Papa Francesco in un momento del suo viaggio apostolico in Cile, nello scorso gennaio (foto LaPresse)

La notte cilena della fede

Matteo Matzuzzi

Da bastione del cattolicesimo a regno dell’agnosticismo. Così la chiesa ha perso una delle sue perle

Anno 1941. Alberto Hurtado, gesuita, scrittore ma soprattutto e prima di tutto sacerdote venerato in vita e futuro santo, provocatoriamente domandò in un suo libro: “Il Cile è cattolico?”. Ingiustizie sociali, clero sempre più scarso, vocazioni ridotte al lumicino, fedeli credenti un po’ a modo loro, un cristianesimo naïf che si diffondeva da un capo all’altro della cordigliera andina. Chissà cosa direbbe Hurtado se tornasse sulla terra oggi, quasi ottant’anni dopo. Con le bombe piazzate all’esterno delle chiese nei giorni precedenti alla visita del Papa, un giorno lontano occasione irripetibile di festa e ora occasione di contestazione. Il Cile, che tra le vecchie colonie latinoamericane era considerata la perla della fede, specie grazie all’impulso che diede Pio XII con l’istituzione del Celam, è oggi terra di nessuno. Travolto da scandali, fin da quando qualche suo vescovo non riteneva del tutto inopportuno l’appeasement con la junta di Augusto Pinochet. Il cattolicesimo in Cile, oggi, affronta la sua ora più difficile. Se n’è accorto anche il Papa, lo scorso gennaio, quando nel suo viaggio nel paese latinoamericano ha incontrato strade quasi deserte, cartelli che ne denunciavano l’inazione sul fronte degli abusi sessuali sui minori, contestazioni varie nel generale disinteresse. I media, impietosi, mostravano le foto delle piazze vuote, delle messe con la metà della gente prevista dagli organizzatori. “Il Papa è venuto a raccogliere ciò che è stato seminato”, diceva Juan Carlos Claret, il portavoce dei laici di Osorno, diocesi centrale in questa storia. Quei giorni di gennaio hanno rappresentato il frangente più complicato del primo quinquennio di pontificato. “Questa visita la possiamo vivere come una catastrofe oppure come una grande opportunità”, diceva alla vigilia del viaggio papale padre Felipe Herrera, addetto all’organizzazione della spedizione vaticana nel paese latinoamericano.

 

Le domande di Alberto Hurtado sono più che mai attuali, a più di sessant’anni dalla morte del sacerdote canonizzato nel 2005

