosh è una cittadina placida troppo a lato della direttrice per Mosul per essere trafficata e di solito è semideserta, ma per due giorni si è trasformata in un posto nuovo, in un luogo in Iraq dove i cristiani festeggiano – dentro una bolla di sicurezza, ma festeggiano – e rivendicano la propria identità. Donne ululanti, giovani arrampicati in cima ai muri, uomini compatti a marciare, famiglie a riempire ogni spazio, icone agitate sopra le teste, monaci sopra un furgone scoperto. È il picco positivo dell’esistenza della comunità cristiana attorno a Qaraqosh, dopo gli anni del picco negativo, e qui se ne parlerà per decenni. C’è un senso di rivincita storica: “Siamo ancora qui”. Ma se si va a chiedere più a fondo, se si va a indagare oltre la gioia di questo incontro con la Storia, allora c’è da fare i conti con il senso di immutabilità delle cose che da decenni opprime l’Iraq.

   
I fanatici restano fanatici, il governo inefficiente resta inefficiente, le differenze insanabili restano insanabili. Se chiedi ai cristiani della piana di Ninive se il concetto di fratellanza può essere una soluzione al problema della loro esistenza da minoranza in una regione pericolosa, spalancano le braccia. Ti guardano come se lo sforzo di ottimismo, pure in mezzo alle celebrazioni, fosse troppo oltre le loro capacità. Il motto del Papa, “siete tutti fratelli!”, è dovunque sui muri e sulle facciate e sugli striscioni lungo la strada, ma il guaio è che per essere fratelli tutti ci vuole fratellanza anche dall’altra parte, quella di tutti gli altri iracheni. E non ci sono garanzie che funzionerà. 

  
Ieri l’intelligence irachena ha annunciato di avere arrestato a Baghdad tre terroristi dello Stato islamico che volevano fare un attentato al Papa, sono annunci sempre difficili da leggere perché ci sono sempre distorsioni ed esagerazioni, ma anche se fosse un comunicato per mostrare efficienza investigativa il quadro generale è che lo Stato islamico resta attivo e impermeabile a qualsiasi appello.

 
Recluta nuovo personale nei grandi campi per sfollati che da quattro mesi il governo prova a svuotare, senza riuscirci del tutto perché le famiglie accusate di essere dello Stato islamico sono respinte e rimbalzate un po’ dappertutto e finiscono per creare un serbatoio di fanatismo. Tra i segni dell’immutabilità irachena c’è Mosul, che è rimasta una città di macerie anche se la guerra è finita quattro anno fa. Ma l’amministrazione della regione è contesa da due campi, uno più filo iraniano e l’altro più filo americano e quindi i lavori e gli investimenti per rimettere a posto la ex capitale degli estremisti e per farla ripartire non arrivano. L’Unesco si sta occupando di rimettere a posto con soldi stranieri la moschea di al Nuri, quella celebre per il video del Califfato, e  invece fuori da quel cantiere pulito e ordinato è un disastro. E Mosul bloccata in stato comatoso vuol dire che la guarigione e la ripresa dell’Iraq tarderanno ancora. I mosulawi, gli abitanti, notavano in questi giorni per contrapposizione dolorosa che il Papa ha fatto quello che i politici non si sono mai sognati di fare, venire a sedersi in mezzo ai cumuli di detriti lasciati dalla guerra.

 

Pure le milizie sciite saranno ancora un problema. Gli esperti dicevano che i possibili scontri con i cristiani erano un rischio reale e forse questa cosa non succederà più grazie al viaggio papale, ma quelle milizie hanno come obiettivo finale la cacciata degli americani dell’Iraq e considerano i tre giorni di Francesco nel paese come un semplice break dalla solita routine di guerra. Inoltre fanno capo all’altro polo degli sciiti, quello khomeinista dell’Iran, e non quello quieto del Grande Ayatollah Ali al Sistani che ha parlato con Francesco. Promettono di ripartire con i razzi e con gli attacchi negli stessi luoghi che in questi giorni hanno visto passare il corteo del Papa. I cristiani di Qaraqosh ballano, pregano e sfidano il senso di immutabilità dell’Iraq, ma si chiedono anche: io sono fratello a te, tu lo sei a me?
  

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)