L'inchiesta racconto

La pandemia dei nuovi poveri

Marianna Rizzini

Perdere il lavoro, non avere più una casa, non riuscire a fare la spesa quotidiana: il long Covid è anche questo. E spesso è un trauma senza precedenti. Storie di dolori, ansie e dignità  raccolte nei centri di  assistenza romani

Guardare la stiva del Titanic, e non il ponte, mentre la nave si inabissa. Guardare chi sta laggiù che se non risale non si salva, e per salire deve comunque sfidare i flutti che lo separano dall’aria e dalla luce. Tenetela a mente, la stiva del Titanic, dice Fabrizio Schedid, responsabile del polo sociale Roma Termini (Binario 95 ed help center). E guardando, ascoltando, emergeranno le verità che la percezione sembra già dire, e cioè che da due anni a questa parte le strade, di Roma in particolare, si sono riempite di persone che hanno oltrepassato la soglia di povertà, e che prima avevano vite non agiate ma dignitose. Lo si percepisce ma spesso non ci si sofferma, come restasse un filtro, come se la stiva del Titanic giacesse sommersa sotto il livello della vita frenetica degli altri, quelli che anche se in difficoltà continuano a galleggiare. Quelli che non si sono mai trovati a dover dormire in macchina.

 

“E’ successo a due persone che sono passate da questo centro, dal 2020 a oggi”, racconta Lucia Anania, responsabile dell’Emporio della Solidarietà Caritas in via Casilina Vecchia. Persone che non si erano mai trovate, prima, a dover scegliere tra un alimento e l’altro con una tessera punti, a dover fare la doccia in un centro di assistenza o a mettersi in fila per un pasto.


E’ un martedì mattina di sole, e il piazzale dell’Emporio – quasi un angolo di paese con panchine e alberi attorno al caseggiato del centro di accoglienza (dove dormono ottanta persone), si popola di carrelli, madri e padri in fila, italiani e no. “Posso prendere anche un pacco di pannolini per il bambino?”, dice l’uomo all’ingresso, evidentemente sprovvisto della tessera aggiuntiva per neonati. Lucia gli fa un cenno affermativo e alza le spalle: “Va bene, prendilo”. La tessera punti a parte, gli servirebbe, e anche per quella viene rilasciata dietro consegna dell’Isee. Media-reddito degli Isee presentati: 6.000 euro. Sulla tessera ci sono 90 punti, per quattro settimane, più 45 per ogni bambino al di sotto dei due anni. I punti vanno consumati tutti, sennò scadono. Con la tessera si entra e si sceglie dagli scaffali: al posto del prezzo in euro, compare il numero di punti per i prodotti donati da varie aziende, tra cui Coop e Barilla. Il latte fresco della Centrale, nella quota donata alla Caritas, spunta da un frigorifero. Alcuni prodotti sono contingentati: non si possono prendere più di tot pezzi per persona alla volta. “E meno male”, dice Lucia, “che per alleviare i danni collaterali da Covid la Regione Lazio ha destinato fondi ad aziende in crisi del ramo alimentare che poi danno prodotti ai nostri empori: qui viene chi ha perso il lavoro e chi non ha più una casa. Persone sopra i 50 anni che non riescono a ricollocarsi. Badanti, proprietari di piccoli negozi falliti per il lockdown. Nel primo periodo, abbiamo avuto anche 2.500 persone in più in pochi mesi. Ora abbiamo attive circa 600 tessere”.