Il macigno che pesa è quello che reca il nome del vescovo Juan Barros, pastore di Osorno lì nominato da Francesco nonostante quel che da anni si dicesse sul suo conto. Discepolo di padre Fernando Karadima, pedofilo seriale messo a riposo dalla congregazione per la Dottrina della fede nel 2011, Barros – secondo gli accusatori, che poi sono le vittime di Karadima – avrebbe saputo tutto quel che il suo mentore faceva, secondo qualcuno pure partecipando alle azioni del padre spirituale. Quando tre anni fa fece ingresso nella sua diocesi, per volontà di Jorge Mario Bergoglio, fu accolto da lanci di oggetti; in cattedrale si alternavano slogan, cori, proteste. La processione fu costretta a fermarsi più volte mentre incedeva verso l’altare. Barros costretto a tenere la mitra con la mano, dal momento che pi d’uno tentava di strappargliela dal capo. Non ha aiutato a rasserenare il clima la difesa a oltranza che il Pontefice ha fatto di Barros, definito un bravo vescovo contro il quale sono state lanciate solo “calunnie” senza alcuna prova. Chiacchiericcio e basta, insomma. Supposizioni non suffragate da nulla. Francesco ha anche ricordato di aver rifiutato per due volte le dimissioni che pure il vescovo gli aveva offerto. Il risultato è stato che a finire nel tritacarne è finito lo stesso Papa, messo in croce non solo dalla grancassa mediatica, ma anche dai suoi cardinali, e da uno in particolare: il cappuccino arcivescovo di Boston, la diocesi di Spotlight, Sean Patrick O’Malley. Il Papa era ancora in Cile e il cardinale americano diffondeva attraverso il sito della diocesi un comunicato in cui prendeva le distanze dalle dichiarazioni di Francesco a sostegno del vescovo Barros: “E’ comprensibile che le dichiarazioni di Papa Francesco rilasciate giovedì a Santiago del Cile siano fonte di grande dolore per i sopravvissuti agli abusi sessuali da parte del clero o di qualunque altra persona. Le parole del Papa trasmettono il messaggio che se non puoi provare le tue affermazioni, allora non sarai creduto” e in sostanza danno l’idea di un “abbandono di coloro che hanno subito violenze riprovevoli della loro dignità umana”, “relegando i sopravvissuti nel discredito”. Il fossato s’allargava pericolosamente, urgeva correre ai ripari. Tornato a Roma, Francesco inviava un proprio rappresentante a Santiago con l’incarico di ascoltare le vittime facendo rapporto direttamente a lui. E la relazione deve essere stata particolarmente corposa se è vero che subito dopo il Papa ha fatto mea culpa, si è scusato spiegando di essere stato male informato sulla situazione disastrosa in loco e, soprattutto, di non avere visto le prove sul conto di Barros che pure qualcuno dal Cile gli aveva spedito. Da qui l’idea di convocare le vittime a Roma per un dialogo franco e riservato – loro poi hanno convocato una conferenza stampa dicendo che vorrebbero vedere in galera schiere di cardinali criminali e che si aspettano decisioni importanti da parte del Vaticano – e di spedire una lettera ai vescovi cileni in cui li si invita a presentarsi a Santa Marta per discutere della questione, passo necessario prima di prendere i dovuti provvedimenti. Prima cioè di decapitare la gerarchia cattolica in quel paese. “Sono stato parte del problema. Sono stato la causa di ciò e chiedo perdono”, avrebbe detto il Papa nei giorni scorsi alle tre vittime ricevute e ascoltate a Roma nei giorni scorsi, chiedendo azioni esemplari contro i vertici della chiesa cilena, dall’attuale arcivescovo di Santiago, il cardinale Ricardo Ezzati – che nega di essere colui che ha “male informato” il Pontefice – al suo predecessore, il cardinale Francisco Javier Errázuriz Ossa, talmente stimato da Bergoglio da averlo incluso nel C9 che da cinque anni studia come cambiare la curia romana.

 

Il “tradimento” subìto da Francesco da parte dei suoi più stretti collaboratori. Il viaggio fallimentare, gli assalti in cattedrale

Ma ridurre la crisi di una chiesa al mero scandalo pedofilia sarebbe errato oltreché superficiale. I problemi vengono da lontano in quella che fu una tra le stelle più brillanti nel firmamento della chiesa sudamericana. Padre Fernando Montes, provinciale gesuita in Cile e compagno di studi di Jorge Mario Bergoglio (nonché per diciassette anni rettore dell’Università Alberto Hurtado) lo scorso gennaio ha spiegato alla Nación di Buenos Aires che “la chiesa cattolica, e in particolare la gerarchia, in Cile giocò un ruolo molto importante nella difesa dei diritti umani durante la dittatura. Finita quest’epoca, la chiesa era l’istituzione più rispettata nel paese, con più dell’ottanta per cento di approvazione. Oggi è una delle meno riconosciute in America latina”.

 

All’inizio dell’anno la fotografia perfetta l’ha fornita il Rapporto Latinobarómetro: il Cile è il paese che valuta peggio l’azione del Papa, ha meno cattolici e ha minore fiducia nella chiesa (poco più di tre cittadini su dieci dicono di averla). Se nel 1995 il settantaquattro per cento dei cileni si dichiarava cattolico, oggi lo fa solo il quarantacinque. In una scala da zero a dieci, quanto a “gradimento”, Francesco ha ottenuto il punteggio non sufficiente di 5,3.

