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Quando il nostro mondo ha smesso di essere cristiano?

Giulio Meotti

Nel 1965 Guillaume Cuchet racconta il tracollo da cui non ci siamo mai ripresi

Nel film del regista canadese Denys ArcandLe invasioni barbariche” c’è una scena in cui un vecchio prete mostra a una responsabile d’aste di Londra tutti gli oggetti religiosi – statue, icone, dipinti, crocifissi – ammassati negli scantinati e di cui la chiesa si vuole liberare sul mercato. “Nel 1966, le chiese si svuotarono in poche settimane”, le dice l’anziano sacerdote. Nessuna spiegazione, nessun presagio, niente. Cosa era successo?

 

La risposta la fornisce un nuovo libro uscito in Francia, Comment notre monde a cessé d’être chrétien, pubblicato da Seuil e a firma dello storico Guillaume Cuchet, professore di Storia contemporanea presso l’Università Paris-Est Créteil. L’autore inizia

“Il lavoro di venti secoli è stato travolto in meno di una generazione” scrive Besançon sul libro di Cuchet

dalla serie di studi che sono diventati un monumento storiografico, quella Carte religieuse de la France rurale realizzata da Fernand Boulard alla fine della Seconda guerra mondiale, e finalizzata a tracciare una mappa precisa della situazione religiosa in Francia. Boulard vi tratteggia un paese profondamente scristianizzato dall’Aquitania alle Ardenne, ma circondato da periferie solidamente religiose. Ed è proprio in questo momento che si verifica la “svolta del 1965”. Improvvisamente, anche le periferie crollano. E la carta di Boulard non funziona più.

 

La parola che ricorre nel libro e nel sottotitolo è questa: effondrement. Collasso. Nessuno aveva visto niente arrivare. Da lì in poi ci spostiamo verso una Francia che converge verso la scristianizzazione. La tesi di Guillaume Cuchet è forte, chiara e brillantemente difesa: la caduta degli anni Sessanta è spiegabile col Vaticano II, a cui sono stati aggiunti cambiamenti demografici e sociali. Il concilio modernista, sconvolgendo prassi e dogma, affonda il cristianesimo al suo cuore. Lo storico collega questa scristianizzazione alla prima grande decristianizzazione che si è svolta durante gli sconvolgimenti rivoluzionari. Una prima Francia, scristianizzata alla fine del XVIII secolo, è stata in seguito agganciata da una seconda Francia, scristianizzata nel 1965.

 

Fu tra il 1965 e il 1966, infatti, che la pratica domenicale crollò in massa, vale a dire alla fine del Concilio Vaticano II, quando era iniziata la riforma liturgica. Guillaume Cuchet smonta l’equivoco secondo cui il Sessantotto (per la destra) e l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI (per la sinistra) furono i fattori scatenanti di questa battuta d’arresto epocale. Era tutto iniziato prima, nel 1965.

 

Come scrive lo storico Alain Besançon nel magazine Causeur questa settimana, “Guillaume Cuchet analizza brillantemente il disastro che ha travolto il lavoro di venti secoli in una generazione. Quando i 2.500 vescovi che per tre anni avevano discusso in San Pietro il Concilio Vaticano II, si baciarono per congratularsi, erano convinti che la chiesa cattolica avesse fatto un nuovo inizio. Per preparare questo luminoso futuro, il clero francese si affrettò a cambiare tutto. Nuova liturgia, nuova predica, nuovi libri. Ahimè, tre volte ahimè! Invece del boom previsto, è stata la debacle. Si dice che un milione e mezzo di praticanti regolari rimangano. Ci sarebbero il doppio di musulmani. Qual è la religione maggioritaria? Ma di questo declino, quali sono le cause? Il Vaticano II non è la causa, ma solo l’evento scatenante. Si stava preparando già prima: l’invecchiamento della popolazione, la diserzione delle campagne, l’abbandono dei giovani, la televisione, l’immigrazione…”.