 

L’Emporio è uno dei centri attivi su Roma, e da tre mesi l’aiuto arriva anche agli ucraini in fuga dalla guerra. Nel piazzale si ferma un camion: altri alimenti. Le persone con il carrello salutano e se ne vanno. Vengono abitualmente. “Abbiamo anche un deposito di valori ritrovati”, pacchi spediti che non hanno trovato il destinatario: “C’è di tutto, e tutto serve”, dice Lucia. Intanto Emanuele esce dall’Emporio con la spesa. Ha 40 anni, lavorava in un albergo. Il Covid l’ha spedito in cassa integrazione, con una moglie e un bambino a casa, “e per fortuna abbiamo ancora la casa”. Prima Emanuele aveva sempre lavorato. Ha saputo di questo centro da un ragazzo indiano che a sua volta era stato aiutato. “Senza l’aiuto alimentare, non saprei come fare”, dice Emanuele quasi scusandosi di dover andare via. Anche Sultan ha fretta, deve portare la spesa a punti a sua moglie. Originario del Bangladesh, lavorava in Italia da 13 anni. Il Covid l’ha mandato non in cassa integrazione, ma in terapia intensiva, per due mesi. Conseguenza: perdita del lavoro in un negozio, anche per via del long Covid che gli ha lasciato in eredità dolori e fatica, in concomitanza con la nascita della figlia e del pagamento delle prime rate di un piccolo mutuo acceso in banca. “Non potevamo sapere che cosa sarebbe successo”, dice. Da lì alla perdita di tutto il passo è stato breve. Riprendersi? “Non so quando, spero”, dice Sultan.


I nuovi dati Istat sulla spesa per consumi delle famiglie e sulla povertà assoluta in Italia, riferiti al  2021 e pubblicati l’8 marzo scorso, parlano di stabilità dell’incidenza della povertà assoluta rispetto all’anno precedente, altro anno di pandemia, con uno spartiacque geografico: la povertà è cresciuta al Sud, tra i minori e tra le famiglie numerose e di stranieri, mentre è calata al Nord. Nel Mezzogiorno riguarda il 10 per cento delle famiglie e il 12,1 per cento degli individui, mentre al Nord il 6,7 per cento delle famiglie e l’8,2 per cento degli individui. Al Centro, la povertà cresce meno, dal 5,4 al 5,6 per cento per le famiglie e dal 6,6 al 7,3 per cento per gli individui. Tra il 2019, anno prepandemico, e il 2021, l’incidenza della povertà è cresciuta più della media per le famiglie numerose (4 o più componenti), per quelle con almeno un minore o composte da soli stranieri o con la persona di riferimento in un’età compresa tra 45 e 54 anni. Il fatto che nel 2021, anno di parziale ripresa economica, il numero dei poveri non sia diminuito, mostra l’effetto prolungato del Covid sull’aumento dell’incidenza della povertà. Un problema che viene comunque da lontano, e cioè dalla crisi finanziaria del 2008 e da una ripresa a tratti presente ma mai “stabile”, come notava qualche mese fa, a proposito dei dati Istat, il sito LaVoce.info.


Ed è lì, all’intersezione tra disagio sopportabile e povertà assoluta, che il Covid ha colpito. La stiva del Titanic riesce a inghiottirti in un giorno. Non sai se risalirai. Al Binario 95, nel centro polivalente di accoglienza per persone senza fissa dimora, sanno molto bene che a scendere ci si mette poco, e a riemergere non si sa. Fondato da Alessandro Radicchi, presidente di Ec Onlus, Binario 95 si trova in uno spazio messo a disposizione dalle Ferrovie dello Stato, uno spazio con salone, biblioteca, mensa, cucina, docce, area per il riposo e sportello di assistenza, dove l’aiuto è finalizzato al poter ripartire con le proprie gambe, ritrovando, oltre alla dignità, la forza per reinserirsi. Ma non è un percorso lineare. Fabrizio Schedid racconta la storia di una signora ungherese che vive per strada, all’Esquilino. Una signora di circa cinquant’anni che, nonostante dorma per strada, ha cura di sé. Ma non si sa se varcherà mai la soglia di Binario 95. “Con lei è difficile proprio perché quello che le è accaduto è stato un vero trauma, un terremoto emotivo, oltre che economico. Lavorava come badante, faceva una vita tranquilla. Ora è come se non riuscisse neanche ad avvicinarsi al centro accoglienza. Forse per paura di chi e che cosa può trovare: le altre persone, le voci, il dolore, la vicinanza con il disagio. Bisogna pensare a che cosa succede nella mente di chi si ritrova a dormire per strada e non partiva dalla strada: la prima notte per il terrore non chiudi occhio, la seconda neanche, dopo una settimana rischi di perdere lucidità, dopo un mese come ti presenti, anche fosse, a un colloquio di lavoro? E poi, la vergogna: vergogna di confessare la difficoltà ai parenti lontani, vergogna con sé stessi, sfiducia. C’è chi, venendo da situazioni drammatiche – penso a chi ha attraversato il deserto africano per imbarcarsi verso l’Italia – ha sviluppato una sorta di resistenza che, paradossalmente, una volta che si chiede aiuto, permette di avvicinarsi all’uscita del tunnel. Chi invece si ritrova inaspettatamente per strada, non è attrezzato a livello psicologico, sente svanire tutta la forza. Se parti da 0, metti in conto di dover passare dal livello 0,5 per tirarti fuori. Il processo inverso ti annichilisce: senti che sei precipitato, dopo sei mesi trascorsi immobile su una panchina, in preda agli attacchi di panico”.