 

C’entrano gli abusi sessuali e la conseguente campagna mediatica, certo, ma c’è di più: un crollo verticale dovuto anche – ricordava Montes – all’introduzione accelerata della modernità o postmodernità che ha mutato il ruolo della religione, la bassa capacità di leadership di una gerarchia meno sociale e più attenta all’etica sessuale e familiare. “La gente crede in Dio, prega, ma la sua appartenenza ecclesiale si scioglie, la pratica religiosa continua a decrescere e non si scorgono all’orizzonte segnali di ripresa”, scriveva il teologo Jorge Costadoat. In Cile, aggiungeva “si sono depotenziate le parrocchie, le comunità ecclesiali di base, le comunità religiose, i movimenti laicali e la partecipazione all’eucarestia domenicale, e non c’è alcun segno che stia germogliando una originalità più o meno rilevante”. Ma quel che è peggio – ed è anche l’aspetto più interessante dell’analisi – è che “lì la fede si è trasmessa come un credo, una cosmovisione, un’antropologia e una pratica religiosa” che nulla ha a che vedere con una “vera personalizzazione religiosa”. Un po’ quel che sosteneva padre Montes quando diceva che “benché la fede popolare sia forte, le inchieste mostrano un apprezzamento molto basso per la chiesa e una diminuzione notevole di quanti si dichiarano cattolici, specialmente tra i giovani. Il popolo cileno – aggiungeva – si aspetta di più dalla sua chiesa. La chiesa è divenuta più clericale”. Ecco il punto dolente, secondo Montes. Intervistato da Gianni Valente, auspicava che il Papa suggerisse che “non avanziamo in moralità imponendo più leggi e nuovi peccati, ma proponendo un ideale che si manifesta nella vita cambiata e resa moralmente coerente. Occorre dare testimonianza prendendo atto che la chiesa non è più egemone nella società”. Ma anche in tale situazione, va riconosciuto che in Cile “c’è una spiritualità popolare che si vede nelle moltitudini che vanno in pellegrinaggio al Santuario della Virgen de Lo Vásquez, nel giorno della Vergine Immacolata: più di un milione di persone”.

 

La piaga degli abusi sessuali, i vescovi contestati, le gerarchie incapaci di reagire. Il Papa prepara la resa dei conti finale

Si torna così alla domanda di Hurtado: cosa succede in Cile? Secondo Álvaro Ramis, docente all’Università del Cile, molto ha a che fare con la secolarizzazione imperante. “Benché questo sia un processo che riguarda tutta l’America latina – ha detto alla Deutsche Welle – nella società cilena è più avanzato che in altri paesi. La modernizzazione, legata al benessere economico, ha portato a un processo di individualismo molto profondo. E questo ha influito nel determinare il declino delle reti che la chiesa ha sostenuto con la solidarietà, le cooperative e le varie forme d’assistenza”.

 

Di sicuro appare insufficiente l’analisi della crisi che ha fatto il cardinale Ezzati, secondo il quale “i sondaggi dicono quello che dicono. Certamente quelli che professano di essere cattolici sono diminuiti in modo significativo. Ma ciò che è aumentato è il numero di quanti si definiscono agnostici e non credenti. E questo è un fenomeno mondiale. Basti pensare all’Europa, ai nostri vicini in Argentina e in Uruguay”. Per quanto attiene alla crisi, secondo l’arcivescovo di Santiago, “è presente come in ogni istituzione umana, ma le crisi sono un’opportunità per migliorare”. Troppo poco. Ancora prima della dura lettera inviata ai presuli locali con la convocazione a Roma (gli incontri si terranno a metà mese), Francesco qualche sassolino sul sentiero in Cile lo aveva lasciato. “I laici non sono i nostri servi, né i nostri impiegati. Non devono ripetere come pappagalli quello che diciamo. Vigiliamo, per favore, contro questa tentazione, specialmente nei seminari e in tutto il processo formativo”, aveva detto il Papa parlando ai presuli locali. “I seminari devono porre l’accento sul fatto che i futuri sacerdoti siano capaci di servire il santo popolo fedele di Dio, riconoscendo la diversità di culture e rinunciando alla tentazione di qualsiasi forma di clericalismo. I sacerdoti di domani devono formarsi guardando al domani”, e questo perché “il loro ministero si svilupperà in un mondo secolarizzato e chiede a noi pastori di discernere come prepararli a svolgere la loro missione in quello scenario concreto e non nei nostri mondi o stati ideali”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.