 

“I fedeli non ebbero più bisogno di ascoltare una religiosità vaga e ottimista, schiacciata dalla cultura dominante”

Cuchet racconta lo smantellamento dei vecchi altari, la nuova liturgia “verso il popolo”, l’abbandono della talare, la nuova “familiarità con Dio”, la politicizzazione a sinistra, lo smarrimento collettivo. Secondo Besançon, “i fedeli non ebbero più il bisogno di ascoltare i sermoni che predicavano la moralità umanitaria, il buon spirito sociale, l’antirazzismo, la simpatia per tutte le religioni e altre raccomandazioni sentite ogni giorni in televisione”.

 

L’analisi che Cuchet fa dei discorsi dei sacerdoti, raccolti nei bollettini parrocchiali, mostra un cambiamento senza precedenti. Subentra una “religiosità vaga e ottimista”, con un pervasivo dominio dei temi sociali in una “complicità più o meno dichiarata con la cultura dominante”. Il massiccio abbandono della pratica cristiana fu accompagnato, se non in una certa misura facilitato, da una grande smobilitazione dei sacerdoti.

 

I fedeli ebbero la forte sensazione che anche “i preti non ci credessero più”, e questo secondo Cuchet ebbe effetti devastanti su di loro. Particolarmente preoccupante era il massiccio abbandono del sacerdozio, con diverse centinaia di casi all’anno dopo il 1965. Si tratta di un fenomeno eccezionale, incruento, a differenza delle déprêtrisations sotto il Terrore rivoluzionario nel 1793-1794. Da allora, il clero francese non si è più ripreso.

 

La Croix scrive che “le diocesi francesi perderanno in media un quarto dei preti attivi entro il 2024”. A Nantes, i sacerdoti diminuiranno della metà, da 148 a 75, e a La Rochelle da 104 a 45. Molte diocesi rischiano di essere cancellate dalla mappa della Francia. Nel 2016, c’erano poco meno di 16 mila sacerdoti in Francia. Ogni anno sono circa ottocento le morti naturali nel clero.

 

Data la tendenza quasi inevitabile, la Francia avrà appena seimila sacerdoti fra dieci anni. Erano 50 mila nel 1970. “Al ritmo attuale, tra dieci anni non ci saranno più di 80 preti diocesani contro i 180 attuali”, dice il vicario generale della diocesi di Tolosa, Hervé Gaignard. Nel 2015 sono stati ordinati 120 sacerdoti. Nel 2016, solo cento sacerdoti e non soltanto un quarto di essi è tradizionalista, ma una quarantina è rappresentata da vocazioni “tardive”, ovvero provenienti dalla società civile e non più dai seminari, da cui ne sono usciti soltanto 83 in tutta la Francia e su una popolazione di sessanta milioni di persone. Il declino appare inesorabile.

 

Quell’anno escono i libri più allarmisti sul futuro della chiesa cattolica, come “Le Christianisme va-t-il mourir?” di Delumeau

Questo collasso fu tanto più spettacolare in quanto i precedenti studi sociologici fino al 1962 erano stati piuttosto ottimisti. Il progetto Boulard del famoso canonico, realizzato su un progetto iniziale del sociologo Gabriel Le Bras, aveva indicato il periodo postbellico come quello di una ripresa per il cattolicesimo francese. E poi, patatras! Nel marzo del 1975, tra molti altri studi e sondaggi, un’indagine rivelò un calo del 47 per cento nella pratica cattolica della diocesi di Parigi. Nel 1974, a Lille, fu scoperto che un terzo dei praticanti era scomparso, come svanito nel nulla.

 

Oggi siamo passati a meno del due per cento dei praticanti in tutta la Francia. La sociologa Danièle Hervieu-Léger ritiene che “in Francia la chiesa cattolica è entrata in una crisi da cui non può uscire”. La scristianizzazione sta progredendo significativamente.

 

Questa è la conclusione anche dell’istituto Csa in un rapporto di tre anni fa. Nel 1986, l’81 per cento dei francesi dichiarò di essere cattolico, il 69 nel 2002 e solo il 56 nel 2012, un calo di 25 punti in 26 anni. Allo stesso tempo, cresce invece la percentuale di francesi che dichiarano di abbracciare una religione diversa dal cattolicesimo: dal 3,5 per cento nel 1986 al 9 nel 2002 e all’11 per cento nel 2012. “La percentuale di cattolici negli adulti potrebbe scendere al di sotto della soglia simbolica del cinquanta per cento nei prossimi dieci anni”, secondo il Csa.