 

Sabato mattina è giorno di distribuzione degli aiuti alimentari al centro di assistenza aperto dalla Comunità Sant’Egidio in piazza dei Consoli, al Tuscolano. Le persone si mettono in fila, con il numeretto. Aspettano di fare il colloquio preliminare, anche se già sono state lì, “per fare il punto della situazione”, dice il dirigente Mario Gabbarini, “e sentirsi accolte”. Si sorridono, si salutano. Francesco saluta con il pugno da tempi di Covid. Non l’aveva mai fatto, dice, di andare a chiedere aiuto. Ha la moglie invalida, una famiglia in cui, morta la madre, la sorella li ha “buttati fuori di casa”. Si vergognava molto, dice, all’inizio, di essere dovuto andare a vivere in una stanza, praticamente, e di non arrivare a fine mese. “Non si va proprio avanti”. Francesco è disoccupato da tempo. “Tiriamo avanti grazie a loro”, dice, indicando i volontari e raccontando che le bollette “piovono come macigni”. Un tempo lavorava, Francesco. Non ci fosse stato il Covid, probabilmente avrebbe lavorato ancora. Ma il negozio di mobili dove aveva un impiego in nero è fallito. Chi assumerebbe uno di 65 anni, dice, con una retinopatia e il diabete? Mi vergognavo, ribadisce, “ma ora sto benino”. Ricorda i tempi in cui “si poteva andare a mangiare una pizza al mese, mentre ora senza aiuti non mangiamo”. Poi si gira a guardare la piazza assolata. “E’ il mio turno”, sospira rimettendosi in fila, sorridendo e guardando il suo numeretto.


Anche Stefania sorride, portando un carrello della spesa. Lavora – per poche ore –  in una mensa universitaria. Un tempo arrotondava con gli straordinari e altri piccoli impieghi, sempre legati agli alloggi universitari. Poi è piombato il Covid, con conseguente crollo del reddito e vendita della casa su cui gravava un mutuo di più di 600 euro mensili. “Impossibili da pagare”, dice, “senza straordinari”. L’affitto ha imposto ancora più sacrifici, in cassa integrazione. Per fortuna, dice Stefania, “frequentavo Sant’Egidio a livello di volontariato, tramite un’amica, quindi sapevo della possibilità di poter chiedere una mano”. Poi prende un sacchetto e saluta altre persone che si mettono in fila nella giornata quasi estiva, con bambini e genitori anziani che aspettano di fronte, al parco. Stefania aiutava chi si trovava nella situazione in cui ora si trova lei, che ha anche una figlia e dei nipoti. Spera sia tutto temporaneo: temporanea la riduzione del lavoro, temporanea la sospensione della vita per com’era prima. Ecco, dice stringendo forte la mano sulla busta: “Magari anche prima a volte facevamo fatica, e c’erano casi in cui accettavo lavori in più per racimolare qualcosa, ma questo non l’avevo previsto”. Meno male che potevo almeno venire qui, ripete, mentre varca la soglia reale tra un albero e una macchina, e quella immaginaria tra una vita e l’altra.


