Tra sacro e profano

Siamo proprio sicuri di conoscere il Dio di cui tanto parliamo e scriviamo?

Alfonso Berardinelli

Il pensiero di Dio è uno dei più complessi, originari e definitivi: mette alla prova, ha sempre messo in vari modi alla prova la coscienza e i sentimenti umani, di intellettuali e di analfabeti. Il modo di concepirlo è all’origine di diverse civiltà e culture, quasi tutte

Ricevo dalla Bollati Boringhieri due libri su Dio. Il primo lo ha scritto Stefano Levi Della Torre, si intitola Dio e vedo che è uscito nel novembre 2020 (150 pp., 12 euro). Il secondo è un solenne volume con copertina dura, si intitola un po’ misteriosamente, o presuntuosamente, Anatomia di Dio, autrice Francesca Stavrakopoulou e la traduzione dall’inglese è appena uscita (558 pp., 32 euro). 


Che succede? Dio è di moda? O Dio mi viene a cercare e mi chiede di pensare a lui dato che il mondo soffre e peggiora e sarebbe ora di essere un po’ meno distratti e fatui? La prima ipotesi, quella della moda, è un po’ volgare, anche se perfino nelle mode può esserci qualcosa di serio. La seconda ipotesi è molto seria, sia che riguardi la mia persona, sia che riguardi l’intero mondo. 
Il pensiero di Dio è comunque uno dei più complessi, originari e definitivi: mette alla prova, ha sempre messo in vari modi alla prova la coscienza e i sentimenti umani, di intellettuali e di analfabeti. Il modo di concepirlo è all’origine di diverse civiltà e culture, quasi tutte. Anche l’ateismo è una concezione che mette al centro l’idea di Dio affermando la sua negazione e la sua assenza dalla realtà. Parlare di questo in un articolo di giornale di media misura può sembrare irresponsabile e non appropriato, ma è soprattutto comico, se è vero che la comicità si fonda quasi sempre su un evidente sproporzione tra la grandiosità delle imprese o pretese e la pochezza delle forze. 


Accetto la comicità, convinto come sono che noi esseri umani siamo tragici, ma più spesso, o quasi sempre, comici. L’attuale guerra in Ucraina è un evento così tragico che sta diventando difficile parlarne. Eppure la piccolezza, la meschinità, la stupidità che hanno spinto Putin a scatenarla sono in se stesse di natura comica. Bombardare, invadere, cercare di distruggere un paese, una nazione, intere città per impadronirsene e annetterle al proprio territorio è un istinto tragicamente (comicamente?) sproporzionato, assurdo, impresentabile, osceno come mostrare in pubblico il proprio sesso o culo. Putin ha svergognato la Russia e l’aspetto imperialistico di tutta la sua storia. 


Torno a Dio, o meglio al fatto che sia l’argomento di due libri che ho appena ricevuto. Del sintetico, ma direi quasi esauriente libro di Levi Della Torre mi limito a citare una frase saliente messa in evidenza sia dall’autore che dall’editore. Viene riportata in quarta di copertina: “La questione di Dio riguarda la forma complessiva della conoscenza e del pensiero. E’ una questione troppo seria per lasciarla ai soli credenti”. Io aggiungerei: ai soli teologi, o teorici, studiosi e intellettuali specializzati in materia di Dio. Il teologo è il contrario del mistico, razionalizza Dio, ne fa un oggetto da definire e sistematizzare in una dottrina in modo da renderne più pratico e semplice l’uso. Le Sacre Scritture sono la bibliografia di riferimento del teologo, al di fuori della quale non osa andare: nella tradizione ebraico-cristiana tende a diventare “biblista”. 