 

L’ultimo “Congresso missionario”, che in autunno ha tenuto la sua terza edizione a Parigi, ha individuato nella Francia una “terra di missione”. Un paese da riconvertire. “E’ pazzesco quando si vede lo stato di scristianizzazione del paese”, ha dichiarato all’Afp uno degli organizzatori, Samuel Pruvot. “In molte diocesi esiste ora l’addestramento alla missione”, afferma l’antropologa Valérie Aubourg, che insegna all’Università Cattolica di Lione.

 

Nel 1952, il 51 per cento degli adulti battezzati dichiarò di confessarsi una volta all’anno. Nel 1974, quel numero era sceso al 29 per cento, poco più della metà. Istintivamente forse sapevamo tutto questo, ma quello che Guillaume Cuchet mostra è che questa rottura fenomenale ebbe luogo nella chiesa prima che nella società.

 

“‘La civetta di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo’, ha detto Hegel, suggerendo che lo storico, qualunque esso sia, è spesso un uccello di inquietudine per la vitalità degli oggetti che studia”, scrive Cuchet all’inizio del libro. “Boulard era solito

Nel 1952, il 51 per cento diceva di confessarsi una volta all’anno. Nel 1974 quel numero era sceso al 29 per cento

iniziare citando alcune cifre significative. In Francia, diceva, circa il 94 per cento della generazione passata è stato battezzato entro tre mesi dalla nascita. Almeno il 60 per cento dei francesi ha partecipato al culto o ha digiunato il venerdì, il 25 per cento è andato a messa ogni domenica. Una domenica degli anni Cinquanta, alla messa poteva partecipare anche il cento per cento degli abitanti di un villaggio nel nord della Vandea”.

 

Adesso, secondo alcuni sociologi, “saremmo persino testimoni, in numero assoluto, di un ‘incrocio delle curve del fervore’ nella società francese tra islam e cattolicesimo. Non possiamo dire che stiamo vivendo la ‘crisi terminale’, come scrivono Emmanuel Todd e Hervé Le Bras, che promettono al cristianesimo più o meno lo stesso destino del comunismo”.

 

Non a caso, scrive Cuchet, dopo il 1965 escono i libri più duri contro il modernismo cattolico e che annuncia la fine. Nel 1966, il filosofo Jacques Maritain pubblica “Il contadino della Garonna”, una carica contro il “neo-modernismo” contemporaneo. Nel 1968, Louis Bouyer dà alle stampe “La decomposizione del cattolicesimo”, un’accusa implacabile delle tendenze cattoliche del suo tempo che probabilmente gli costarono la nomina a cardinale. Nel 1973, il sociologo domenicano Serge Bonnet firma “A hue et à dia”, in cui ha denunciato gli orientamenti, ai suoi occhi suicidi, della pastorale postconciliare. Nel 1974, il gesuita Michel de Certeau e Jean-Marie Domenach escono con “Le christianisme éclaté”. Nel 1976, Paul Vigneron pubblica la sua storia della crisi del clero francese. Lo stesso anno, Jean Delumeau fa scalpore con “Le Christianisme va-t-il mourir?”. “Tutta una serie di domande basilari, che sono il primo compito dello storico, non hanno trovato la loro risposta” scrive Cuchet. “Quando è avvenuta esattamente la rottura? Quanto velocemente? In che proporzioni? E’ stato brutale, progressista, entrambe le cose allo stesso tempo? Ha cause religiose, culturali, sociali?”.

 

Prevedibilmente, il cristianesimo in Francia sarà in grado di sopravvivere come una piccola minoranza assediata e rumorosa, ma può anche scomparire come sta succedendo nelle antiche terre della cristianità, l’Iraq e la Siria. Le domande poste nel libro da Cuchet restano inevase. Come l’idea che, da quel 1965, l’occidente non si sia mai davvero ripreso dopo quello choc culturale. Perché come ha scritto il sociologo laico Marcel Gauchet nel libro “Le Désenchantement du monde”, “se non succede nulla possiamo dire che in un secolo non resterà molto nell’Europa del cristianesimo”.

La chiameranno ancora “Europa”, ma sarà ancora di cultura europea?

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.