E se Stefania prima aiutava e ora è aiutata, Serena ha fatto il percorso inverso: da aiutata ad aiutante, da persona che ha dovuto “vincersi” per dire “datemi una mano” a persona che vuole “restituire  qualcosa” a chi “le ha permesso di “risalire lungo la scala, un gradino alla volta, giorno per giorno, ritrovando anche la stima perduta di me stessa”, anche se non è ancora uscita dalla situazione di necessità, dice commuovendosi.

 

Partendo dalla fine, Serena è una signora di 65 anni che al centro Sant’Egidio accoglie chi arriva e racconta perché è lì, e si sente chiedere “come stai?” – la domanda più importante, dirà poi un altro ospite, Giancarlo. Si commuove, Serena, e chiede scusa, mentre descrive con le mani quella scala – un gradino alla volta, dice ancora, con lo sguardo calmo: “Prima non vedevo la scala ma solo il baratro”. Partendo dalla fine, Serena si trova a casa di sua figlia, con suo marito, “e per fortuna che mia figlia poteva ospitarci”, dice. Si sente viva, sì, ma in una vita che, nel suo immaginario, non avrebbe mai dovuto essere la sua. Partendo dall’inizio, Serena e suo marito, poco più di due anni fa, percorrevano tranquilli l’età in cui si pensa di raccogliere i frutti del proprio lavoro, nel loro negozio di giocattoli artigianali: “Bambole, fate, oggetti di arte medioevale”. Conosciuti nel quartiere, i due coniugi avevano una clientela fissa, e qualche avventore di passaggio, incuriosito dall’universo fantastico evocato tra gli scaffali. Non si facevano affari a valanghe, ma c’era un reddito costante, grazie a un’attività amata e costruita insieme. Poi il Covid, “e il mondo che ci cade addosso”, dice Serena: il negozio chiude, la casa deve essere venduta “per pagare i debiti”. Alla sua voce si aggiungono lacrime mai rabbiose. “Non ci è rimasto niente, niente di niente. Ci siamo ritrovati senza fissa dimora”. Dopo tanti anni di lavoro. Senza neanche reddito di cittadinanza per problemi burocratici che Serena spera di risolvere. All’inizio non reagivano, lei e suo marito. Erano annichiliti, dice. Ma non può finire così, si è detta un giorno. “Mi sono fatta coraggio e sono venuta qui – ed eccomi qui. Non posso non ringraziare almeno con il mio tempo la seconda possibilità che mi è stata data. Ed è come se dessi a me stessa dando agli altri”.


Poi c’è Antonella, che di lavoro faceva la badante, come tante badanti che la pandemia ha reso  vittime collaterali dell’effetto economico più grave: i licenziamenti a chi non aveva una rete. “Non ho niente da nascondere”, dice Antonella mentre scherma il sole con la mano. “Ogni tanto aiutavo con la distribuzione panini per gli indigenti, e non pensavo di diventarlo”. Ed è un’altra storia, la sua, che si specchia nelle vite dei più sfortunati venuti prima, quando non si ci si aspettava che il confine tra necessità e povertà, e tra indigenza e bisogno, fosse così sottile. La persona di cui Antonella si occupava è morta nel febbraio 2020, non di Covid, ma mentre il Covid stava arrivando. Troverai un altro lavoro, le dicevano. Invece Antonella ha trovato il lockdown. E la difficoltà di essere di nuovo assunta. Intanto il figlio gommista aveva perso il suo, di impiego, e la figlia con un bimbo stessa cosa, con l’aggravante che il padre del piccolo era scappato a suo tempo, pur facendosi sentire di tanto in tanto. Vedova, Antonella ha un Isee da 6.000 euro, e se la pensione minima del marito defunto poteva aiutare, la perdita del lavoro, causa morte della signora da cui lavorava da 16 anni, ha spezzato ogni orizzonte, in quel maledetto marzo di due anni fa. Anche se Antonella e i figli hanno provato a rialzarsi. “Ma il primo anno è un disastro”, racconta: sua figlia cercava impiego almeno per qualche ora, per fare le pulizie. Solo che non ci si trovava nella serie tv “Maid”, quella in cui Margaret Qualley combatte contro la povertà per la figlia piccola, contro tutti e contro tutto. Non è la serie “Maid” nel bene e nel male: qui c’è una famiglia, ma non ci può essere l’epica. I risparmi se ne sono andati nel giro di qualche mese. “Si può solo mettere assieme un giorno dopo l’altro, sperando di farcela”, dice Antonella.