Ci sono poi i filosofi teologizzanti, più volgarmente definibili “snob estremisti” della filosofia, perché, così come lo snob ama la nobiltà e si appassiona a frequentarla, così il filosofo snob frequenta il più altolocato e nobile dei soggetti filosofici: cioè Dio. A rigore, soltanto chi ha esperienza diretta di Dio o del divino, cioè il mistico, dovrebbe parlare di Dio. Ma l’onestà impedisce al mistico di tradurre Dio in parole, perché sa che la sproporzione fra Dio e le parole, perfino quelle delle Scritture, è incommensurabile. 
Questo tema o problema è formulato da Levi Della Torre quando dice che identificare Dio con le parole su Dio è idolatria: infatti “idolo è questa sostituzione e destituzione del divino attraverso un atto linguistico, un prodotto della nostra mente e delle nostre mani”. Dunque un testo, un’immagine, una statua, un tempio. Si tratta della “contiguità tra religione e idolatria”. 


Questione non da poco, se è vero che biblicamente il peccato per eccellenza è proprio l’idolatria. E’ ciò che rischia Francesca Stavrakopoulou con la sua Anatomia di Dio. Ha studiato teologia a Oxford, la insegna all’Università Exeter, è accademicamente autorevole, è un’erudita antropologa culturale, ma mi sembra che si sia appassionata un po’ troppo a un Dio maschio, carnale, potente, padre: un Dio biblico gigantescamente uomo, così corporalmente involto nella materialità da aver preannunciato l’implicito ateismo materialistico nascosto sotto una serie di edificanti se non ipocrite astrazioni cerimoniali diffuse nel nostro occidente. Nel prologo l’autrice scrive: “Questo è il libro che avrei voluto leggere quando frequentavo l’università. Un libro che narra la storia del Dio reale della Bibbia in tutta la sua fisicità scandalosa e senza alcuna censura. Quello che cerco di fare è grattare via la patina teologica accumulata sui testi biblici nel corso di secoli di devozione ebraica e cristiana […] un Dio enorme, muscoloso, dai poteri sovrumani, dalle passioni terrene e con un’inclinazione per il fantastico e il mostruoso” (p. 28). 


Non avendo un particolare rispetto di meriti o titoli accademici in materia religiosa e teologica, mi permetto di dire che l’autrice ci gode a tirare Dio in basso, non vicino agli esseri umani, ma vicino all’immagine più caricaturale che si può fare il più ingenuo e ottuso dei credenti. Questa non è certo una novità: il Dio di cui si parla somiglia sempre a chi ne parla e alla sua mentalità. Il più grave rischio dei discorsi su Dio è il desiderio di appropriarsene. Credendo di eliminare la censura che nega la materialità carnale gigantesca del Dio antico, Stavrakopoulou censura la divinità di Dio per farne un fantoccio divertente o raccapricciante. 
Più congruamente ispirato perché non sedotto dagli show mitologici, è un terzo libro su Dio, quello di Emanuele Dattilo intitolato Il dio sensibile. Saggio sul panteismo (Neri Pozza, 367 pp., 22 euro). Anche il Dio “sensibile” non è un’astrazione. Il suo essere onnipresente lo determina senza limitarne la localizzazione. Elimina la distinzione oppositiva tra sacro e profano e non spedisce in cielo la divinità, né la consegna a una tradizione religiosa in alternativa a ogni altra. Quella che è stata combattuta come un’eresia dal potere dottrinario delle caste sacerdotali, il panteismo, è in realtà il più solido fondamento di ogni possibile “ortodossia”, nonché di un nuovo universalismo pluralistico delle religioni del mondo. “Il panteismo”, scrive Dattilo “è una corrente che attraversa come un vento il pensiero […] Solo mantenendo aperta questa categoria si renderà visibile come tutto il discorso su Dio che ci è familiare non sia stato che un rovescio parodico del pensiero panteistico”. 
Che cos’è il Dio onnipresente, onnisciente e onnipotente del catechismo se non un Dio sensibilmente panteistico? Tutto il resto può variare, l’ubiquità di Dio direi di no.

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