 

Vincenzo sta per compiere 81 anni, e lo dice contento, accolto dai volontari e dai dirigenti del centro. Quando lavorava, lavorava nel settore alimentare. Da qualche anno vive in una casa occupata (da lui). Una casa dove stava già prima, aiutando una persona anziana poi deceduta. Sono rimasto dentro, non mi hanno cacciato, anche se hanno venduto tutti i mobili, dice. Si aspetta che il compleanno sia bello come quello degli 80 anni, alla presenza del vescovo, dice ai responsabili della distribuzione aiuti che lo conoscono e lo considerano una specie di nonno collettivo, anche perché Vincenzo ha quattro figli e una miriade di nipoti. Per aiutare chi lo aiuta, raccontano nel centro, arriva presto la mattina e parcheggia, così tiene il posto macchina per chi arriva dopo e deve lavorare. “Sono contento di venire qui: mi salutano, a casa non ho nessuno”, dice mettendosi in fila.

 

Giorgio Bevilacqua, responsabile della sede Sant’Egidio al Tuscolano, interviene per raccontare la storia del centro, nato il 25 aprile del 2020, in pieno lockdown. “Arrivavano segnalazioni di gente che da un giorno all’altro non lavorava più”, dice. Lavoro sommerso che si tramutava in disoccupazione senza sbocchi. Arrivavano persone mai viste prima lì. Italiani, filippini, ma anche, all’inverso, persone che volevano aiutare. All’inizio si aiutavano gli anziani e i disagiati del quartiere portando pacchi a casa. Poi, dopo il lockdown, il grande afflusso. I prodotti alimentari provengono da aziende donatrici, ma anche da forni e bar della zona. Oppure c’è chi dona una parte della spesa davanti ai supermercati, nelle giornate che Sant’Egidio dedica a questo tipo di raccolta. “La cosa strana e bella”, dice Giorgio, “è vedere che cosa le persone ci lasciano nel carrello: chi cioccolata, chi carne, ognuno lascia quello che pensa possa servire a chi si trova con il nulla davanti improvvisamente”. Purtroppo non è finito, l’effetto lungo del Covid, dice Giorgio. “Ora arrivano quelli che nel 2020 si sono indebitati. O persone sfrattate dopo la fine del blocco sfratti. Qui a volte mettiamo in comunicazione anche la domanda con l’offerta, ma non è facile”. Il pacco di aiuti alimentari è uguale per tutti, ogni quindici giorni, con l’aggiunta di quello per i neonati. Dentro, nel magazzino, ci sono casse di pagnotte imbustate – un pane che resta fresco una settimana. E legumi, riso, tonno, pasta, formaggi. Ma ci sono anche sale doposcuola e sportelli di ascolto, quelli dove ci si siede, come si diceva, prima di ritirare il sacchetto, per rispondere a quel “come stai” che fa sentire meglio molti. Arrivano persone anche dall’Ucraina. Accetta di parlare una ragazza di Leopoli, in fila con sua figlia di undici anni. Sa un po’ di inglese. “Provo”, dice: “Per fortuna avevo qui mia madre, mio marito è rimasto là, io voglio tornarci presto”. Lo dice sorridendo, mentre la ragazzina si guarda intorno: “Segue la scuola a distanza dall’Ucraina, come durante il lockdown”, dice la mamma. Il dirigente Mario Gabbarini ricorda che le presenze “sono aumentate negli ultimi due anni del 30-40 per cento”. Lo colpisce ancora il fatto che le persone vogliano restituire quello che gli è stato dato, anche se in difficoltà: magari stando con i bambini al doposcuola o preparando i pasti collettivi del giovedì. “L’importante è ricucire anche il tessuto umano”, dice Mario, “e fare in modo che non si arrivi all’emarginazione per lo choc. E ascoltare, coinvolgere giovani che altrimenti sarebbero per strada, magari in compagnie pericolose. Si fanno anche corsi per badanti, nei nostri centri”. Ed è una strana nemesi per la professione colpita dal Covid e ora molto richiesta, perché chi faceva il badante, ha perso il lavoro e ne ha trovato uno diverso non vuole più farlo, e comunque non ci sono più molte persone disponibili.


Giancarlo, il signore che si sente sollevato quando gli chiedono “come stai?”,  si stacca dalla fila e ripete che quel “ciao come stai?” lo fa sentire bene: “Vuol dire che si interessano a me, che sono un individuo diverso dagli altri e importante come gli altri”. Nonostante sia vivo il ricordo del licenziamento, anni prima. Dice che nel posto di lavoro aveva denunciato atteggiamenti sbagliati di un capo, dice che ha detto la verità, d’accordo con sua moglie. Non pensando che sarebbe arrivato addirittura il licenziamento, e peggio ancora il Covid, con la sua mannaia sulla ricerca di altri impieghi. “La timidezza e la vergogna, all’inizio, mi impedivano di venire qui”, dice. “Ma mi sono reso conto che mi posso far vedere senza ipocrisie, senza maschere. C’è tanta gente come me. Mia moglie, polacca, lavorava a partita Iva, e ha perso il lavoro nel periodo del lockdown. Sopravviviamo con un solo reddito di cittadinanza, con cui paghiamo l’affitto e poco altro”. Giancarlo pensa che “il sistema capitalistico abbia fallito”. Si sveglia tutte le mattine alle 5 e 30: “Così, per abitudine e per sentirmi utile”, dice.


L’emergenza è permanente, dice il fondatore di Binario 95 Alessandro Radicchi, presidente della cooperativa sociale Europe Consulting Onlus. Radicchi parla anche di “aggravamento”, in questi ultimi due anni, e di scivolamento all’indietro lungo la scala del bisogno: “Dalla povertà relativa alla povertà assoluta, dalla povertà assoluta all’emarginazione”. Dai dati dell’Osservatorio cittadino sulle Marginalità sociali di Roma Capitale, dice Radicchi, “si possono vedere ogni giorno il numero di posti forniti di notte e di giorno, e di pasti erogati a persone senza fissa dimora” in città. “Dal 2019 al 2020 il numero di migranti fragili o persone senza dimora che hanno chiesto aiuto ai servizi convenzionati con Roma Capitale è rimasto stabile anzi aumentato di qualche centinaia passando da 21.106 a 21.410 (vedi osservatorio.roma.it), ma il dato rilevante è che invece il numero di persone accolte è passato da 6.470 nel 2019 a 4.078 nel 2020, con una diminuzione quindi del 37 per cento, a significare che molte di quelle persone che hanno chiesto aiuto e un posto dove dormire, a causa delle restrizioni della pandemia non lo hanno ottenuto. Situazione simile nel 2021 dove con 19.000 persone che hanno chiesto aiuto 3.940 hanno trovato accoglienza in un centro. Uno sforzo è stato fatto negli ultimi mesi in cui con il piano freddo che ha coinvolto anche i municipi di Roma il circuito di accoglienza è aumentato di circa 500 posti, e la cosa più importante è che finalmente alla fine del freddo quei posti sono stati mantenuti, arrivando oggi alla soglia dei 2.700 posti notturni al giorno. Ovviamente non bastano ancora ma è già qualcosa”.

La pandemia ha cambiato le modalità di accoglienza, racconta Radicchi: “Non si potevano abbandonare le persone a ridosso del primo lockdown, anche perché l’impatto psicologico non poteva essere sottovalutato. Nel momento della grande paura del virus, in cui si diceva ‘tutti a casa’, c’erano persone che a casa non potevano starci perché una casa non l’avevano. E se vediamo bene, purtroppo, l’effetto involutivo della pandemia, a livello relazionale, tra gli adolescenti, tanto più questo riverbero ha compito chi si è trovato a oltrepassare, anche per via del lockdown, la soglia di povertà”. Non c’erano ancora i vaccini, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, ma c’era chi, anche all’arrivo dei vaccini, non poteva vaccinarsi: niente dimora, niente tessera sanitaria, un circolo vizioso di emarginazione anche sanitaria, motivo per cui Binario 95, con l’ospedale San Gallicano e il dottor Aldo Morrone, ha attivato il servizio Dottor Binario per tamponi e immunizzazioni. “Ora vediamo l’onda lunga del Covid”, dice Radicchi: “Arrivano persone sfrattate dopo lo sblocco degli sfratti, licenziati dopo lo sblocco dei licenziamenti, una fascia grigia prima sommersa che viene alla luce”. E chi a Binario 95 è a contatto tutti i giorni con le persone che chiedono aiuto, come Fabrizio Schedid, racconta che cosa chiedono dopo che si ritrovano in strada: dove vado a mangiare, dove posso fare una doccia, posso ricaricare il cellulare, c’è un posto letto? Lo sportello è uno sportello per il disagio sociale in senso ampio. Prima del lockdown 2020, dice Schedid, “non avevamo mai più di 600 richieste di accesso ai servizi al mese, magari anche da parte delle stesse persone. Ora siamo sempre sopra i 1.000, con medie di 1.400-1.500”. C’è chi chiede aiuto per avere accesso al reddito di cittadinanza, ma è senza documenti. E c’è chi si rivolge all’help center perché è scivolato nel disagio estremo: “Non si tratta di persone che si rivolgono al municipio, magari per il bonus affitto. Sono persone che non hanno più nulla. Anche persone tra i 20 e i 45 anni che prima lavoravano in nero, nella ristorazione, negli alberghi, nei piccoli Deli. Stranieri che alloggiavano con connazionali facendo turni per dormire nello stesso appartamento, in base all’orario di lavoro. O italiani che non hanno più ritrovato un lavoro, tra cui molte badanti. Viene anche chi, oltre al lavoro, ha perso gli affetti: neo-separati sbattuti fuori di casa perché con la disoccupazione è andato in crisi anche il rapporto, gente che ha vissuto in B&B a basso prezzo finché la pandemia faceva sparire i turisti, e che ora non può più permettersi il prezzo tornato alto. Per un periodo ti barcameni, ma poi? Diciamo che il lockdown ha fatto andare a fondo chi appena riusciva a galleggiare”. Ci sono anche quelli che in questi due anni hanno avuto la cassa integrazione, ma ora non ce l’hanno più. E quelli che hanno perso, in periodo di pandemia, due lavori: quello nella ristorazione, per esempio, e quello stagionale sulla costa romagnola, dove gli alberghi sono rimasti a lungo chiusi. Gente che ha ancora una casa, ma non ha più reddito e la casa rischia di perderla, perché a 50 anni nessuno lo assume più. E gente che l’ha appena persa perché non paga più l’affitto, visto che lavorava in cantieri che non hanno più riaperto.

 

“Durante il lockdown abbiamo visto anche il caso di una badante portata sotto il nostro centro con la valigia dagli ex datori di lavoro che avevano paura del virus e non volevano più tenere questa persona in casa con la nonna”, dice Schedid. L’altro problema è quello del circolo vizioso burocratico che si crea per i senza fissa dimora: durante il Covid c’era chi non poteva neanche entrare nel centro perché non aveva i soldi per fare un tampone – ed ecco il perché dell’iniziativa Dottor Binario. E c’è chi tuttora, non avendo un indirizzo, non può farsi spedire la tessera sanitaria (e fino a qualche mese fa non poteva vaccinarsi): persone che senza green pass non potevano lavorare o spostarsi in un’altra città in cerca di impiego. “La cosa più grave è che la pandemia è arrivata dopo dieci anni di una crisi già di per sé difficile da governare, facilitando la marginalizzazione di chi già era precario. Ora, anche se c’è una relativa ripresa, è difficile recuperare”, dice Schedid. Non è da sottovalutare la dimensione di fallimento personale che blocca anche chi potrebbe riprendersi: “Ci sono persone che si sentono in colpa, e che oltre al danno economico sono paralizzate da quello relazionale, perché prima hanno chiesto aiuto a parenti e amici ma ora hanno smesso per vergogna, e che, non avendo nulla, devono scegliere se mangiare o provare a lavorare, visto che mangiano solo alla mensa di solidarietà e gli orari magari sono inconciliabili, magari, con la settimana di prova per un’eventuale assunzione”. A Binario 95 hanno attivato un servizio di assistenza per chi non parla la lingua e deve avviare le pratiche per il permesso di soggiorno o per il suo rinnovamento. “Ma bisogna andarle a prendere, queste persone. Come anche bisogna avvicinarsi a chi ha trovato appoggio presso qualcuno che può ospitarlo e dargli un pasto, ma magari poi lo avvia allo spaccio o alla prostituzione come forma di compenso”. E se dare un panino a chi ha fame può servire per un giorno, dicono a Binario 95, il giorno dopo la persona deve essere messa in grado di capire come scalare la montagna da sola e scendere dall’altra parte. “Non è ineluttabile, la povertà estrema”, dice Schedid, “ma all’inizio bisogna aiutare a rimuovere i primi ostacoli che ti fanno sentire come nelle sabbie mobili: più cerchi di uscire più sprofondi. Come può chi è precipitato tornare a sentirsi autonomo? Questa è la domanda a cui cercare di rispondere. Ed è un tema di prossimità. Non c’entra il buonismo: anzi, alla nostra società ‘conviene’ che chi ora è ai margini si risollevi, lavori, paghi le tasse. E le persone che arrivano nel nostro centro, per la maggior parte, non vogliono stare sedute a non fare nulla. Il nulla uccide. ‘Datemi un lavoro anche in cambio dell’alloggio, senza essere pagato’, dicono”.

 


La mattina dopo, a Trastevere, parliamo con Angelo (nome di fantasia), su segnalazione di un barista che lo conosce. Angelo vive per strada da quasi due anni, in un angolo nascosto nel lato meno turistico del quartiere, e per mangiare chiede la carità a persone e ristoratori. Non vuole foto, non vuole essere riconosciuto: “Magari domani trovo lavoro, chissà”. Chi abita nei dintorni dice che ha un amico che gli permette di lavarsi ma non può ospitarlo, e infatti Angelo non sembra uno che dorme per strada. Ha 54 anni, e da quando ne aveva 19 ha lavorato come cameriere in vari bar della zona. Poi l’ultimo datore di lavoro ha chiuso l’attività per via del Covid. La piccola casa che Angelo aveva preso in affitto in periferia non ha più potuto pagarla. “Neanche una stanza, posso pagare”, dice. Non ha famiglia: i parenti anziani sono tutti morti. Non ha moglie e non ha figli. Spera di avere presto un alloggio, tramite “i contatti con le parrocchie”. Intanto saluta i passanti e conta i rintocchi delle campane della chiesa poco distante. “Le campane mi fanno compagnia. E saluto, sì, dico buongiorno agli sconosciuti anche se poi non mi fanno la carità, perché non bisogna mai perdere l’educazione”.
 


Foto e video di Priscilla Ruggiero

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.